Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 giugno 2021, n. 17206

Sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
Dimissioni volontarie, Interposizione fittizia, Dipendenti operanti in locali
separati, Organizzazione del servizio interamente curata dalla società
appaltatrice, Erronea percezione dei fatti di causa, Errore non può
riguardare l’attività interpretativa e valutativa

 

Fatti di causa

 

1. Con ordinanza n. 1844 del 13 novembre 2018/23
gennaio 2019 questa Corte ha respinto il ricorso di A.G. e degli altri
litisconsorti indicati in epigrafe avverso la sentenza n. 5598/2013 con la
quale la Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale della
stessa sede, aveva rigettato le domande proposte nei confronti di S. s.p.a. e di
A.C. s.p.a., volte ad ottenere: l’accertamento della violazione del divieto
previsto dall’art. 1 della
legge n. 1369/1960; la dichiarazione di sussistenza di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze di S. s.p.a., ancora in atto; la
condanna della società datrice alla reintegrazione nel posto di lavoro in
precedenza occupato.

2. La Corte territoriale, in via preliminare, aveva
ritenuto che il rapporto fosse stato risolto per mutuo consenso quanto agli
appellati B., D.F., C. e R. perché i lavoratori, che avevano rassegnato
dimissioni volontarie nei confronti del datore di lavoro apparente, avevano
agito contro l’appaltante S. a distanza di tre o quattro anni dalle citate
dimissioni.

Aveva, poi, escluso la dedotta interposizione
fittizia rilevando che non si era verificata alcuna commistione con i
dipendenti S., che operavano in locali separati, perché l’organizzazione del
servizio era stata interamente curata dalla società appaltatrice, la quale
aveva assunto il rischio di impresa.

3. Il ricorso per cassazione, affidato a due motivi,
è stato rigettato da questa Corte sul rilievo che con il primo motivo,
formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 cod.
proc. civ., i ricorrenti avevano censurato la valutazione di merito
espressa dal giudice d’appello circa gli elementi di fatto che portavano ad
escludere la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la S..

E’ stato anche evidenziato che, a seguito della
riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.,
il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza impugnata è
consentito nei ristretti limiti indicati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8053/2014 e, pertanto, in assenza di
precise indicazioni della parte ricorrente circa la configurabilità di
un’anomalia motivazionale tale da integrare una delle ipotesi indicate nella
pronuncia citata, la censura proposta doveva essere ritenuta inammissibile.

Ulteriore profilo di inammissibilità del primo
motivo è stato ravvisato nel difetto di specificità, perché i ricorrenti non
avevano indicato in che modo ed in quale atto del giudizio di merito erano
state poste le questioni sviluppate nella censura.

4. Il secondo motivo, con il quale era stato
censurato il capo della decisione inerente l’avvenuta risoluzione del rapporto
per mutuo consenso, è stato ritenuto ultroneo, una volta dichiarato
inammissibile il primo motivo, trattandosi di pronuncia fondata su autonome
rationes decidendi, ciascuna sufficiente a sorreggere il decisum.

5. Con ricorso notificato in data 23 luglio 2019 i
litisconsorti in epigrafe indicati hanno domandato la revocazione
dell’ordinanza sulla base di tre motivi, ai quali hanno resistito con
controricorso S. s.p.a. – Società Generale d’informatica e A.C. s.p.a..

Le prospettazioni difensive sono state illustrate da
tutte le parti con memoria ex art. 378 cod. proc.
civ..

6. La Procura Generale ha depositato memoria ed ha
concluso per l’inammissibilità del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo è denunciato «errore di
percezione sulla lamentata violazione e falsa applicazione di legge » perché
con il ricorso per cassazione era stato addebitato al giudice d’appello di non
avere indicato le ragioni del proprio convincimento e di avere fondato la
decisione su fatti che non erano stati accertati nel processo. Erano state,
cioè, denunciate l’apparenza e la contraddittorietà della motivazione, sicché
l’affermazione di questa Corte, secondo cui il ricorso sarebbe stato volto a
censurare l’accertamento di fatto, sarebbe frutto di errore percettivo.

2. I ricorrenti argomentano, poi, sull’errore di
percezione che sarebbe stato commesso in relazione alle censure mosse alla
motivazione della sentenza ed insistono nel sostenere che la Corte territoriale
aveva fondato la decisione su affermazioni apodittiche, non ancorate a
specifiche fonti di prova. Riportano, in sintesi, il contenuto del ricorso per
cassazione e affermano che la motivazione dell’ordinanza di questa Corte,
impugnata per revocazione, «si appalesa non congrua al ricorso»

3. Infine, quanto al secondo motivo, i ricorrenti
rilevano che lo stesso è stato assorbito, in conseguenza dell’errore commesso
in relazione al primo motivo e, pertanto, insistono per l’accoglimento della
censura riproponendo le conclusioni e le argomentazioni dell’originario
ricorso.

4. Il ricorso è inammissibile in tutte le sue
articolazioni.

L’errore rilevante ex art.
395 n. 4 cod. proc. civ. consiste nella erronea percezione dei fatti di
causa che abbia indotto la supposizione della esistenza o della inesistenza di
un fatto la cui verità è incontestabilmente esclusa o accertata dagli atti di
causa, a condizione che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia
costituito materia del dibattito processuale su cui la pronuncia contestata
abbia statuito.

Muovendo da detta premessa questa Corte ha
evidenziato che: l’errore non può riguardare l’attività interpretativa e
valutativa; deve avere i caratteri della assoluta evidenza e della semplice
rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti
di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini
ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo nel senso che tra la percezione
erronea e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che senza
l’errore la pronuncia sarebbe stata sicuramente diversa (Cass. 5.7.2004 n.
12283; Cass. 20.2.2006 n. 3652; Cass. 9.5.2007 n. 10637; Cass. 26.2.2008 n.
5075; Cass. 29.10.2010 n. 22171).

Sviluppando i richiamati principi si è ritenuto,
nelle pronunce più recenti delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U.
24.11.2020 n. 26674; Cass. Sez. Un. 10.11.2020 n. 25212; Cass. S.U. 27.11.2019
n. 31032; Cass. Sez. Un. 27.12.2017, n. 30994, Cass. Sez. Un. 16.11.2016 n.
23306), che restano fuori dal vizio revocatorio: gli errori formatisi sulla
base di un’assunta errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e
risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio
sul piano logico-giuridico; l’erronea comprensione del contenuto
giuridico-concettuale delle difese e l’inesatta qualificazione dei fatti ivi esposti;
l’errato apprezzamento di un motivo di ricorso, perché siffatto tipo di errore,
ove pure in astratta ipotesi fondato, costituirebbe un errore di giudizio e non
un errore di fatto.

E’ stato, in sintesi, affermato che «è esperibile,
ai sensi degli artt. 391-bis e 395, comma 1, n. 4, c.p.c., la revocazione per
l’errore di fatto in cui sia incorso il giudice di legittimità che non abbia
deciso su uno o più motivi di ricorso, ma deve escludersi il vizio revocatorio
tutte le volte che la pronunzia sul motivo sia effettivamente intervenuta,
anche se con motivazione che non abbia preso specificamente in esame alcune
delle argomentazioni svolte come motivi di censura del punto, perché in tal caso
è dedotto non già un errore di fatto (quale svista percettiva immediatamente
percepibile), bensì un’errata considerazione e interpretazione dell’oggetto di
ricorso e, quindi, un errore di giudizio» (Cass. S.U. n. 31032/2019).

4.1. Nel caso di specie, poiché la pronuncia è stata
resa su entrambi i motivi, non è predicabile l’errore di fatto e, pertanto, il
ricorso per revocazione deve essere dichiarato inammissibile.

Si tratta di un profilo di inammissibilità
assorbente che esime la Corte dall’affrontare le ulteriori questioni inerenti
l’effettiva sussistenza dell’errore denunciato e la decisività dello stesso.

5. Le spese del giudizio di revocazione seguono la
soccombenza e vanno poste a carico dei ricorrenti nella misura liquidata in
dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n.
4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di revocazione in favore delle
società controricorrenti, liquidate per ciascuna in € 200,00 per esborsi ed €
3.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e
accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 giugno 2021, n. 17206
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