Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 giugno 2021, n. 24638

Rapporto di lavoro, Sospensione dell’attività imprenditoriale
– Omessa comunicazione di assunzione, Verbale ispettivo, Prova

1. Il Tribunale di Taranto, con sentenza emessa il
28 ottobre 2019 ha condannato alla pena di euro tremila di ammenda B.A. per il
reato di cui all’art. 14, comma
10 del D.lgs. n, 81 del 2008, perché, nella qualità di esercente l’attività
di macelleria, benché destinatario del provvedimento di sospensione
dell’attività imprenditoriale impartito dall’Ispettorato del Lavoro di Taranto
per avere occupato i lavoratori C.G. e P.C. con rapporto di lavoro subordinato
e senza regolare comunicazione al competente CTI, non vi ottemperava
continuando nell’attività, fatto accertato a Crispiano il 23 novembre 2014.

2. A mezzo del proprio difensore di fiducia,
l’imputato proponeva atto di appello, trasmesso a questa Suprema Corte,
trattandosi di sentenza inappellabile, con il quale chiede l’assoluzione,
quanto meno ex art. 530, comma 2 cod. proc. pen., atteso che la
diffida fu notificata al B. solo venti giorni dopo la verifica effettuata, ma
in tale atto non era contenuta alcuna indicazione circa il tempo di
sospensione. Inoltre il verbale ispettivo che sarebbe stato disatteso non è
stato prodotto agli atti del dibattimento, ma, ciò nonostante, il tribunale ha
ritenuto prova sufficiente della sua esistenza la testimonianza di P.C.

Il ricorrente ha poi chiesto l’esclusione della
punibilità per particolare tenuità del fatto, nonché si è doluto della mancata
concessione delle circostanze generiche e della dosimetria sanzionatola non
prossima al minimo edittale.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è inammissibile in quanto risulta
argomentato quale vero e proprio atto di appello, prospettando una
rivalutazione in merito agli elementi probatori in atti, giudizio non
consentito nella presente sede di legittimità, essendo da escludere la
possibilità di una nuova (e più favorevole alla difesa) valutazione delle
risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di
merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati
processuali, o una diversa ricostruzione storica dei fatti, o un diverso
giudizio di rilevanza, o comunque di attendibilità delle fonti di prova (cfr.
Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv.
276970; Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575; Sez. 3, n. 12226 del 22/01/2015, G.F.S., non
massimata; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini,
Rv. 253099).

2. Il giudice di merito ha espresso il proprio
convincimento con una motivazione del tutto esaustiva ed immune da smagliature
logiche, laddove ha ripercorso le dichiarazioni rese dall’ispettore del lavoro
P.C., risultando evidente la prova che in data 1 agosto 2014 era stata
accertata la presenza di due lavoratori adibiti all’interno della macelleria
gestita dall’imputato, che non erano stati precedentemente regolarmente assunti
e di conseguenza era stato notificato, in tale medesima occasione, il
provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, efficace a far data
dal giorno seguente, salvo che il contravventore non avesse esibito i documenti
relativi alla regolarizzazione del rapporto di lavoro. Inoltre il giudice di
merito ha ripercorso nel dettaglio l’iter procedimentale successivo
all’accertamento della violazione, costituito dall’emanazione della
prescrizione obbligatoria ai sensi dell’art. 20 d.lgs
n. 758 del 1994, senza che il contravventore abbia provveduto alla stessa.
Infatti la sentenza dà atto che gli ispettori del lavoro in data 17 settembre
2014 avevano accertato che il B. non aveva provveduto alla regolarizzazione e i
due dipendenti avevano continuato a prestare attività lavorativa e di
conseguenza, in data 23 settembre 2014, veniva prescritto formalmente
l’adempimento del dovere di assunzione ed il pagamento della sanzione entro
dieci giorni. L’inottemperanza della prescrizione veniva verificata
successivamente, in data 23 novembre 2014. Per cui risulta evidente la
manifesta infondatezza della doglianza circa la mancata conoscenza in capo
all’imputato della disposta sospensione, essendo la data indicata nel capo di
imputazione quella dell’accertamento del reato, a seguito della verifica
dell’inadempimento delle prescrizioni imposte con il verbale del 23 settembre
2014.

3. Quanto alla doglianza in ordine al mancato
riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod, pen., il tribunale ha motivato in maniera adeguata il
rigetto della richiesta, fondando il proprio giudizio sulla durata temporale
della violazione accertata, e quindi sulla reiterazione della condotta di
inottemperanza. Quanto alla censura sulla dosimetria della pena e sulla
reiezione delle circostanze attenuanti generiche, è del pari manifestamente
infondato, avendo il giudice di merito dato conto in maniera sufficiente degli
elementi ritenuti preponderanti tra quelli di cui all’art. 133 cod. pen. per
addivenire alla determinazione della pena: tale valutazione adeguatamente
motivata non è sindacabile sul piano del merito nel giudizio di legittimità, in
quanto la determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una
valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi
offerti dalla legge. Parimenti la ratio della disposizione di cui all’art. 62 bis cod. pen.
non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola
eventuale deduzione difensiva essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli
elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle
attenuanti generiche. Nel caso di specie il giudice ha sottolineato il
disinteresse manifestato dall’imputato nella regolarizzazione dei lavoratori
per sancire l’inesistenza di elementi positivi valutabili a tal fine ed ha
stabilito la pena pecuniaria di tremila euro anziché quella detentiva, pur
comminabile in considerazione dell’intensità del dolo e la condotta reiterata,
in considerazione dell’entità dei fatti.

Pertanto il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile e l’inammissibilità rende impossibile la formazione di un valido
rapporto impugnatorio, necessario per consentire la
rilevazione in sede di legittimità dell’eventuale estinzione del reato, per lo
spirare dei termini di prescrizione successivi alla data della sentenza di
appello. A ciò consegue la condanna del ricorrente, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese
processuali ed al pagamento della somma di tremila euro in favore della Cassa
delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 giugno 2021, n. 24638
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