Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 giugno 2021, n. 16377

Contratto a termine, Nullità, Qualificazione in termini di
collaborazione autonoma, Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato di
tipo giornalistico a tempo indeterminato, Sottoposizione al potere
disciplinare e di controllo della parte datoriale

Rilevato che

Il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento delle
domande proposte da R.P. nei confronti della R.R.I. s.p.a.  dichiarava la nullità dei termini apposti ai
contratti – qualificati in termini di collaborazione autonoma – stipulati a far
tempo dal 1/9/1998; accertava l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di
lavoro subordinato di tipo giornalistico a tempo indeterminato da tale data;
condannava la società al pagamento di differenze retributive maturate sino al
14/7/2008; dichiarava, quindi, l’inefficacia del licenziamento orale intimato
alla scadenza dell’ultimo contratto e ordinava la riammissione in servizio
della lavoratrice con qualifica di redattore ordinario, condannando la società
al risarcimento del danno nella misura di euro 3.094,34 mensili dal dì della
messa in mora risalente al 15/7/2008, sino alla attualità.

Detta pronuncia veniva confermata dalla Corte
territoriale.

La cassazione di tale decisione è domandata dalla
R.R.I. s.p.a. sulla base di quattro motivi ai quali resiste con controricorso
l’intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt.
29 e segg. legge n.69 del 1963 in relazione all’art.
360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale la Corte
distrettuale ha acclarato la natura giornalistica del rapporto, sul rilievo che
la legge n. 103/1975 art. 7 di disciplina del sistema radiotelevisivo,
distingue fra strutture preposte ai servizi giornalistici e di informazione
(Testate Giornalistiche), e le strutture preposte alla ideazione e
realizzazione della programmazione televisiva e radiofonica (le Reti). La
disposizione richiamata prevede che solo ai telegiornali ed ai giornali radio
si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e dei periodici
contenute negli artt. 5 e 6 I. n.
47/1948.

Si osserva quindi che la P. aveva collaborato in
qualità di esperta – senza provvedere alla raccolta, elaborazione o commento
delle notizie – nell’ambito della programmazione di “Rete” e non di
“Testate Giornalistiche”, nell’ambito di un programma di
intrattenimento. La natura giornalistica del rapporto sarebbe esclusa anche in
virtù del contesto produttivo nel quale l’attività era stata resa. All’interno
del programma al quale aveva collaborato la P. era infatti impiegato personale
in possesso della. professionalità richiesta per la mesa in onda di
trasmissioni di intrattenimento (capostruttura, produttore esecutivo,
autori…), proprio in quanto non richiesta la presenza di giornalisti.

2. Il – secondo motivo prospetta violazione e falsa
applicazione degli artt. 2094, 1362, 1363 c.c. in
relazione all’art.360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si rimarca che la natura del rapporto di lavoro
inter partes non era ascrivibile all’archetipo della locatio operarum essendo
stata la lavoratrice sempre libera di organizzare tempi e modi di esecuzione
della prestazione, non essendo tenuta al rispetto di alcun orario né a
garantire la “sua presenza.

3. I motivi che possono congiuntamente trattarsi per
presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono fondati.

In generale giova rammentare come la giurisprudenza
di questa Corte abbia espresso un consolidato orientamento in tema di poteri
riconosciuti al giudice del merito nella qualificazione del rapporto di lavoro.
Si afferma in proposito che l’esistenza del vincolo di subordinazione va
concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito
dal lavoratore e al modo della sua attuazione, fermo restando che ogni attività
umana economicamente rilevante può essere oggetto di un rapporto di lavoro sia
autonomo sia subordinato.

In sede di legittimità è censurabile unicamente la
determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto,
mentre costituisce accertamento di fatto, incensurabile in tale sede se
sorretta da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici, la
valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad
includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale
(fra le numerose decisioni si vedano Cass.19/4/2010 n. 9251, Cass. 11/10/2017 n. 23846).

In particolare, nei casi di difficile qualificazione
del rapporto a causa della natura intellettuale dell’attività svolta occorre
fari riferimento ai dati fattuali emergenti dal concreto svolgimento della
prestazione, piuttósto che alla volontà espressa dalle parti al momento della
stipula del contratto di lavoro (vedi Cass.
15/6/2009 n.13858) perché è proprio dalle modalità di svolgimento del
rapporto, che è ricavabile l’effettiva volontà delle parti (iniziale o
sopravvenuta) intesa a definire l’inquadramento del rapporto.

Il peculiare rilievo attribuito dalla elaborazione
giurisprudenziale al comportamento delle parti esplicato nel corso dello
svolgimento del rapporto stesso (vedi Cass.
21/10/2014 n. 22289, Cass. 27/10/2003 n. 16119)
trae ragione anche dal fatto che l’iniziale contratto da vita ad un rapporto
che si protrae nel tempo, sicchè la volontà che esso esprime ed il nomen iuris
conferito, non costituiscono fattori assorbenti e decisivi, diventando
viceversa il comportamento delle parti posteriore alla  conclusione del contratto elemento necessario
ai fini della sua interpretazione (oltre che per l’accertamento di una nuova
diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del
rapporto).

Orbene, a siffatti principi si è conformata la Corte
di merito laddove ha proceduto ad un attento scrutinio di tutti i dati fpttuali
emergenti dal concreto svolgimento del rapporto (la quotidianità della presenza
in postazione fissa per almeno dieci ore al giorno, la partecipazione alle
riunioni di redazione due volte alla settimana, la partecipazione ai turni di
ascolto delle telefonate registrate), pervenendo a conclusioni coerenti con gli
approdi ai quali era pervenuto il giudice di prima istanza, tenuto conto che i
tratti intellettuali qualificanti le prestazioni rese dalla lavoratrice, non
imponevano la dimostrazione di una stringente sottoposizione al potere
disciplinare e di controllo della parte datoriale, essendo all’uopo sufficiente
l’inserimento in via continuativa nell’assetto organizzativo aziendale,
mediante sottoposizione a direttive generali, onde assicurare alla parte datoriale
una stabilità del servizio.

La creatività e la natura intellettuale
dell’attività qualificanti la prestazione lavorativa, imponevano, infatti, un
diverso approccio alla tematica della subordinazione, richiedendo la verifica
della esistenza di tale parametro realizzata mediante il ricorso ad elementi
sussidiari e da individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali
emergenti dallo svolgimento del rapporto stesso..

Elementi questi che, alla stregua dei dati probatori
acquisiti in giudizio, concorrono nel definire una prestazione di lavoro
ascrivibile alla categoria della subordinazione.

4. Anche la qualificazione in termini di lavoro
giornalistico del rapporto di lavoro inter partes da parte del giudice del
gravame, discende dalla corretta applicazione dei principi che la
giurisprudenza di questa Corte ha nel tempo, con chiarezza enucleato ed ai
quali si intende dare continuità, secondo i quali, ai fini della qualificazione
del rapporto di lavoro in terniini di lavoro giornalistico ciò che rileva non è
tanto l’alveo strutturale – organizzativo entro il quale la prestazione di
lavoro viene ad esplicarsi, bensì l’ontologica essenza della prestazione stessa
alla cui individuazione concorre una pluralità di indici.

Costituisce infatti, attività giornalistica –
presupposta, ma non definita dalla legge 3 febbraio
1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista – la
prestazione di lavoro intellettuale diretta alla raccolta, commento ed
elaborazione di notizie volte a formare oggetto di comunicazione interpersonale
attraverso gli organi di informazione, ponendosi il giornalista quale mediatore
intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il
compito di acquisire la conoscenza dell’evento, valutarne la rilevanza in
relazione ai destinatari e confezionare il messaggio con apporto soggettivo e
creativo; assume inoltre rilievo, a tal fine, la continuità o periodicità del
servizio, del programma o della testata nel cui ambito il lavoro è utilizzato,
nonché l’inserimento continuativo del lavoratore nell’organiizazione
dell’impresa (vedi Cass. 29/8/2011 n.17723).

Si deve quindi, intendere come giornalistica, quella
prestazione di lavoro intellettuale, della sfera dell’espressione originale o
di critica rielaborazione del pensiero, la quale, utilizzando il mezzo di
diffusione scritto, verbale o visivo, lè diretta a comunicare ad una massa
indifferenziata di utenti, idee, convinzioni o nozioni, attinenti ai campi più
diversi della vita spirituale, sociale, politica, economica, scientifica e
culturale, ovvero notizie raccolte ed elaborate con obiettività, anche se non
disgiunta da valutazione critica. (vedi Cass. 12/6/1985 n.3525).

Il giornalista si pone, dunque, quale mediatore
intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso, con il
compito di acquisirne la conoscenza, valutarne la rilevanza in relazione ai
destinatari e predisporre il messaggio con apporto soggettivo e creativo, ed
assumendo rilievo, a tal fine, anche l’attualità delle notizie e la
tempestività dell’informazione, che costituiscono gli elementi differenziatori
rispetto ad altre professioni intellettuali e sono funzionali a sollecitare
l’interesse dei cittadini a prendere conoscenza e cosciehza di tematiche
meritevoli di attenzione per la loro novità (Cass. 22/11/2010 n.23625). Questa
Corte, peraltro, con condivisibile approccio, ha altresì ritenuto che  non può iscriversi, in maniera riduttiva,
l’attività giornalistica radiotelevisiva soltanto nell’ambito dei radio o
telegiornali o nelle testate tipicamente giornalistiche e di informazione, ben
potendo rientrare la stessa anche in programmi di intrattenimento o li svago,
purché con contenuto propriamente informativo (Cass. 16/12/2013 n.28035),
essendo irrilevante a tali fini la legge 3 febbraio
1963, n. 69, sull’ordinamento della professione di giornalista (posto che
la legge citata – presuppone e non definisce l’attività giornalistica, Cass. 29/8/2011 n. 17723), ed ancora che è
irrilevante ai fini del riconoscimento della natura giornalistica dell’attività
svolta dal dipendente RAI lp struttura aziendale dell’ente presso cui egli
presta la sua attività, essendo significativo, piuttosto, il peculiare
carattere informativo (nel senso sopra esposto) delle mansioni svolte (Cass.
27/6/2013 n. 16229, Cass. 19/1/2016 n.830).
Orbene, nel pervenire all’enunciato convincimento, la Cdrte distrettuale si è
attenuta ai summenzionati principi, reputando privo di valenza decisiva il
richiamo di parte appellante alla disciplina del sistema radiotelevisivo che
avrebbe imposto alla RAI come società concessionaria del servizio pubblico, la
distinzione fra strutture preposte ai servizi giornalistici (testate
giornalistiche) e strutture preposte alla ideazione e realizzazione della
programmazione televisiva e radiofonica, e riscontrando nei contenuti della
prestazione resa dalla lavoratrice – di ascolto delle telefonate di
segnalazione di persone scomparse, acquisizione di altre notizie sui giornali
contattando fonti informative, verifica della fondatezza giornalistica, come
enucleati dalla consolidata giurisprudenza di delle notizie, redazione di un testo
informativo da sottoporre ai responsabili del servizio… – quei tratti
peculiari tipici della attività legittimità.

5. Con il terzo motivo si denuncia la nullità della
sentenza in relazione agli artt.112- 113 c.p.c. ai sensi del n. 4 comma primo art.360 c.p.c. ci si duole che la Corte di merito
abbia omesso di pronunciarsi in ordine alla doglianza, formulata in sede di
gravame, relativa agli effetti derivanti dalla trasformazione in unico rapporto
di lavoro a tempo indeterminato fissati dalla pronuncia di primo grado, che
erroneamente aveva comportato il pagamento delle retribuzioni anche per i
periodi non lavorati, lamentando altresì la mancata applicazione, ex officio,
dello jus superveniens di cui all’art.32
c.5 l.183/2010.

6. Con il quarto motivo si prospetta violazione e
falsa applicazione dell’art.32 c.5
l.183/2010. Si stigmatizza la pronunzia della Corte capitolina per
“non aver applicato lo jus superveniens di cui alla disposizione citata, e
che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto rilevabile d’ufficio, con il
solo limite del giudicato interno.

7. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi
siccome connessi, vanno disattesi.

E’ bene rimarcare che in ordine alla risoluzione del
rapporto inter partes, il giudice di prima istanza aveva considerato come,
posto che dal 14/7/2008 la RAI non aveva più conferito incarichi alla rico
irrente, limitandosi a comunicare verbalmente di non essere più disponibile in
tal senso, tale comportamento concludente andasse qualificato in termini di
licenziamento verbale.

Detta statuizione, peraltro, non era stata oggetto
di alcuna censura da parte societaria in sede di gravame né, a fortiori, lo è
stata nel presente giudizio di legittimità.

Deve, quindi, ritenersi intangibile il ricordato
dictum, confluito nella pronuncia emessa dalla Corte distrettuale, con il quale
è stata acclarata la natura orale del recesso e là sua inefficacia per
inosservanza dell’onere della forma scritta nonché l’inidoneità del
licenziamento a determinare la risoluzione del rapporto dal quale scaturiva
l’obbligo per la società di corrispondere alla lavoratrice le retribuzioni non
percepite.

Tanto precisato, non può sottacersi che le censure
formulate dalla ricorrente non si confrontano con le ricordate statuizioni e
non sono idonee a scalfirle, attesa l’inconferenza del meccanismo predisposto
dall’art.32 l.183/2010
rispetto alla qualificazione delle modalità di risoluzione del rapporto di
lavoro inter partes, in termini di licenziamento inefficace, elaborata dai
giudici del merito.

E’ infatti dato acquisito, per indirizzo
giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato in diritto vivente, che ai
fini della applicazione dell’indennità in questione, è necessario verificare la
ricorrenza del duplice presupposto della natura a tempo determinato del
contratto di lavoro dedotto in giudizio e della sua “conversione”.

Il disposto di cui all’art.32 c.5 l.183/2010, come
affermato dal Giudice delle leggi (vedi Corte Cost.
n.303 del 2011), risulta misura “adeguata a realizzare un equilibrato
componimento dei contrapposti interessi”, garantendo al lavoratore la
conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, unitamente «ad un’indennità che gli è dovuta sempre, senza oneri
probatori di sorta, e al datore di lavoro, la predeterminazione del
risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data
d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del
diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso
(vedi per tutte Cass. 12/2/2019 n.8385).

Nella fattispecie scrutinata, tuttavia, per quanto
sinora detto, tali presupposti non sono riscontrabili, vertendosi in tema di
effetti risarcitori connessi a licenziamento inefficace.

Il tema dibattuto nel giudizio di merito con
riferimento al momento di cessazione del “rapporto inter: partes, era
stato impostato in termini di inefficacia dell’atto risolutivo del rapporto di
lavoro, cd. in senso ampio – come precisato da avvertita dottrina – che
consegue a vizi attinenti ad elementi essenziali e costitutivi del negozio,
quali la forma scritta ad substantiam, determinata da fattori i quali incidono
sulla struttura dell’atto rendendolo invalido; il licenziamento intimato
oralmente è in tal casi radicalmente inefficace per inosservanza dell’onere
della forma scritta imposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2
novellato dalla L. 11 maggio
1990, n. 108, art. 2 e, come tale, è inidoneo a riolvere il rapporto di
lavoro.

Quanto al profilo delle conseguenze che da tali
premesse scaturiscono, nella ipotesi considerata, ricorrono le condizioni di
applicazione dell’ordinario regime risarcitorio con obbligo di corrispondere,
trattandosi di rapporto di lavoro in atto, le retribuzioni non percepite a
causa dell’inadempimento di parte datoriale (vedi Cass.
10/9/2012 n.15106).

Si tratta di principi che hanno rinvenuto
applicazione nella pronunzia impugnata, rispetto al cui dictum la normativa
invocata dalla ricorrente a sostegno delle critiche formulate, per quanto
sinora detto, non appare conferente.

7. In definitiva, sotto tutti i profili sinora
delineati, il ricorso non può ritenersi meritevole di condivisione.

La regolazione delle spese inerenti al presente
giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo
liquidata. Trattandosi di giudizio instawrato successivamente al 30 gennaio
2013 sussistono le condizioni per dare atto ai sensi dell’art. 13 DPR 115/2002 della
sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 giugno 2021, n. 16377
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