Giurisprudenza – TRIBUNALE DI CATANIA – Ordinanza 01 febbraio 2021, n. 86

Previdenza e assistenza, Obbligo di iscrizione, secondo la
giurisprudenza di legittimità, a carico degli avvocati del libero foro non
iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle
soglie (di reddito o di volumi di affari) ex art. 22 della legge n. 576 del
1980., Legge 8 agosto 1995, n. 335
(Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), art. 2, comma 26, come
interpretato dall’art. 18, comma
12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111

 

1. Premessa.

Le parti attrici, avvocati del libero foro non
tenuti all’iscrizione alla Cassa di previdenza forense per motivi reddituali ex
art. 22, legge n. 576/1980,
hanno avversato gli atti impugnati emessi dall’INPS, con i quali l’Istituto ha
intimato loro il pagamento di contributi richiesti ai sensi dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995
(gestione separata) per periodo di competenza relativo all’anno 2010.

In particolare, l’avv. G.L.D. ha agito contro
l’avviso del 22 giugno 2016, con il quale l’INPS, in ragione del reddito
imponibile di euro 4111 maturato da essa ricorrente nel 2010 quale avvocato, le
ha comunicato l’iscrizione d’ufficio alla gestione separata con decorrenza dal
1 gennaio 2010 e l’ammontare degli importi conseguentemente pretesi per tale
annualità, pari a complessivi euro 1920,70 (di cui euro 1098,46 a titolo di
contributi ed euro 822,24 a titolo di sanzioni).

Ha dedotto: 1) l’insussistenza dei presupposti per
l’iscrizione alla gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
tenuto conto che la norma di interpretazione autentica di cui all’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, confermerebbe che i professionisti iscritti in albi, che abbiano
peraltro adempiuto al pagamento del contributo integrativo ex art. 11, legge n. 576/1980,
non possono essere iscritti presso la gestione separata; che, pertanto, la
pretesa dell’INPS nei suoi riguardi è indebita, essendo essa opponente avvocato
iscritto all’albo degli avvocati dal 2009 ed in regola con il pagamento del
contributo integrativo ex art.
11 legge n. 576/1980 in favore della Cassa forense; 2) in subordine, la
prescrizione dei crediti; 3) in ulteriore subordine, l’illegittimità
dell’avviso opposto per difetto dei requisiti fondamentali dell’atto
amministrativo, in violazione degli articoli
21-septies, legge n. 241/1990, 24 e 97 della Costituzione, poiché il detto atto, non
preceduto dalla comunicazione di avvio dell’inizio del procedimento, non
recherebbe l’indicazione del responsabile del procedimento, dell’ufficio ove è
possibile prendere visione degli atti, del termine e dell’autorità per la
proposizione di eventuali ricorsi, né conterrebbe l’indicazione dei presupposti
di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione dell’Istituto.

L’avv. V.A., invece, ha agito contro l’avviso di
addebito n. 59320170007816123000, notificato il 4 dicembre 2019, con il quale
l’INPS, in ragione del reddito imponibile di euro 5655 maturato da esso
ricorrente nel 2010 quale avvocato, gli ha intimato il pagamento in favore
della gestione separata della somma di euro 2.743,35 (di cui euro 1511 a titolo
di contributi ed euro 1131,06 a titolo di sanzioni).

Ha dedotto l’illegittimità dell’avviso di addebito,
evidenziando che lo stesso: 1) è stato notificato mezzo PEC, come allegato in
formato pdf, non sottoscritto con firma digitale; 2) è relativo a somme
prescritte ex art. 3, comma 9,
legge n. 335/1995; 3) sarebbe stato emesso dopo che l’ente previdenziale
sarebbe decaduto dall’iscrizione al ruolo ex art. 25, legge n. 46/1999; 4)
erroneamente richiede somme a titolo di contributi, posto che non sarebbe stata
superata la soglia reddituale minima fissata in euro 5000, al di sotto della
quale non opererebbe l’iscrizione alla gestione separata.

In entrambi i giudizi si è costituito l’INPS, il
quale, nel merito, ha sostenuto l’infondatezza dei ricorsi.

Al riguardo, ha allegato che, nell’ambito
dell’operazione di verifica denominata «P.», iniziata nel corso del 2009, ha
proceduto ad iscrivere d’ufficio alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
a decorrere dal 1° gennaio 2004, i soggetti che avevano dichiarato redditi nel quadro
RE del Mod. Unico PF per relativo anno d’imposta, in assenza di contribuzione
alla suddetta gestione.

Ha evidenziato che l’interpretazione sostenuta dalle
parti ricorrenti risulta contrastare con l’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011 (conv. in legge n. 111/2011). Tale
disposizione, secondo l’Istituto, avrebbe individualo con chiarezza le due
categorie di lavoratori autonomi soggetti all’iscrizione alla gestione separata
INPS, ovverosia:

a) i soggetti che svolgono attività il cui esercizio
non sia subordinato all’iscrizione in albi, e che pertanto siano carenti anche
di un ente preposto alla realizzazione di una copertura previdenziale;

b) i soggetti che svolgono attività che, pur
prevedendo l’iscrizione ad un albo, non siano tenuti al versamento dei
contributi c.d. soggettivi ai corrispondenti enti di previdenza.

L’INPS, quindi, ha osservato che le parti
ricorrenti, in quanto regolarmente iscritte all’albo professionale degli
avvocati e non assoggettate all’obbligo del pagamento della contribuzione
soggettiva, sono state legittimamente iscritte alla gestione separata.

Ha, quindi, chiesto: 1) l’accertamento della
legittimità degli atti impugnati, con la loro conferma, ovverosia
l’accertamento della legittimità dell’iscrizione disposta d’ufficio alla
gestione separata delle parti ricorrenti e del conseguente credito vantato da
esso istituto; 2) in subordine ed in ogni modo, l’accertamento dell’obbligo
contributivo gravante sulle parti ricorrenti, come quantificato negli atti
impugnati, con condanna degli stessi al pagamento di quanto dovuto.

Nel corso del processo, le parti sono state invitate
a discutere dei possibili dubbi di costituzionalità della normativa riguardante
la gestione separata dell’INPS.

All’udienza del 23 dicembre 2020, veniva acquisita
nota informativa dalla Cassa di previdenza forense che evidenziava, per quanto
qui di interesse, che, nel regime previgente alla legge
n. 247/2012, l’avvocato che non avesse maturato redditi pari o superiori a
quelli previsti dall’art. 22,
legge n. 576/1980, e che dunque non incorreva nell’obbligo di iscrizione,
poteva cionondimeno facoltativamente iscriversi a detto ente, a domanda.

A scioglimento della riserva assunta in entrambi i
procedimenti, previa loro riunione, si ritiene che gli stessi non possano
essere decisi senza lo scrutinio di costituzionalità, in via principale, dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
come interpretato dall’art. 18,
comma 12, decreto-legge n. 98/2011, nella parte in cui prevede l’obbligo di
iscrizione alla gestione separata dell’INPS ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995
a carico degli avvocati del libero foro, non obbligati all’iscrizione alla
Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle soglie (di reddito
o di volumi di affari) ex art.
22, legge n. 576/1980, ovvero, in via subordinata, dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, nella parte in cui non prevede che il predetto obbligo di
iscrizione decorra, in ogni modo, solo per i periodi successivi alla sua
entrata in vigore.

In ordine alla possibilità del giudice rimettente di
prospettare in termini gradatamente sequenziali, e quindi subordinati, i
possibili esiti dello scrutinio di costituzionalità, si rinvia alla
giurisprudenza costituzionale (ex multis, Corte
costituzionale 27 luglio 2018, n. 175; 10 luglio 2019, n. 170).

2. Rilevanza.

Appare necessario procedere, innanzitutto, alla
disamina delle questioni pregiudiziali e preliminari e del quadro normativa e
giurisprudenziale applicabile.

2.1 Disamina delle questioni pregiudiziali e
preliminari.

Nessuno dei motivi di difesa, sia delle parti
attrici, sia dell’INPS, diversi da quelli inerenti all’applicabilità delle
disposizioni di cui agli articoli
2, comma 26, legge n. 335/1995, 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, appaiono assorbenti ed in grado di risolvere i riuniti processi
indipendentemente dalle questioni di costituzionalità che vengono sollevate, la
cui verifica appare, pertanto, indispensabile per la decisione.

Per quanto concerne il ricorso promosso dall’avv. D.
G.L., appare innanzitutto infondato il motivo sub 2), relativo all’eccezione di
prescrizione.

Ed invero, pur aderendo questo ufficio
all’orientamento di legittimità secondo cui la prescrizione dei contributi dovuti
alla gestione separata decorre dal momento in cui scadono i termini per il
relativo versamento (in tal senso, si rinvia a quanto già statuito da Cass.
Sez. lav. 31 ottobre 2018, n. 27950), si rileva che, nel caso di specie, la
prescrizione è stata utilmente interrotta dall’INPS attraverso la notifica
dell’atto opposto, avvenuta per come è pacifico il 4 luglio 2016, prima dello
spirare del termine di prescrizione quinquennale ex art. 3, comma 9, legge n. 335/1995.

Occorre, sul punto, ricordare che, per l’anno di
imposta 2010, il versamento del saldo era fissato al 6 luglio 2011 come
previsto dall’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12
maggio 2011, recante il «Differimento, per l’anno 2011, di termini di
effettuazione dei versamenti dovuti dei contribuenti, nonché dei termini
previsti dagli articoli 16 e 17
del decreto ministeriale 31 maggio 1999, n. 164, relativi agli adempimenti
delle dichiarazioni modello 730/2011» (Gazzetta Ufficiale n. 111 del 14 maggio
2011), con conseguente slittamento del termine per la maturazione della
prescrizione al 6 luglio 2016.

Appare parimenti infondato anche il motivo dedotto
sub 3), relativo alla presunta illegittimità dell’atto opposto per vizi
dell’atto amministrativo, posto che l’atto gravato è un mero avviso bonario, si
limita a comunicare alla parte ricorrente la sua iscrizione presso la gestione
separata, con l’invito a corrispondere quanto dovuto, e non riveste quindi i
connotati del provvedimento amministrativo.

Non si ravvisano motivi formali, pertanto, per
invalidare la nota gravata, i cui eventuali vizi, peraltro, non. farebbero
venir meno l’obbligo del giudice di verificare la sussistenza. del fondamento
credito contributivo, analogamente ai casi in cui sia ravvisata l’invalidità
formale del ruolo (sul punto, tra le tante, Cass.
civ. Sez. lavoro, Ord., 23 gennaio 2020, n. 1558, più ampiamente infra), atteso
che l’azione intrapresa dalla parte ricorrente deve qualificarsi come azione di
accertamento negativo del credito vantato dall’ente previdenziale.

L’INPS del resto, nelle proprie conclusioni, in
subordine rispetto alla domanda di accertamento della legittimità degli atti
opposti, ha chiesto l’accertamento dell’obbligo contributivo e la condanna
della parte al pagamento dei contributi richiesti, e ciò – in forza della già
citata giurisprudenza di legittimità – evidenzia la sussistenza dell’obbligo del
giudice di pronunziarsi in merito, indipendentemente dalla validità formale
dell’atto.

Il rimanente motivo dedotto sub 1), relativo ai
presupposti fattuali e normativi per l’iscrizione alla gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
presuppone la soluzione delle questioni di costituzionalità, posto che, come si
dirà ampiamente nel prosieguo, parte ricorrente risulta aver esercitato
abitualmente la professione di avvocato, senza essere iscritta alla Cassa
forense per motivi reddituali, e la pacifica giurisprudenza di legittimità
ritiene in tal caso applicabile la normativa in questione.

Appaiono inidonee ad assorbire le questioni di
costituzionalità proposte anche le eccezioni formulate in seno al ricorso
promosso dall’avv.to A.V., rubricate ai motivi 1), 2), 3), 4) del ricorso.

I motivi sub 1) e 3), attinenti all’asserito difetto
di validità formale del titolo (mancata sottoscrizione digitale dell’avviso di
addebito in quanto notificato quale allegato PEC in formato pdf, non
sottoscritto digitalmente; decadenza ex art. 25, decreto legislativo n.
46/1999), appaiono innanzitutto tardivi, in quanto qualificabili, a
differenza degli altri, come motivi di opposizione «agli atti esecutivi»,
recando censure di carattere formale del titolo o del processo di notificazione
dello stesso, che non riguardano il suo fondamento.

Il termine per proporre opposizione agli atti
esecutivi è di venti giorni, come previsto dall’art.
617 c.p.c., quest’ultimo richiamato dall’art. 29, decreto legislativo 26
febbraio 1999, n. 46, secondo cui «le opposioni all’esecuzione ed agli atti
esecutivi si propongono nelle forme ordinarie» (1)

Nel caso di specie, il ricorso, depositato il 13
gennaio 2020, è stato proposto oltre il ventesimo giorno dalla notifica
dell’atto opposto, avvenuta mezzo PEC il 4 dicembre 2019, come già evidenziato
nell’ordinanza emessa nel corso del processo il 29 maggio 2020.

Va, in secondo luogo, evidenziato che, anche in caso
di loro ammissibilità e fondatezza, i dedotti vizi formali non farebbero venir
meno l’obbligo del giudice di accertare la sussistenza dell’obbligo
contributivo, alla stregua dei principi evidenziati dalla giurisprudenza della
Suprema Corte già citata (di cui adesso si riportano alcuni brani
motivazionali), secondo cui «la ritenuta illegittimità del procedimento
d’iscrizione a ruolo non esime il giudice dall’accertamento, nel merito, della
fondatezza dell’obbligo di pagamento dei premi e/o contributi (v., da ultimo, Cass. n. 12025 del 2019 e i precedenti ivi
richiamati)», e ciò poiché «un eventuale vizio formale della cartella o il
mancato rispetto del termine di decadenza previsto ai fini dell’iscrizione a
ruolo comporta soltanto l’impossibilità, per l’istituto, di avvalersi del
titolo esecutivo, ma non lo fa decadere dal diritto di chiedere l’accertamento,
in sede giudiziaria, dell’esistenza e dell’ammontare del proprio credito»,
ricorrendo i medesimi principi che governano l’opposizione al decreto
ingiuntivo (Corte di Cassazione – Sez. lav. Ord.,
23 gennaio 2020, n. 1558).

Anche nel caso di specie, peraltro, l’INPS, nelle
proprie conclusioni, ha chiesto non solo la conferma degli atti opposti, ma
anche, in via subordinata, l’accertamento del credito contributivo reclamato,
indipendentemente dalla legittimità formale degli atti.

Ciò impone la verifica della sussistenza del
fondamento del detto credito, avendo, peraltro, la Corte evidenziato che
«l’opposizione contro la cartella esattoriale di pagamento emessa per la
riscossione di contributi previdenziali dà luogo ad un giudizio ordinario di
cognizione su diritti e obblighi inerenti al rapporto contributivo, con la
conseguenza che, per essere oggetto del giudizio l’obbligazione contributiva,
nell’an e nel quantum, l’ente previdenziale convenuto può limitarsi a chiedere
il rigetto dell’opposizione o chiedere anche la condanna dell’opponente al
pagamento del credito di cui alla cartella, in quest’ultimo caso senza che ne
risulti mutata la domanda (v., per tutte, Cass. n.
3486 del 2016 e successive conformi), così come se all’esito del giudizio
di opposizione il credito contributivo accertato risulti in misura inferiore a
quella azionata dall’istituto, il giudice dovrà non già accogliere sic et
simpliciter l’opposizione, ma condannare l’opponente a pagare la minor somma» (Corte di Cassazione – Sez. lav. Ord., 23 gennaio
2020, n. 1558 cit.).

Tali principi appaiono applicabili anche in
relazione al denunziato vizio della mancata sottoscrizione digitale dell’avviso
opposto, in quanto notificato mezzo PEC, come mero allegato in pdf non
sottoscritto digitalmente, dato che l’invalidità dedotta non può far venir meno
l’obbligo contributivo ed il dovete del giudice di procedere al relativo
accertamento.

Del resto, il motivo appare anche infondato, tenuto
conto della giurisprudenza della Suprema Corte, secondo cui «In caso di
notifica a mezzo PEC, la copia su supporto informatica della cartella di
pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta
con firma digitale, in assenza di prescrizioni normative di segno diverso» (Cass. civ. Sez. V Ord., 27 novembre 2019, n. 30948). La stessa Corte di legittimità ha anche
evidenziato che il difetto di sottoscrizione del titolo notificato (ruolo o
cartella esattoriale) non incide sulla sua validità (Cass. civ. Sez. VI – 5 Ord., 3 ottobre 2016, n. 19761).

I motivi sub 1) e 3) appaiono quindi inidonei ad
assorbire le questioni proposte.

Il motivo dedotto al n. 2), attinente alla
prescrizione, sia pur tempestivamente dedotto poiché qualificabile come motivo
di opposizione «al ruolo» ex art.
24, comma 5, decreto legislativo n. 46/1999, e proposto entro il
quarantesimo giorno utile (come già precisato, il ricorso è stato depositato
telematicamente il 13 gennaio 2020, mentre la notifica PEC dell’avviso di
addebito è avvenuta 4 dicembre 2019), appare infondato.

In base ai principi sopra richiamati (Cass. Sez.
lav. 31 ottobre 2018, n. 27950 cit.) ed al termine di scadenza del pagamento
dei contributi per l’anno 2010, fissato dall’art. 1 del decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 12 maggio 2011 al 6 luglio 2011, si rileva che la
prescrizione quinquennale ex. art.
3, comma 9, legge n. 335/1995, decorrente dalla suddetta data del 6 luglio
2011, è stata utilmente interrotta dall’INPS con la notifica dall’avviso
bonario ricevuto dal ricorrente – come risulta dagli atti – in data 1° luglio
2016.

La notifica dell’avviso di addebito del 4 dicembre
2019, dunque, è intervenuta prima dello spirare del successivo termine di
prescrizione.

Infine, appare infondato già in punto di fatto anche
il emotivo dedotto al n. 4), attinente al mancato superamento della soglia
reddituale pari ad euro 5000 ed alla presunta inapplicabilità in tal caso della
normativa sulla gestione separata (anch’esso qualificabile come opposizione al
ruolo e, dunque, da ritenersi tempestivo per le medesime ragioni già espresse
con riferimento al motivo sub 2)).

Ed invero, dagli atti si rileva che parte
ricorrente, per il periodo di competenza (anno 2010), ha maturato un reddito
imponibile superiore a detta soglia, pari ad euro 5655 (cfr. documentazione
prodotta da INPS).

Inoltre, a fronte dell’iscrizione d’ufficio alla
gestione separata, motivata dall’esercizio abituale di arti e professioni, non
ha contestato il carattere abituale dell’esercizio della propria professione.

Non ha, dunque, dedotto di aver esercitato la
professione solo occasionalmente.

Il requisito dello svolgimento abituale della
professione, pertanto, può ritenersi un dato pacifico e non posto in
discussione.

Alla luce di quanto premesso, appare evidente che
anche nel giudizio promosso dall’avv. A., al fine di verificare la legittimità
della richiesta formulata dall’Istituto sia con la notifica dell’avviso di
addebito, sia con le conclusioni poste in rassegna nell’atto di costituzione
(laddove si richiede espressamente l’accertamento della legittimità dell’atto
impugnato, nonché del fondamento dell’obbligo contributivo posto a carico di
parte ricorrente), risulta indispensabile verificare la costituzionalità delle
norme impugnate con la presente ordinanza.

Vanno, infine, rigettate le richieste ed eccezioni
preliminari, per lo più di mero stile, sollevate dall’INPS.

Quanto al procedimento promosso dall’avv. D. si
rilevano innanzitutto le richieste di verifica della giurisdizione e della
competenza, nonché di accertamento della «eventuale nullità e/ o inesistenza
della notifica».

Tali richieste sono infondate, posto che la domanda,
vertendo materia di contributi previdenziali richiesti a lavoratori liberi
professionisti, derivanti dall’applicazione di norme riguardanti forme di
previdenza e assistenza obbligatorie, rientra nella giurisdizione del giudice
ordinario in funzione di giudice del lavoro ex art.
442, codice di procedura civile (ex multis, Cass. sez. lav. 18 marzo 2002,
n. 1821; S.U. 4 marzo 1988, n. 2264) e, risiedendo parte ricorrente in
Piedimonte Etneo (CT), comune del circondario di questo ufficio, è stata
proposta innanzi all’ufficio territorialmente competente, ai sensi dell’art. 444, 1° comma, codice di procedura civile.

Risulta, poi, dagli atti la rituale notifica del
ricorso (cfr. fascicolo telematica parte ricorrente, deposito del 23 aprile
2018), sicché anche la richiesta a tal fine formulata dall’INPS – del resto
costituitosi tempestivamente, con ampie ed articolate difese – appare del tutto
priva di ragione.

Si rileva, inoltre, che il ricorso non è stato mai
delegato, per la sua trattazione o decisione, ad alcuno dei magistrati onorari
in servizio presso questo ufficio, sicché è priva di interesse e rilevanza
anche l’istanza di verifica delle ipotesi di astensione ex art. 51, codice di procedura civile, formulata
dall’INPS, «nell’ipotesi di delega a GOT», in ordine alla «insussistenza delle
ipotesi di astensione di cui all’art.
51, codice di procedura civile, anche in relazione a quanto disposto dal decreto legislativo, n. 116/2017 in ordine alla
tutela previdenziale ed assistenziale dei magistrati onorari».

Si dà atto, infine, dell’infondatezza dell’eccezione
di difetto di legittimazione passiva formulata dall’INPS poiché «ex art. 1, comma 415, legge n. 311 /2004,
le modalità di recupero del credito, nonché le azioni cautelali o conservative
successive alla notificazione della cartella esattoriale e/o dell’avviso di
addebito, sono di esclusiva competenza del Concessionario». Nel caso di specie,
infatti, il ricorso riguarda l’avviso bonario notificato dall’INPS
anteriormente alla notifica dell’avviso di addebito, e non già atti cautelaci o
esecutivi successivi a quest’ultimo del concessionario; sussiste pertanto la
piena ed esclusiva legittimazione passiva dell’Istituto in merito
all’accertamento della sussistenza dell’obbligo contributivo (ex multis,
Cassazione – Sez. lav. 12 maggio 2008 n. 11687).

Quanto al procedimento promosso dall’avv. A., si
ribadiscono i rilievi già formulati in merito alle analoghe richieste
preliminari formulate dall’Istituto in punto di giurisdizione, competenza e
notifica, eventuale ipotesi di astensione ex art. 51, codice di procedura
civile, del giudice onorario, posto che il ricorso, per i motivi già esposti e
considerando che parte ricorrente è residente in Catania, è proposto innanzi a
giudice avente giurisdizione e competente ai sensi degli articoli 442, 444, 1°
comma, codice di procedura civile.

Inoltre, anche il ricorso in scrutinio è stato
ritualmente notificato, come da documentazione prodotta telematicamente in data
26 maggio 2020, e la sua trattazione non è stata mai delegata al giudice
onorario.

Si rileva, ancora, l’infondatezza dell’eccezione di
tardività del ricorso, nella parte in cui è qualificabile come opposizione al
ruolo ex art. 24, comma 5,
decreto legislativo n. 46/1999, posto che la notifica mezzo PEC dell’atto
opposto è stata effettuata il 4 dicembre 2019 ed il ricorso è stato depositato
telematicamente il 13 gennaio 2020, quarantesimo ed ultimo giorno utile: la
data del 14 gennaio 2020, indicata dall’INPS nella propria memoria di
costituzione a sostegno dell’eccezione, riguarda l’adempimento di cancelleria
dell’iscrizione al ruolo (avvenuta un giorno dopo il deposito) e non può
pertanto incidere ai fini della tempestività.

Risulta, dunque, rispettato il termine previsto
dall’art. 24, comma 5, decreto
legislativo n. 46/1999, secondo cui, «contro l’iscrizione a molo il
contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di
quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento. Il ricorso va
notificato all’ente impositore».

Per completezza, va poi rilevato che il pregresso
tentativo di notifica per mezzo di raccomandata A/R non risulta andato a buon
fine, come risulta dalla stessa PEC inviata dall’Istituto alla parte attrice il
4 dicembre 2019, ove si dà atto che «si trasmette in allegato, con valore di
notifica, l’avviso di addebito di cui all’oggetto, formato il 9 dicembre 2017,
precedentemente inviato tramite raccomandata A/R risultata non consegnata» (v.
allegati al ricorso introduttivo, sub «notif.pdf»).

In conclusione, nessuna delle difese spiegate dalle
parti è idonea a consentire la decisione dei giudizi indipendentemente dalle
questioni di costituzionalità che si sollevano con la presente ordinanza.

2.2. Ricostruzione normativa e giurisprudenziale.

Al fine di dimostrare la rilevanza e non manifesta
infondatezza delle questioni, appare utile effettuare una breve ricostruzione
del quadro normativa e giurisprudenziale.

Nel periodo di competenza dei contributi richiesti
dall’INPS (anno 2010), il regime previdenziale forense risulta regolato dalle
disposizioni della legge n. 576/1980, recante
le norme sulla «Riforma del sistema previdenziale forense» (nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica italiana del 27 settembre 1980, n. 266), per come
temporalmente applicabili e vigenti prima dell’entrata in vigore dell’art. 21, comma 8, legge 31 dicembre
2012, n. 247 (nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – 18
gennaio 2013, n. 15), recante la «Nuova disciplina dell’ordinamento della
professione forense» (con la quale è stato stabilito che l’iscrizione all’albo
degli avvocati implica la contestuale iscrizione alla cassa di previdenza
forense).

Dal complesso delle disposizioni ratione temporis
applicabili della legge n. 576/1980 e, in
particolare, dall’art. 22
della stessa, si evince che l’iscrizione alla Cassa di previdenza forense – a
cui si ricollega l’obbligo del pagamento del contributo soggettivo previsto
dall’art. 10 – è
obbligatoria solo per gli «avvocati e procuratori che esercitano la libera
professione con carattere di continuità, ai sensi dell’art. 2 della legge 22 luglio 1975, n.
319» (art. 22, comma
1).

L’obbligo di iscrizione, in particolare, sorge
quando l’interessato abbia raggiunto «il minimo di reddito o di volume di
affari, di natura professionale, fissati dal comitato dei delegati per
l’accertamento dell’esercizio continuativo della professione» (art. 22, cornma 2) (2)

In caso di infrazione, l’interessato, che non abbia
proposto domanda nei termini fissati, viene iscritto d’ufficio dalla Giunta
esecutiva, secondo quanto previsto dall’art. 22, comma 2, legge n. 576
cit..

La legge assegna espressamente al Comitato dei
delegati il compito di provvedere periodicamente (ogni cinque anni) «ad
adeguare, se necessario, i criteri per accertare l’esercizio della libera
professione ai sensi dell’art. 2,
primo comma, della legge 22 luglio 1975, n. 319» (art. 22, comma 3) ed esclude
che possano iscriversi alla Cassa di previdenza «gli avvocati e i procuratori
che, quali iscritti agli elenchi speciali, esercitano la professione
nell’ambito di un rapporto di impiego» (art. 22, comma 5).

L’art.
22, comma 6, stabilisce poi che «L’iscrizione alla Cassa è facoltativa per
i praticanti abilitati al patrocinio».

In assenza di un espresso divieto, deve ritenersi
del pari consentita l’iscrizione facoltativa degli avvocati che non raggiungano
le soglie di reddito o di volume d’affari previste ai fini dell’iscrizione
obbligatoria.

In tal senso, si pone anche l’informativa giunta con
nota della Cassa di previdenza forense del 23 dicembre 2020, prot. 504628,
acquisita telematicamente in pari data ed in atti, secondo cui prima
dell’entrata in vigore del regolamento di attuazione dell’art. 21, commi 8 e 9, legge n.
247/2012 «l’iscrizione alla Cassa era facoltativa e, a domanda, nei casi in
cui il professionista non raggiungesse una soglia minima di reddito o di volume
d’affari IVA, di natura professionale, fissati dal comitato dei delegati per
l’accertamento dell’esercizio continuativo della professione».

In tale quadro ordinamentale, gli avvocati iscritti
alla Cassa di previdenza o che sono obbligati all’iscrizione devono
corrispondere il contributo soggettivo previsto e regolato dall’art. 10, legge n. 576 cit.
(«Il contributo soggettivo obbligatorio a carico di ogni iscritto alla Cassa e
di ogni iscritto agli albi professionali tenuto all’iscrizione è pari…»),
mentre il contributo integrativo previsto e regolato dall’art. 11 viene posto a carico
di tutti «gli iscritti agli albi di avvocato», nonché a carico dei «praticanti
avvocati iscritti alla Cassa».

L’ordinamento previdenziale forense, pertanto,
esonera espressamente gli avvocati non iscritti alla Cassa di previdenza, e che
non incorrono nell’obbligo di iscrizione, dall’obbligo di pagamento di
contributi diversi da quello integrativo di cui all’art. 11.

Il pagamento del contributo soggettivo e
l’iscrizione alla cassa assumono rilevanza ai fini del riconoscimento delle
prestazioni previste dalla legge n. 576/1980,
nei termini specificati dagli articoli
2, 3, 4, 5 della legge cit. (pensione di vecchiaia, anzianità, inabilità, invalidità).

Il pagamento del contributo integrativo, da parte
degli avvocati non iscritti alla Cassa, assume rilevanza mutualistica ai sensi
dell’art. 9, legge n. 576/1980,
che prevede che «I provvedimenti assistenziali previsti dalla vigente
legislazione possono essere adottati, oltre che a favore degli iscritti alla
Cassa e dei loro familiari, a favore degli avvocati e procuratori che abbiano
contribuito o contribuiscano alla Cassa ai sensi dell’art. 11 , e dei loro
familiari, nonché degli iscritti agli elenchi speciali di cui all’art. 3, quarto comma, lettera b), della
legge 27 novembre 1933, n. 1578 e loro familiari».

Nel sistema in esame e sopra sinteticamente
descritto, assume un ruolo di oggettivo rilievo l’ente previdenziale forense,
rappresentato originariamente dall’ente di previdenza in favore degli avvocati
e procuratori di cui alla legge 13 aprile 1933, n. 406, ed oggi dalla Cassa
nazionale di previdenza e di assistenza a favore degli avvocati, istituita con legge 8 gennaio 1952, n. 6.

L’art.
1 della predetta legge 6 del 1952, in particolare, espressamente prevede
che «E’ istituita la “Cassa nazionale di previdenza e di assistenza a
favore degli avvocati e dei procuratori” allo scopo di provvedere a
trattamenti di previdenza e di assistenza.

La Cassa, con sede in Roma, ha personalità giuridica
di diritto pubblico».

La Cassa è stata successivamente oggetto del
processo di privatizzazione sancito dal decreto
legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (art. 1, commi 1 e 2; All. A al decreto legislativo n.
509/1994), a seguito del quale ha assunto la natura di fondazione con
personalità giuridica di diritto privato, per quanto sottoposta alla vigilanza
dello Stato e al controllo della Corte dei conti (art. 3), mantenendo
cionondirneno i suoi scopi, atteso che l’art. 1, comma 3, del decreto
legislativo n. 509 cit., ha previsto che «Gli enti trasformati continuano a
svolgere le attività previdenziali e assistenziali in alto riconosciute a
favore delle categorie di lavoratori e professionisti per le quali sono stati
originariamente istituiti».

La Cassa forense, quindi, ha continuato a svolgere la
funzione di ente previdenziale per la categoria degli avvocati, rientrando
nell’autonomia regolamentare della Cassa – espressamente conferita per legge –
il compito di individuare il corretto dimensionamento dei contributi nel modo
più adeguato per raggiungere la finalità di solidarietà mutualistica che
l’ordinamento le assegna (in tal senso, Corte
costituzionale, 30 marzo 2018, n. 67).

In tale contesto normativa, che è quello vigente nel
periodo che rileva nel presente procedimento (anno 2010), si pone
l’applicabilità agli avvocati delle norme sulla gestione separata dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
come incise dalla norma di interpretazione autentica prevista dall’art. 18, comma 12, decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98 (nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, 6
luglio, n. 155), convertito, con modificazioni, in legge
15 luglio 2011, n. 111 (nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana,
16 luglio, n. 164), recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria».

L’art.
2, comma 26, legge 8 agosto 1995 n. 335, in particolare, prevede che «a
decorrere dal 1° gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso una apposita
gestione separata, presso e finalizzata all’estensione dell’assicurazione
generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i
soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva,
attività di lavoro autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del testo unico delle imposte
sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917 e successive modificazioni ed integrazioni, nonché i titolari
di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di cui al compia 2,
lettera a), dell’art. 49 del
medesimo testo unico e gli incaricati alla vendita a domicilio di cui all’art. 36 della legge 11 giugno
1971, n. 426. Sono esclusi dall’obbligo i soggetti assegnatari di borse di
studio, limitatamente alla relativa attività».

Tale norma, prima dell’intervento di interpretazione
di cui all’art. 18, comma 12,
decreto-legge n. 98/2011, non appariva riferibile alla categoria degli
avvocati, posto che quest’ultima fruiva, sotto il profilo previdenziale, del
regime, degli obblighi e delle prestazioni previste dalla legge n. 576/1980, nonché di un ente espressamente
deputato alla gestione dei relativi rapporti, quale è, come visto, la Cassa di
previdenza forense.

Tale conclusione risultava confermata dall’ulteriore
previsione dell’art. 2, comma 25,
legge n. 335/1995, riferita ai professionisti iscritti in albi non dotati
di un proprio ente previdenziale, nonché dalla giurisprudenza di legittimità
formatasi prima del decreto-legge n. 98/2011,
la quale sul punto evidenziava che le disposizioni di cui ai commi 25 e 26
della legge n. 335/1995 erano state introdotte
per assicurare una tutela previdenziale a categorie che in precedenza erano
prive di un ente a tal fine istituito e che la gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995
non era applicabile ai professionisti iscritti in albi, sia pur privi di
copertura assicurativa.

In particolare, veniva chiarito dalla Corte di
cassazione che «i professionisti iscritti ad albi o elenchi non sono iscritti
nella gestione di cui alla legge
n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, ma nella gestione di cui al comma 25 del
citato art. 2. Va infatti
rammentato che, nel complessivo piano di estensione della tutela previdenziale
a categorie che in precedenza ne erano prive, la legge
n. 335 del 1995 ha agito con due diverse disposizioni: da un lato, con l’art. 2, comma 25, ha delegato il
Governo ad emanare norme volte ad assicurare la tutela previdenziale in favore
dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, il cui
esercizio è subordinato all’iscrizione in appositi albi o elenchi.

Si trattava, in questo caso, di regolamentare quei
liberi professionisti per i quali esisteva un ente deputato alla tenuta degli
albi, ma che non avevano, a differenza di altre categorie, una apposita cassa
di previdenza e che erano quindi privi di tutela previdenziale. In attuazione
della delega è stato emanato il decreto legislativo
10 febbraio 1996, n. 103, che ha demandato proprio agli enti abilitati alla
tenuta degli albi di scegliere se partecipare ad un ente pluricategoriale
ovvero se costituire un ente di categoria per gestire l’assicurazione di detti
professionisti (decreto
legislativo n. 103 del 1996, art. 2). Pertanto per i professionisti
iscritti all’albo, ossia per professionisti stricto sensu secondo la dizione
usata dall’istituto ricorrente, il soggetto deputato nella gestione della
tutela previdenziale obbligatoria, viene scelto dall’organo professionale
competente e non è certo la gestione separata presso l’Inps, che invece è
prevista, dal successivo comma 26, per quei lavoratori autonomi che svolgono
attività professionale per la quale non è prevista l’iscrizione in albi o in
elenchi e che quindi non hanno alcun ente deputato alla relativa tenuta che
possa decidere sulla forma di gestione della tutela previdenziale» (Cassazione Civ. sez. lav. 16 febbraio 2007, n. 3622;
conf. 13218/2008).

Il quadro giuridico è mutato a seguito dell’introduzione
dell’art. 18, comma 12, del
decreto-legge n. 98/2011 e del diritto vivente formatosi nella materia.

L’art.
18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, conv. in legge legge 15 luglio 2011, n. 111, ha previsto invero
che «L’art. 2, comma 26, della
legge 8 agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che i soggetti che
esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro
autonomo tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata INPS sono
esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato
all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al
versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi
statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11. Resta
firma la disposizione di cui all’art.
3. comma 1, lettera d), del decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103.
Sono fatti salvi i versamenti già effettuati ai sensi del citato art. 2, comma 26, della legge n. 335
del 1995».

Sebbene la formula letterale della disposizione
sembrasse escludere la categoria degli avvocati dall’obbligo di iscrizione alla
gestione separata (trattandosi di professionisti iscritti in albi, tenuti a
versare – anche in caso di mancata iscrizione alla Cassa forense – il
contributo integrativo al proprio ente previdenziale di riferimento) (3) (4)
(5) , tra il 2017 e il 2018, la Suprema Corte è progressivamente intervenuta
nella materia, dapprima con riguardo alle categorie degli ingegneri ed
architetti titolari di rapporto di impiego (per i quali sussisteva un divieto
di iscrizione alla propria cassa di riferimento), poi con riferimento alla
categoria degli avvocati iscritti in altri enti di previdenza, successivamente
anche con riguardo agli avvocati del libero foro non iscritti in alcun ente di
previdenza, per i quali non operava alcun divieto di iscrizione nella Cassa di
previdenza forense.

Sin dalle prime pronunce che hanno riguardato la
categoria degli avvocati, la Corte, relativamente a contributi richiesti
dall’INPS per periodi anteriori all’entrata in vigore del decreto-legge n. 98/2011, e con principi aventi
portata generale, ha ritenuto che «l’unica forma di contribuzione
obbligatoriamente versata che può inibire la forza espansiva della norma di
chiusura contenuta nella legge n.
335 del 1995, art. 2, comma 26, come chiarita dal decreto-legge n. 98 del 2011, art.
18, comma 12, non può che essere quella correlata ad un obbligo di
iscrizione ad una gestione di categoria, in applicazione del divieto di
duplicazione delle coperture assicurative incidenti sulla medesima attività
professionale» (Corte cassazione, sez. lav. 12
dicembre 2018, n. 32167, C.A c INPS).

La Corte, in particolare, sempre con riferimento
all’art. 18, comma 12, decreto-legge
n. 98/2011, ha rimarcato che tale disposizione ha inteso «chiarire quali
liberi professionisti siano tenuti alla iscrizione alla gestione separata»,
ritenendo che anche gli avvocati iscritti in albi vi siano assoggettati,
laddove non siano iscritti alla cassa di previdenza forense ed abbiano quindi
di adempiuto al pagamento del solo contributo integrativo.

Ha, invero, rilevato che «la contribuzione
integrativa, in quanto non correlata all’obbligo di iscrizione alla cassa
professionale, ed a prescindere dalla individuazione della funzione assolta
all’interno del sistema di finanziamento delle attività demandate alla cassa
professionale, non attribuisce al lavoratore una copertura assicurativa per gli
eventi della vecchiaia, dell’invalidità e della morte in favore dei superstiti
per ad non può essere rilevante ai fini di escludere l’obbligo di iscrizione
alla gestione separata presso l’INPS» (Cassazione
32167/2018, cit.).

La Corte, quindi, ha precisato che, in virtù del
principio di universalizzazione della copertura assicurativa ex articoli 35 e 38 della
Costituzione, l’unico versamento contributivo rilevante ai fini
dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è quello suscettibile di
costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata prestazione
previdenziale.

I giudici di legittimità, a conferma del suesposto
indirizzo, hanno escluso che l’uso della congiunzione «ovvero», presente nell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, possa avere una mera funzione esplicativa anziché disgiuntiva,
tale da escludere dall’obbligo di iscrizione i soggetti che esercitano una
attività professionale per il cui esercizio è richiesta l’iscrizione agli albi
professionali, indipendentemente da ogni ulteriore obbligo di natura
contributiva, quest’ultimo nel senso sopra chiarito.

L’orientamento in esame è stato confermato dalle
successive pronunce (Cassazione civ. sez. lavoro, 17 dicembre 2018, n. 32608,
I.N.P.S c. I.D.; Cassazione civ. sez. lavoro, 11 gennaio 2019, n. 519, I.N.P.S.
c. L.C.) anche relative agli avvocati del libero foro non aventi altre forme di
impiego, non iscritti in altre forme di previdenza, ma solo all’albo di
categoria e per questo tenuti al pagamento del solo contributo integrativo (Corte di cassazione, sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 317,
I.N.P.S. c. D.R.; sez. VI, 10 gennaio 2020, n. 318,
I.N.P.S. c G.A.; sez. VI, 17 gennaio 2020, n. 1000
M.C. INPS; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 26021,
INPS c C.M.A.).

In tal senso, è stato specificato che «Gli avvocati
iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie che, svolgendo attività
libero professionale priva del carattere dell’abitualità, non hanno – secondo
la disciplina vigente ratione temporis, antecedente l’introduzione
dell’automatismo della iscrizione – l’obbligo di iscrizione alla Cassa forense,
alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo di carattere
solidaristico in quanto iscritti all’albo professionale, cui non segue la
costituzione di alcuna posizione previdenziale a loro beneficio, sono tenuti
comunque ad iscriversi alla gestione separata presso l’INPS, in virtù del
principio di universalizzazione della copertura assicurativa, cui è funzionale
la disposizione di cui alla legge
n. 335 del 1995, art. 2, comma 26, secondo cui l’unico versamento
contributivo rilevante ai fini dell’esclusione di detto obbligo di iscrizione è
quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata
prestazione previdenziale; detto principio va esteso anche al caso che viene
qui in rilievo dell’avvocato non iscritto alla Cassa forense alla quale versa
il contributo integrativo obbligatorio previsto dal regolamento della Cassa per
il solo fatto di essere iscritto all’albo forense» (Corte
di cassazione, sez. VI, 10 gennaio 2020 n. 317; VI, 10 gennaio 2020, n. 318, cit.).

Si è, dunque, precisato che l’obbligo di iscrizione
alla gestione separata viene meno «solo se il reddito prodotto dall’attività
professionale predetta è già integralmente oggetto di obbligo assicurativo
gestito dalla cassa di riferimento» (Cassazione n.
3799 cit.)» (Cassazione, sez. VI, 17 novembre
2020, n. 26021, INPS c C.M.A.).

A tale indirizzo si è ormai conformata la
giurisprudenza di merito (tra le tante, Corte appello Brescia sez. lav., 21
settembre 2020, n. 137; Tribunale Catania sez. lav., 3 marzo 2020, n. 974;
Corte d’appello di Catania, sez. lav., 17 giugno 2019 n. 677).

Alla stregua del conforme indirizzo della Suprema
Corte, dunque, deve ritenersi che l’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011 va interpretato nel senso che per soggetti tenuti all’iscrizione
alla gestione separata di cui all’art.
2, comma 26, legge n. 335/1995, si intendono sia i soggetti che svolgono
attività il cui esercizio non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi
professionali o elenchi, sia i soggetti che (ancorché esercenti attività che
richiedono l’iscrizione in albi o elenchi) non sono sottoposti all’obbligo di
versamento del contributo c.d. soggettivo in quanto non iscritti ad alcun ente
di gestione, essendo irrilevante il mero versamento dell’eventuale
contribuzione integrativa alla cassa previdenziale di categoria.

Pertanto, alla luce di tale dato, anche gli avvocati
che non incorrano nell’obbligo di iscrizione alla Cassa di previdenza forense,
per aver maturato redditi o volumi d’affari sotto le soglie ex art. 22, legge n. 576/1980,
devono essere iscritti alla gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995.

Dati gli effetti «retroattivi» dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, quale norma di interpretazione dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
è pacifico che l’obbligo di iscrizione alla gestione separata operi anche per i
periodi anteriori all’entrata in vigore dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011 cit., come nei casi esaminati dalla Suprema Corte (si considerino,
ad es., quelli scrutinati da Cassazione 32167/2018,
32608/2018, 519/2019, riguardanti contributi
richiesti dall’INPS per l’anno 2005).

2.3. Incidenza delle questioni nel caso concreto.

Sussiste la rilevanza concreta ed attuale delle
questioni poste.

Le odierne parti ricorrenti sono, come anticipato,
avvocati del libero foro.

Come si evince dagli atti, non contestano il
carattere abituale dell’attività professionale esercitata, del resto comprovata
dall’iscrizione all’albo, dal possesso di una partita IVA e della
predisposizione di un’organizzazione, sia pur minima, per lo svolgimento
dell’attività.

Nel 2010, periodo di competenza degli oneri di
iscrizione e contribuzione richiesti dall’INPS con gli atti opposti, non
risultavano iscritte alla Cassa forense, in quanto pacificamente non obbligate
in ragione dei parametri economici realizzali, sotto le soglie richiamate dall’art. 22, legge n. 576/1980
(come anticipato, in base alla delibera del Comitato dei delegati del 28
settembre 2007, le soglie minime previste per il 2010 ex art. 22, legge n. 576/1980 ai
fini dell’obbligo di iscrizione erano di euro 10.000,00 di reddito
professionale netto o euro 15.000,00 di volume di affari).

Hanno, pertanto, versato, alla Cassa di previdenza
forense, solo il contributo integrativo ex art. 11, legge n. 576/1980.

Alla luce del quadro giurisprudenziale sopra
descritto, ad esse appare pienamente applicabile l’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
per come interpretato dall’art.
18, comma 12, decreto-legge n. 98/2011, e dunque l’obbligo di iscrizione
alla gestione separata, tenuto conto che la Suprema Corte di cassazione ha
ritenuto operante tale vincolo anche nei riguardi «dell’avvocato non iscritto
alla Cassa Forense alla quale versa il contributo integrativo obbligatorio
previsto dal regolamento della Cassa per il solo fatto di essere iscritto
all’Albo forense» (Corte di cassazione, sez. VI,
10 gennaio 2020 n. 317, INPS c D.R.; VI, 10
gennaio 2020, n. 318, INPS c G.A.).

La circostanza che la ricorrente avv. D. abbia
prodotto, nell’anno in considerazione, un reddito poco al di sotto di euro
5000, non esclude, nel caso di specie, l’applicabilità della disciplina in
esame, posto che, come si è detto, risulta dato pacifico che parte opponente ha
svolto l’attività professionale con carattere di abitualità.

Non appare, al riguardo, rilevante il dato normativo
costituito dall’art. 44, comma 2,
decreto-legge n. 269/2003, secondo cui «A decorrere dal 1° gennaio 2004 i
soggetti esercenti attività di lavoro autonomo occasionale e gli incaricati
alle vendite a domicilio di cui all’art. 19 del decreto legislativo 31
marzo 1998, n. 114, sono iscritti alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335, solo qualora il reddito annuo derivante da dette
attività sia superiore ad euro 5.000».

Tale disposizione, infatti, fa riferimento, oltre
che agli incaricati alle vendite a domicilio, all’attività di lavoro autonomo
occasionale, e non può dunque applicarsi agli avvocati che svolgano la
professione con carattere di abitualità.

Ed invero, il limite reddituale ivi previsto, di
euro 5000, non serve per qualificare il lavoro come occasionale, ma per
individuare il momento a partire dal quale anche il lavoratore autonomo
occasionale è tenuto all’iscrizione alla gestione separata.

Come è noto, il lavoro autonomo occasionale è
un’attività autonoma, esercitata senza alcun vincolo di subordinazione o di
coordinamento che però non richiede l’apertura della partita IVA, perché è
svolta in modo saltuario (per pochi giorni durante l’anno) ed è priva dei
requisiti dell’organizzazione e della professionalità.

Secondo la giurisprudenza che si è allineata
all’indirizzo espresso dalla Suprema Corte, invece, «l’iscrizione della
ricorrente all’albo professionale – requisito indispensabile per l’esercizio
della professione come previsto dall’art. 2, comma 1 della legge n.
576/1980 – e l’apertura della partita IVA che costituisce adempimento
richiesto a chi intraprende un attività di lavoro autonomo a titolo di
professione abituale (come si ricava dal combinato disposto degli articoli 35, comma 1, del decreto del
Presidente della Repubblica n. 633/1972 e 5, comma 1, dello stesso decreto
del Presidente della Repubblica), provano in via presuntiva l’abitualità dello
svolgimento dell’attività professionale. Pertanto, a fronte di tali elementi,
era onere della ricorrente allegare e documentare circostanze specifiche atte a
superare la prova presuntiva dell’abitualità dell’esercizio della professione,
onere nella specie non assolto» (Corte d’appello di Catania, sez. lav., 17
giugno 2019, n. 677, INPS c P.S.).

Nel caso di specie, quindi, essendo pacifico il
requisito dell’abitualità anche con riguardo all’attività esercitata all’avv.
D., deve ritenersi applicabile l’art.
2, comma 26, legge n. 335/1995, come interpretato dall’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011.

Per quanto riguarda il ricorrente avv. A.,
l’applicabilità dell’art. 2,
comma 26, legge n. 335/1995, è vieppiù pacifica, dato che, non solo non vi
è contestazione sui requisiti di abitualità richiesti, ma il reddito percepito
è anche superiore all’importo di euro 5000 (essendo pari ad euro 5655), sicché
in alcun modo può richiamarsi, in suo favore, il disposto di cui all’art. 44, comma 2, decreto-legge n.
269/2003.

Infine, in sede di ricostruzione normativa e
giurisprudenziale, si è dato atto degli effetti retroattivi dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, quale norma di interpretazione dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
il che rende operante l’obbligo di iscrizione alla gestione separata anche per
i periodi anteriori alla sua entrata in vigore. Ciò consente all’INPS di agire,
come fatto nei riguardi delle odierne parti ricorrenti, per il recupero dei
contributi relativi a periodi di competenza pregressi.

Da quanto premesso, si comprende la rilevanza della
questione di costituzionalità principale, relativa all’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
per come interpretato dell’art.
18, comma 12, decreto-legge 98/2011 (infra § 3, sub A)).

Ove, infatti, tale disposizione venisse dichiarata
illegittima, per come richiesto, gli odierni ricorsi verrebbero certamente
accolti.

L’incostituzionalità della normativa in esame,
infatti, farebbe venir meno la fonte da cui trae fondamento l’obbligo di
iscrizione delle parti ricorrenti alla gestione separata dell’INPS e,
conseguentemente, il credito contributivo reclamato a tale titolo.

L’antinomia prodotta dalla norma impugnata, rispetto
alle previsioni dell’ordinamento previdenziale forense di cui alla legge n. 576/1980, verrebbe, quindi, eliminata,
con conseguente pacifica ed esclusiva applicazione dell’art. 22, legge n. 576/1980.

Del pari, laddove non venisse reputata preliminare e
fondata la prima questione, appare rilevante anche quella sollevata in via
subordinata, in relazione all’art.
18, comma 12, decreto-legge n. 98/2011 (intra § 3, sub B)).

Come già esposto e come si vedrà in punto di non
manifesta infondatezza, solo dopo l’introduzione dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011 e la successiva elaborazione giurisprudenziale, è stato affermato
l’obbligo di iscrizione presso la gestione separata per gli avvocati esonerati
dall’iscrizione alla cassa di previdenza forense, ex art. 22, legge n. 576/1980.

Precedentemente, l’assetto normativo e
giurisprudenziale era, invece, nel senso di escludere chiaramente un tale
onere.

Laddove, pertanto, tale norma venisse dichiara
illegittima, nella parte in cui esplica effetti retroattivi, e dunque nella
misura in cui non prevede che l’obbligo di iscrizione alla gestione separata
per gli avvocati possa decorrere solo dalla sua entrata in vigore, le domande
attoree verrebbero parimenti accolte.

Ed invero, in tal caso, fino all’entrata in vigore
dell’art. 18, comma 12,
decreto-legge n. 98/2011, verrebbe meno il fondamento normativo
dell’obbligo di iscrizione delle parti ricorrenti nella gestione separata, con
conseguente insussistenza dei crediti richiesti dall’INPS con riguardo all’anno
2010.

Per converso, laddove le questioni poste non
venissero accolte e venisse pienamente confermato l’assetto normativo attuale,
i ricorsi dovrebbero essere rigettati nel merito, risultando ormai acquisito
nell’interpretazione giurisprudenziale il principio secondo cui i contributi
richiesti dall’art. 18, comma 12,
decreto-legge n. 98/2011, ai fini dell’esonero dall’iscrizione dalla
gestione separata, non sono quelli integrativi ex art. 11, legge n. 576/1980,
ma quelli soggettivi, ex art.
10, legge n. 576 cit., che presuppongono l’iscrizione alla cassa di
previdenza forense.

3. Non manifesta infondatezza.

A) Art.
2, comma 26, legge n. 335/1995, come interpretato dall’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011. Violazione dell’art. 3 della Costituzione per irragionevolezza,
illogicità ed incoerenza del sistema normativo.

Richiamata la ricostruzione normativa e
giurisprudenziale che precede (supra, § 2.2.), sussiste il dubbio che l’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
come interpretato a seguito dell’introduzione dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, sia viziato sotto i profili di irragionevolezza, illogicità,
incoerenza che esso provoca nel sistema normativo, in violazione dell’art. 3 della Costituzione, e ciò, in specie, nella
parte in cui prevede l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’INPS a
carico degli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza
forense per mancato raggiungimento delle soglie (di reddito o di volume
d’affari) ex art. 22, legge n.
576/1980.

Come visto, per la materia ed i periodi che rilevano
nel presente processo (obblighi previdenziali inerenti ai redditi prodotti nel
2010 per l’esercizio dell’attività forense), il sistema previdenziale forense
risulta regolato dalla legge n. 576/1980, la
quale gradua gli obblighi di natura contributiva e previdenziale,
sostanzialmente prevedendo che solo gli avvocati che abbiano raggiunto
determinate soglie (di reddito o di volume d’affari) incorrano nell’obbligo di
iscrizione alla cassa di previdenza e, quindi, nell’obbligo di pagamento del
contributo soggettivo ex art.
10, legge n. 576/1980 e disponendo conseguentemente che gli altri, al di
sotto di tali soglie, siano onerati a pagare solo il contributo integrativo ex art. 11, legge n. 576 cit.,
senza obbligo di iscrizione.

Tale sistema non impedisce agli avvocati del libero
foro che non raggiungano le soglie previste dall’art. 22, legge n. 576/1980 di
iscriversi, a domanda, alla Cassa forense e di avere, dunque, una piena
copertura assicurativa, ma rimette tale scelta al professionista.

Sul punto, si rinvia alla ricostruzione normativa
sopra effettuata e si richiama la nota informativa ivi citata della Cassa
forense n. prot. 504628 del 23 dicembre 2020, acquisita telematicamente in pari
data ed in atti, che conferma tale assetto (6).

La legge n. 576/1980
costituisce lex specialis dell’ordinamento previdenziale forense e, perciò, non
può ritenersi implicitamente abrogata, neppure parzialmente, da quelle nonne,
come l’art. 2, comma 26, legge n.
335/1995, che, ancorché successive, non riguardano espressamente tale
sistema. Quest’ultimo, del resto, ha mantenuto nel tempo la propria specialità,
come comprova l’entrata in vigore della legge n.
247/2012, con la quale, peraltro, è stata confermata l’esclusività del
ruolo svolto nella materia dall’ente previdenziale forense (v. articoli 21, comma 8 e 9, legge n.
247, cit.) (7).

Stando così le cose, l’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
per come interpretato dall’art.
18, comma 12, decreto-legge n. 98/2011, nella parte oggetto della presente
questione, appare introdurre un elemento di oggettiva incoerenza normativa, che
rende la norma illogica, irrazionale e dunque irragionevole, in violazione
dell’art. 3 della Costituzione.

Da un canto, invero, l’ordinamento, con la lex
specialis destinata alla previdenza forense, riconosce al professionista – che,
per lo svolgimento dell’attività di avvocato, non maturi redditi considerevoli,
rimanendo sotto le soglie ex art.
22, legge n. 576/1980 – la facoltà di iscriversi alla propria cassa di
previdenza; lo assoggetta al solo obbligo del pagamento del contributo
integrativo ex art. 11, legge
n. 576 cit.; lo esonera da ogni ulteriore onere di iscrizione e
contribuzione; riconosce, quindi, all’autonomia regolamentare della Cassa
forense il compito di individuare i criteri in forza dei quali assoggettare o
l’attività forense agli obblighi di iscrizione e di contribuzione ed a
dimensionare gli stessi secondo le finalità solidaristico-mutualistiche (Corte costituzionale, 30 marzo 2018, n. 67), in
funzione delle previste prestazioni previdenziali ed assistenziali (articoli 1 e ss. legge n. 576/1980;
per gli avvocati non iscritti alla cassa, art. 9, legge n. 576/1980).

Dall’altra parte, invece, con la disposizione
impugnata, prevede del tutto contraddittoriamente che, laddove i criteri della
Cassa, in applicazione dell’autonomia regolamentare che le è riconosciuta dalla
legge, esonerino l’avvocato dagli obblighi di iscrizione e contribuzione testè
descritti, si attivino allora a carico del detto professionista ulteriori e ben
distinti oneri previdenziali, quali l’iscrizione alla gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995
e l’obbligo di pagamento dei relativi contributi parametrati al reddito,
peraltro con ritenute diverse (e più esose) rispetto a quelle previste dall’art. 10, legge n. 576/1980. E
tutto ciò in favore di una gestione previdenziale, quale è quella «separata»
dell’INPS, avulsa da quella forense e che non sorge affatto per assicurare una
tutela previdenziale alla categoria degli avvocati.

Appare evidente l’antinomia prodotta dalla norma
impugnata, l’oggettiva incoerenza del sistema normativo che essa provoca,
l’irrazionalità normativa di una previsione che impone all’avvocato l’obbligo
di iscrizione in un separato ente previdenziale proprio quando e nella misura
in cui il suo stesso ordinamento previdenziale, in base a disposizioni di
legge, esclude un tale onere nei confronti della sua stessa cassa di categoria.

Trattasi, verosimilmente, di un effetto non voluto
dal legislatore dell’art. 18,
comma 12, decreto-legge n. 98/2011, come sembra desumersi dalla lettura dei
lavori preparatori (si fa riferimento alla relazione al disegno di legge di
conversione n. 2814/2011, alla pag. 29) e cionondimeno prodottosi nel diritto
vivente, che contrasta, tuttavia, con riguardo alla categoria professionale
degli avvocati sottosoglia ex art.
22, legge n. 576/1980, contro ogni principio di razionalità normativa (8)
(9) (10) .

Laddove, invero, il legislatore avesse voluto
estendere anche a tali professionisti l’obbligo di iscrizione ad un ente
previdenziale – come difatti è accaduto, per i periodi successivi a quelli che
rilevano nella presente causa, con l’art. 21, comma 8, legge n. 247/2012
– esso lo avrebbe fatto agendo sullo stesso sistema previdenziale forense (ad
es., modificando l’art. 22,
legge n. 576/1980), mantenendone così unitarietà e coerenza.

Con la disposizione in esame, invece, non solo è
stato introdotto un onere che si rivela del tutto incompatibile con il regime
delineato dalla lex specialis (art.
22, legge n. 576/1980), ma si è pervenuti anche all’illogico risultato di
disgregare irragionevolmente il regime previdenziale dell’avvocato sotto soglia
ex art. 22, legge n. 576/1980,
creando un farraginoso frazionamento degli enti a cui lo stesso deve
rapportarsi: alla cassa forense per il pagamento del contributo integrativo ex art. 11, legge n. 576/1980 e
per la fruizione di eventuali prestazioni assistenziali (art. 9, legge n. 576 cit.);
all’INPS per il pagamento dei contributi ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995.

Tale scomposizione appare del tutto insensata poiché
l’obbligo di contribuzione richiesto in favore della gestione separata deriva dall’esercizio
della medesima attività – quella forense – a cui si rapporta l’obbligo del
contributo integrativo ex art.
11, legge n. 576/1980 in favore della Cassa forense, l’ente a cui
l’ordinamento ha sempre devoluto l’esclusiva competenza della gestione dei
rapporti previdenziali della categoria.

Non appaiono quindi applicabili, al caso di specie,
i principi affermati dalla Suprema Corte in materia di duplicità delle
iscrizioni in distinte gestioni previdenziali, in ragione della duplicità
dell’attività esercitata, posto che, nel caso in scrutinio, rileva un’unica
attività, quale è quella forense, che risulta già disciplinata dalla legge n. 576/1980 secondo un ordinamento speciale
ed unitario, che la norma impugnata, concepita per altre categorie di
lavoratori, mira invece irragionevolmente a mettere in discussione ed a
disarticolare.

L’effetto disfacente che la norma produce, peraltro,
pone l’avvocato, che non raggiunga le soglie previste dall’art. 22, legge n. 576/1980 (e
che per questo, non essendo iscritto alla cassa forense, venga assoggettato
alla gestione separata), in una condizione previdenziale irrazionalmente
diversa ed anche deteriore rispetto a quella dell’avvocato che le abbia
raggiunte (e che sia perciò obbligato all’iscrizione alla Cassa forense), non
consentendogli di acquisire automaticamente presso la propria cassa di
categoria i requisiti di iscrizione e contribuzione derivanti dall’esercizio
dell’attività forense, previsti dagli articoli 1 e ss. legge n. 576/1980,
per la fruizione delle prestazioni previdenziali ivi regolate in favore degli
avvocati.

Ed infatti, la contribuzione versata alla gestione
separata dell’INPS non viene riversata alla Cassa di previdenza forense e,
dunque, non viene ivi accredita all’avvocato, né in vario modo destinata –
benché applicata su redditi derivanti dall’esercizio della professione forense
– all’ente deputato per legge ad assicurare gli scopi
mutualistici-solidaristici per la categoria.

D’altra parte, l’utilità della contribuzione versata
dall’avvocato alla gestione separata INPS, in vista di possibili prestazioni a
carico della stessa, appare davvero limitata, se non improbabile, non solo per
la esiguità del gettito contributivo, in quanto basato su redditi marginali
quali sono quelli sotto le soglie ex art. 22, legge n. 576/1980,
ma anche per l’estrema esiguità del periodo contributivo maturabile presso la
detta gestione separata.

Si consideri, a tal riguardo, che l’operazione «P.»,
con la quale l’INPS ha iniziato a procedere all’iscrizione alla gestione separata
degli avvocati sotto soglia ex art.
22, legge n. 576/1980, è iniziata nel 2009 e cessata con l’entrata in
vigore della legge n. 247/2012, in forza della
quale è venuto meno l’esonero dall’iscrizione alla cassa di previdenza forense
per ragioni economiche.

Le odierne parti opponenti, ad esempio, sono state
iscritte d’ufficio alla gestione separata a decorrere dal 2010 e, a seguito
dell’entrata in vigore dell’art.
21, comma 8, legge n. 247/2012, continuando a svolgere l’attività forense,
sono incorse nell’obbligo di iscrizione nella Cassa forense, con conseguente
preclusione dell’INPS di mantenere la loro iscrizione alla gestione separata.

Sicché la contribuzione non coperta da prescrizione,
richiedibile e richiesta dall’INPS per la gestione separata, a carico degli
avvocati, rimane circoscritta ad un limitato arco temporale (molto spesso pari
soltanto a qualche anno), quasi sempre insufficiente per poter generare la
maturazione di requisiti di legge utili ai fini di eventuali prestazioni
previdenziali a carico della stessa gestione.

Del resto, anche considerando la possibilità per il
professionista di chiedere, al sussistere dei presupposti, la ricongiunzione
della contribuzione versata a favore della gestione separata presso l’ente di
categoria, tale operazione non potrebbe avvenire senza ulteriori aggravi, sia
di tipo procedurale, sia di carattere economico.

E non si comprende davvero il motivo per il quale,
se anche l’avvocato sotto soglia ex art. 22, legge n. 576/1980
debba essere sottoposto a contribuzione con obbligo di iscrizione ad un ente di
previdenza, ciò non avvenga con l’iscrizione presso il proprio ente di
categoria, anziché presso la gestione separata dell’INPS.

La norma impugnata, dunque, non solo appare
incoerente, ma obiettivamente irragionevole, poiché, nel porsi in rapporto di
chiara inconciliabilità con l’art.
22, legge n. 576/1980, genera il risultato di assoggettare le fasce di
professionisti più deboli e con minori capacità reddituali – quali sono gli
avvocati esonerati dall’obbligo di iscrizione ex art. 22, legge n. 576/1980 –
ad un regime previdenziale sui generis, frammentario, disorganico, neppure in
grado di garantire una copertura assicurativa certa o utile, o comunque, al
più, in grado di riconoscerne una immotivatamente diversa rispetto a quella
goduta dagli avvocati iscritti alla Cassa forense, la cui contribuzione viene,
invece, automaticamente riversata alla Cassa di categoria, con l’automatica e
certa maturazione dei requisiti di iscrizione e contribuzione presso l’ente
previdenziale deputato per legge ad erogare le relative prestazioni, senza
ulteriori aggravi.

Tutto ciò non appare giustificabile neppure
attraverso il richiamo al principio di universalizzazione delle tutele ex art. 38 della Costituzione, posto che tale
principio viene applicato dalla stessa Suprema Corte partendo dal presupposto
che determinate categorie non possano avere una copertura assicurativa, per la
mancanza di un ente previdenziale a ciò preposto ovvero per la presenza di
espresse preclusioni che ne impediscono l’iscrizione: si pensi, ad esempio,
all’ipotesi già menzionata degli ingegneri che esercitano l’attività
professionale essendo contemporaneamente titolari di un distinto rapporto di
lavoro dipendente, per i quali vige il divieto di iscrizione presso l’ente di
categoria (sul punto, si rinvia a quanto affermato dalla Suprema Corte a
partire dalla pronuncia 18 dicembre 2017, n. 30344;
cfr. anche art. 7 Inarcassa, consultabile presso il sito istituzionale
www.inarcassa.it/site/home/iscrizione/condizioni-per-liscrizione-obbligatoria.html)
(11). Nell’ipotesi in scrutinio, invece, all’avvocato del libero foro sotto
soglia ex art. 22, legge n.
576/1980 non è preclusa la facoltà di iscrizione alla propria Cassa di
previdenza forense, potendo l’avvocato accedere alla piena tutela assicurativa
presso il predetto ente di gestione, a domanda: si rinvia alla nota pervenuta
da Cassa forense n. prot. 504628 del 23 dicembre 2020 cit.

Sul punto, del resto, va osservato che il regime
previsto dall’art. 22, legge
n. 576/1980 di escludere dall’obbligo – e non già dalla facoltà – di
iscrizione gli avvocati che abbiano prodotto redditi o volumi d’affari al di
sotto delle soglie previste non è volto a negare una tutela assicurativa o a
mettere in discussione i principi costituzionali che regolano la materia
previdenziale, quanto a riconoscere – secondo la valutazione del legislatore –
un regime di maggior favore nei riguardi degli avvocati che non abbiano potuto
produrre redditi o volume d’affari apprezzabili e, dunque, che non abbiano
maturato un’effettiva capacità di concorrere, anche sotto il profilo
solidaristico, al sistema previdenziale forense (si considerino, ad es., i
modesti redditi prodotti dalle odierne parti ricorrenti, indicati in premessa).

E, d’altro canto, va ribadito che quando il legislatore
ha ritenuto di eliminare le aree di esonero dall’obbligo di iscrizione all’ente
di previdenza forense, stabilendo per tutti gli avvocati iscritti in albi
l’obbligo di iscrizione, come avvenuto con l’art. 21, comma 8, legge n. 247/2012,
esso lo ha fatto espressamente, confermando al tempo stesso, tuttavia,
l’unicità della gestione affidata alla Cassa di previdenza. Ciò, peraltro,
senza escludere che i regolamenti della stessa Cassa forense potessero riconoscere
trattamenti di maggior favore o regimi di esenzione dall’obbligazione
contributiva nei riguardi degli avvocati che versassero in determinate
condizioni (v. art. 21, comma 9,
legge n. 247/2012).

Quanto premesso, dunque, porta a concludere che la
norma impugnata, come interpretata a seguito dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, sia irragionevole ed illogica, contrasti con i principi di razionalità
normativa e di coerenza del sistema e si ponga in contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

B) Art.
18, comma 12, decreto-legge n. 98/2011. Violazione dell’art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza e
lesione del legittimo affidamento generato dall’art. 22, legge n. 576/1980;
violazione dell’art. 117, comma 1 della
Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Si dubita della costituzionalità dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, nella parte in cui esplica effetti retroattivi, non prevedendo che
l’obbligo di iscrizione nella gestione separata, a carico degli avvocati del
libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento
delle soglie (di reddito o di volumi di affari) ex art. 22, legge n. 576/1980,
decorra dalla sua entrata in vigore, e ciò per possibile violazione dell’art. 3 e 117, comma 1
della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU).

L’art.
18, comma 12, decreto-legge n. 98/2011, conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111, prevede che: «L’articolo 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che i soggetti che esercitano
per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo
tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata INPS sono
esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia
subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non
soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai
rispettivi statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma
11. Resta ferma la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del
decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103. Sono fatti salvi i versamenti
già effettuati ai sensi del citato art.
2, comma 26, della legge n. 335 del 1995».

Come già anticipato, a seguito di tale disposizione
e del diritto vivente formatosi nella materia a partire dal 2018, è stato
riconosciuto l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dell’INPS nei
riguardi degli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza
in quanto con reddito o volume d’affari sotto le soglie previste dall’art. 22, legge n. 576/1980.

Prima, la Suprema Corte di Cassazione, alla luce del
chiaro dato normativo costituito dai commi 25 e 26 dell’art. 2 della legge n. 335/1995,
aveva espressamente escluso l’applicabilità della gestione separata ex art. 2, comma 26, legge n. 335/1995
ai professionisti iscritti in albi, anche se privi di un ente di previdenza (Cass. Civ. sez. lav. 16 febbraio 2007 n. 3622;
conf. 13218/2008 cit.), dovendosi
conseguentemente escludere, a fortiori, che tale gestione potesse riguardare
gli avvocati iscritti in albi, dotati da sempre di un ente previdenziale.

Gli effetti retroattivi dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, quale norma di interpretazione, non sono in discussione, dato che
è pacifico che l’obbligo di iscrizione alla gestione separata riconosciuto
dalla giurisprudenza di legittimità, dopo l’introduzione della predetta norma
di interpretazione, è stato accertato per periodi anteriori alla sua entrata in
vigore: si considerino, ad es., i casi già citati ed esaminati da Cass. 32167/2018, 32608/2018, 519/2019, tutti riguardanti contributi richiesti
dall’INPS per l’anno 2005.

Anche nell’odierno giudizio, la disposizione in
esame è stata invocata dall’INPS per giustificare la fondatezza dell’iscrizione
d’ufficio nella gestione separata disposta con riguardo alle parti ricorrenti e
delle conseguenti pretese contributive azionate nei riguardi delle stesse, in
relazione ad un periodo di competenza, quale è il 2010, anteriore all’entrata
in vigore della norma.

Proprio il riconosciuto effetto retroattivo della
disposizione, derivante dalla sua natura di norma di interpretazione dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
pone il dubbio che la riguarda sotto i citati profili dell’irragionevolezza e
della lesione del legittimo affidamento, ex art. 3
Cost., e ciò alla luce dei medesimi criteri richiamati dalla giurisprudenza
costituzionale (ex multis, C. cost. 12 luglio 2019
n. 174).

La norma, invero, senza che sussistano interessi
imperativi di carattere generale, nel decretare l’applicabilità degli obblighi
di iscrizione e contribuzione ex art.
2, comma 26, legge n. 335/1995 anche per i periodi anteriori alla sua
entrata in vigore, incide retroattivamente ed irragionevolmente sulla
condizione giuridica ed economica degli avvocati, ledendone il legittimo
affidamento in ordine al regime previdenziale e contributivo ad essi
applicabile, per come desumibile dal sistema delineato dalla normativa ad essi
dedicata e costituita dall’art.
22, legge n. 576/1980.

Tale disciplina, come si è più volte ricordato,
stabilisce che solo gli avvocati iscritti in albi che raggiungano determinate
soglie (di reddito o di volume d’affari), fissate periodicamente dal comitato
dei delegati, siano obbligati all’iscrizione all’ente di previdenza e siano
assoggettati ad ulteriori contributi, oltre quello integrativo ex art. 11, legge n. 576/1980, e
che dunque coloro che non superino le sopraddette soglie siano tenuti a
corrispondere solo il pagamento del citato contributo integrativo.

L’impianto della legge
n. 576/1980, prima dell’entrata in vigore della disposizione dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011 e del successivo diritto vivente, sviluppatosi, peraltro e come
detto, solo dal 2018 in poi, ha quindi generato nei detti professionisti la più
che legittima convinzione di non dover essere sottoposti ad alcun ulteriore
onere previdenziale e di poter scegliere se iscriversi alla propria cassa di
previdenza o meno.

La norma prevista dall’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, nel rendere applicabili agli avvocati gli obblighi sulla gestione
separata anche per i periodi pregressi alla sua introduzione, lede, quindi, il
loro legittimo affidamento, incidendo retroattivamente sulla loro condizione
giuridica e patrimoniale, attraverso oneri ed imposizioni originariamente non
previsti, rispetto ai quali i diretti interessati non hanno potuto effettuare
alcuna preliminare valutazione o scelta (ad es., di non esercitare la
professione – o di non esercitarla a determinate condizioni – perché ritenuta
eccessivamente onerosa ovvero di richiedere, a tal punto, l’iscrizione
facoltativa alla Cassa forense, onde evitare la frammentazione del proprio
regime previdenziale, come sopra descritto § 3, sub A), etc.).

Tale lesione avviene, quindi, in forza di una sorta
di «tassazione» retroattiva, che nel caso di specie, peraltro, colpisce le
fasce più deboli della categoria, poiché produttive di redditi marginali, che
vengono così ulteriormente gravate: si consideri, ad es., il caso della
ricorrente D., avvocato dal 2009 e con un reddito imponibile nel 2010 di euro
4111, che risulta notevolmente inciso dall’importo richiesto per dall’INPS con
l’atto opposto, pari ad euro 1920,70 (di cui euro 1098,46 a titolo di
contributi ed euro 822,24 a titolo di sanzioni).

La stessa Corte di Cassazione ha riconosciuto tali
caratteristiche, nella misura in cui ha affermato che «più che un contributo
destinato ad integrare un settore previdenzialmente scoperto, i conferimenti
alla gestione separata hanno piuttosto il sapore di una tassa aggiuntiva su
determinati tipi di reddito, con il duplice scopo di “fare cassa” e
di costituire un deterrente economico all’abuso di tali forme di lavoro» (Cass. sez. lav. 32167/2018, § 8, pag. 5, che
richiama S.U. 3240/2010).

Nel caso in esame, tuttavia, l’applicazione della
norma agli avvocati esonerati dall’iscrizione alla propria cassa ex art. 22, legge n. 576/1980
determina l’irragionevole conseguenza di assoggettare a tale «tassazione»,
retroattivamente, anche quei professionisti che non avevano certamente inteso
eludere i propri obblighi contributivi, effettuando le prescritte dichiarazioni
dei redditi (come riconosciuto dall’INPS, che in forza delle medesime
dichiarazioni ha potuto procedere alla loro iscrizione d’ufficio alla gestione
separata) e facendo affidamento sul regime ad essi espressamente riconosciuto dall’art. 22, legge n. 576/1980.

E del resto, gli stessi lavori preparatori della
legge di conversione del decreto-legge n. 98/2011,
con riguardo all’art. 18,
comma 12, non sembravano preludere alla soluzione poi adottata dal diritto
vivente rispetto agli avvocati iscritti in albi, esonerati all’iscrizione ex art. 22, legge n. 576/1980.
Si richiama, in merito, quanto già evidenziato sul contenuto della relazione al
disegno di legge di conversione del decreto-legge
n. 98/2011, n. 2814/2011, pag. 29 e si
rinvia, in particolare, alla nota sub 6 del presente provvedimento.

Non sussistono, peraltro, quei presupposti che,
secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, possono consentire un giudizio
di legittimità costituzionale della norma, nella parte in cui esplica effetti
retroattivi.

Innanzitutto, non sussistono motivi imperativi di
carattere generale.

Al riguardo, si rileva lo scarso gettito
contributivo che la disposizione impugnata appare destinata a produrre, dato
che vengono coinvolti solo gli avvocati che hanno prodotto redditi molto bassi,
quali sono quelli al di sotto delle soglie ex art. 22, legge n. 576 cit., e
peraltro per un periodo di tempo molto limitato (dall’inizio dell’operazione «P.»
all’entrata in vigore dell’art.
21, comma 8, legge n. 247/2012).

In ogni modo, come è stato più volte rimarcato dalla
giurisprudenza, la mera esigenza di un maggior gettito contributivo non
costituisce un preminente interesse di carattere generale idoneo a giustificare
l’incisione retroattiva di posizioni giuridiche consolidate.

La mancanza di un preminente interesse generale e
l’irragionevolezza della norma, nella misura in cui dispone anche per il passato,
appaiono desumibili anche dalla particolare distanza temporale che corre tra
l’epoca di emanazione della norma interpretata (1995) e quella di approvazione
della norma interpretatrice (2011).

Inoltre, non appaiono sussistere quelle specifiche
condizioni che la stessa Corte costituzionale ha più volte richiamato, anche
alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e che
possono consentire di considerare ragionevole l’intervento retroattivo,
ovverosia la sussistenza di ragioni storiche epocali, la necessità di porre
rimedio ad un’imperfezione tecnica della legge interpretata, ristabilendo
un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore, la
necessità di riaffermare l’intento originale del Parlamento, la sussistenza di
manifeste sperequazioni determinate da istituti extra ordinem di eccezionale
favore, profili di illegittimità costituzionale dalla disciplina anteriore
interpretata (da ultimo, C. cost. 12 luglio 2019,
n. 174, cit.).

Anzi, va ulteriormente ribadito come
l’interpretazione autentica in esame abbia una valenza sostanzialmente
innovativa, atteso che l’applicazione della norma interpretata dell’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
alla luce della sua esegesi anche sistematica con il comma 25 dello stesso
articolo, appariva chiaramente preclusa agli avvocati del libero foro, in
quanto professionisti iscritti in albi dotati di un proprio ente di gestione
previdenziale, come in generale a tutti i professionisti comunque iscritti in
albi (in tal senso, prima del decreto-legge n.
98/2011, Cass. Civ. sez. lav. 16 febbraio 2007
n. 3622; conf. 13218/2008, cit.).

La norma in scrutinio, pertanto, appare incidere
irragionevolmente sulla posizione giuridica degli avvocati, addossando
retroattivamente oneri previdenziali non previsti dalla legislazione anteriore
e, dunque, incidendo negativamente sulla condizione patrimoniale degli stessi,
senza che sussistano motivi che possano giustificare una siffatta lesione del
legittimo affidamento, dei principi di certezza del diritto e dei diritti
acquisiti.

La giurisprudenza della Corte costituzionale, sul
tema, ha più volte ricordato che negli ambiti diversi da quello del settore
penale il legislatore, se è pur libero di emanare disposizioni retroattive,
anche di interpretazione autentica, incontra il limite nell’adeguata
giustificazione sul piano della ragionevolezza, che presuppone un puntuale
bilanciamento tra le ragioni che hanno motivato la previsione della norma
retroattiva e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente
lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata, specificando che «i limiti
posti alle leggi con efficacia retroattiva si correlano alla salvaguardia dei
principi costituzionali dell’eguaglianza e della ragionevolezza, alla tutela
del legittimo affidamento, alla coerenza e alla certezza dell’ordinamento
giuridico, al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere
giudiziario» (C. Cost., 12 luglio 2019 n. 174,
cit.).

Infine, per completezza, appare doveroso evidenziare
come la norma in esame presenti un ulteriore elemento di possibile contrasto
con i parametri costituzionali invocati.

Come ha evidenziato l’INPS nelle proprie memorie di
costituzione, la posizione di conflitto tra l’Istituto e la categoria dei
professionisti non iscritti alla gestione separata – tra cui, gli avvocati non
iscritti alla cassa forense, per mancato raggiungimento delle soglie previste
dall’art. 22, legge n.
576/1980 – è sorta nel 2009, allorquando l’INPS, a fronte della mancata
iscrizione di detti professionisti alla gestione separata, ha ritenuto di
iscriverli d’ufficio e di procedere al recupero degli importi ritenuti
spettanti (c.d. operazione P.).

All’epoca della comparsa di tale posizione di
conflitto, la giurisprudenza di legittimità aveva già chiaramente escluso
l’applicabilità della gestione separata per i professionisti iscritti in albi
(ex multis, Cass. Civ. sez. lav. 16 febbraio 2007
n. 3622; 13218/2008 cit.).

Appare pertanto oggettivo che, con l’intervento del
legislatore, avvenuto con la formulazione dell’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, è stata introdotta una norma che ha alterato la «parità delle
armi» nell’ambito di un contenzioso già chiaramente delineatosi tra l’INPS e i
professionisti, ribaltando l’orientamento dapprima espresso dalla
giurisprudenza di merito e di legittimità.

La norma in esame, pertanto, nella parte in cui non
prevede che gli obblighi di iscrizione previsti dalla norma interpretata (art. 2, comma 26, legge n. 335/1995)
possano decorrere solo dalla entrata in vigore della norma interpretatrice,
appare collidere non solo con l’art. 3 Cost.,
ma anche con i principi di cui all’art.
6 CEDU, per come richiamati. dall’art. 117,
comma 1, Cost., posto che essa incide in favore dell’INPS, con effetti
retroattivi, su di un contenzioso già in atto al momento della sua emanazione e
rispetto al quale sussisteva un indirizzo della Suprema Corte di Cassazione
opposto a quello poi seguito dal legislatore.

4) Interpretazioni costituzionalmente orientate.
Esclusione.

Tenuto conto del quadro giurisprudenziale
evidenziato in sede di ricostruzione normativa, che consente di individuare un
orientamento univoco e stabile della Suprema Corte in ordine all’applicabilità
della disciplina di cui all’art.
2, comma 26, legge n. 335/1995, come interpretato dall’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, alla categoria degli avvocati che non abbiano raggiunto le soglie
previste ex art. 22, legge n.
576/1980, appare vano ogni tentativo di procedere secondo interpretazioni
costituzionalmente orientate.

Al riguardo, si richiama, peraltro, l’indirizzo più
volte espresso dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui «in presenza di
un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo – se è pur
libero di non uniformarvisi e di proporre una sua diversa esegesi, essendo la
“vivenza” della norma una vicenda per definizione aperta, ancor più
quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali – ha
alternativamente la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini
di “diritto vivente” e di richiederne su tale presupposto il
controllo di compatibilità con parametri costituzionali (sentenze n. 191 del
2013, n. 258 e n. 117 del 2012 e n. 91 del
2004)» (C. cost. 24 ottobre 2014, n. 242).

1) Norma applicabile anche all’opposizione
all’avviso di addebito ai sensi dell’art. 30, comma 14, D.L. 31/5/2010
2010, n. 78 (in Suppl. ordinario n. 114 alla G. U., 31/5/2010, n. 125),
convertito, con mod., in legge 30/7/2010, n. 122,
secondo cui “Ai fini [della procedura di riscossione] di cui al presente
articolo, i riferimenti contenuti in norme vigenti al ruolo, alle somme
iscritte a ruolo e alla cartella di pagamento si intendono effettuati ai fini
del recupero delle somme dovute a qualunque titolo all’INPS al titolo esecutivo
emesso dallo stesso Istituto, costituito dall’avviso di addebito contenente
l’intimazione ad adempiere l’obbligo di pagamento delle medesime somme affidate
per il recupero agli agenti della riscossione”.

2) In base alla delibera del Comitato dei delegati
del 28 settembre 2007, le soglie minime ex art. 22 l. 576/1980 ai fini
dell’obbligo di iscrizione previste per il 2010 erano di €. 10.000,00 di
reddito professionale netto o €. 15.000,00 di volume di affari.

3) In tal senso, sembra deporre anche la relazione
al disegno di legge di conversione n. 2814/2011, alla pag. 29, consultabile in

4) http://www.senato.it/bgt/pdf/s2814-1.pdf

5) (su cui più ampiamente infra, nota sub 6)).

6) Per comodità di lettura, si riporta la nota in
questione, nella parte di interesse, secondo cui prima dell’entrata in vigore
del regolamento di attuazione dell’art.
21, commi 8 e 9, legge n. 247/2012, «l’iscrizione alla Cassa era
facoltativa e, a domanda, nei casi in cui il professionista non raggiungesse
una soglia minima di reddito o di volume d’affari IVA, di natura professionale,
fissati dal comitato dei delegati per l’accertamento dell’esercizio
continuativo della professione».

7) Ai sensi dell’art. 21, comma 8, legge n. 247/2012,
invero, è stato previsto che «l’iscrizione agli albi comporta la contestuale
iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense» e, ai sensi
dell’art. 21, comma 9, che o
«La Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, con proprio regolamento,
determina, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge,
i minimi contributivi dovuti nel caso di soggetti iscritti senza il
raggiungimento di parametri reddituali, eventuali condizioni temporanee di
esenzione o di diminuzione dei contributi per soggetti in particolari
condizioni e l’eventuale applicazione del regime contributivo».

8) La relazione al disegno di legge n. 2814 cit. è
consultabile in

9) http://www.senato.it/bgt/pdf/s2814-1.pdf

10) La stessa, proprio in merito all’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, sembra giustificare la sua introduzione in relazione al fenomeno
dell’elusione contributiva favorita da disposizioni statutarie e regolamentari
di «alcuni enti» previdenziali, relativamente all’attività professionale
esercitata «dopo la pensione», e non già all’esonero per motivi reddituali
previsto da specifiche norme di legge dell’ordinamento previdenziale forense,
come l’art. 22, legge n.
576/1980. La relazione, inoltre, sembra escludere dall’obbligo di
iscrizione alla gestione separata coloro che svolgono un’attività il cui
esercizio presuppone l’iscrizione ad appositi albi o elenchi. Essa, invero,
illustra che «Il comma 12 riguarda la contribuzione in tutti i casi di
svolgimento dell’attività professionale. Le vigenti disposizioni statutarie e
regolamentari di alcuni enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996, approvati dai vigilanti Ministeri del
lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze, hanno
previsto la possibilità, su base volontaria, di proseguire l’esercizio della
attività professionale una volta liquidato il trattamento pensionistico, senza
essere tenuti al versamento della contribuzione ordinaria. Tali previsioni si
sono rivelate non coerenti con il principio di carattere generale in base al
quale i redditi prodotti devono essere assoggettati a contribuzione
previdenziale, per cui l’INPS nell’ambito di una vasta operazione finalizzata a
contrastare l’evasione ed elusione contributiva, ha ritenuto di contestare in
tali ipotesi il mancato versamento della contribuzione presso la propria
gestione separata, di cui all’art.
2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335». Specifica, quindi, che «la
norma in esame intende offrire quindi una soluzione alla questione, da una
parte, imponendo per il futuro l’obbligo per i citati enti previdenziali di
diritto privato di prevedere negli statuti e nei regolamenti l’obbligatorietà
dell’iscrizione e della contribuzione in tutti i casi di svolgimento
dell’attività professionale (ossia, anche una volta maturato il trattamento
pensionistico) e, dall’altra, precisando che sono soggetti all’iscrizione
presso la gestione separata INPS coloro che svolgono attività il cui esercizio
non è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi, salvo diversa
previsione legislativa».

11) Anche con riguardo alla categoria forense, la
Cassazione, nel confermare i principi espressi con riguardo agli ingegneri,
sembra presupporre l’impossibilità del professionista con redditi sotto le
soglie ex art. 22, legge n.
576/1980 di iscriversi alla Cassa forense: si consideri, in proposito,
quanto affermato da Cass. 32167/2018 cit., al
paragrafo 7, secondo cui «Giova ricordare, con riguardo al caso di specie, che
per l’iscrizione alla Cassa di Previdenza ed Assistenza Forense, al tempo in
cui si colloca la fattispecie, occorrevano due requisiti: l’iscrizione all’albo
professionale e l’esercizio della professione con carattere di continuità. Non
potevano usufruire della previdenza forense coloro che esercitavano la libera
professione in modo occasionale pur rimanendo iscritti all’albo professionale.
L’obbligo di iscriversi alla Cassa Forense, con conseguente obbligo di contribuzione
nei limiti fissati dal Comitato dei Delegati della Cassa, conseguiva al
raggiungimento, nel corso dell’anno, di un reddito netto e di un volume di
affari (Iva) superiore ai limiti determinati, anno per anno, sempre dal
Comitato dei Delegati».

 

P.Q.M.

 

Visti gli articoli 134
Cost. e 23 legge 11 marzo 1953,
n. 87;

Visti gli articoli 3,
117, comma 1 Cost., in relazione all’art. 6 Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848 (CEDU);

Ritenuto, in relazione alle suddette disposizioni,
non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale
relative:

A) in via principale, all’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995,
come interpretato dall’art. 18,
comma 12, decreto-legge n. 98/2011, nella parte in cui prevede, a carico
degli avvocati del libero foro non iscritti alla Cassa di previdenza forense
per mancato raggiungimento delle soglie (di reddito o di volumi di affari) ex art. 22, legge n. 576/1980,
l’obbligo di iscrizione presso la gestione separata INPS;

B) in subordine, all’art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98/2011, nella parte in cui non prevede che l’obbligo di iscrizione alla
gestione separata dell’INPS, a carico degli avvocati del libero foro non
iscritti alla Cassa di previdenza forense per mancato raggiungimento delle
soglie (di reddito o di volumi di affari) ex art. 22, legge n. 576/1980,
decorra per i periodi successivi alla sua entrata in vigore;

Ritenuta la questione rilevante, per le
argomentazioni indicate in parte motiva;

Sospende il giudizio e dispone l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;

Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente
ordinanza venga notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio
dei ministri e comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato
della Repubblica.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale
del 16 giugno 2021, n. 24

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI CATANIA – Ordinanza 01 febbraio 2021, n. 86
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