Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 19583

Collaborazioni coordinate e continuative, Sussistenza di un
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, Conseguenze
“risarcitorie” per il datore di lavoro

 

Fatti di causa

 

M.L.Z. ha interposto appello, nei confronti di E.S.
S.r.l., avverso la sentenza del Tribunale di Roma resa il 24.11.2011, con la
quale era stato respinto il ricorso della lavoratrice diretto all’accertamento
della sussistenza inter partes di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dal 21.12.2004, ed altresì alla dichiarazione «della
illegittimità, inefficacia e nullità del licenziamento alla stessa intimato in
data 8.8.2008», ed alla «condanna della società alla reintegra nel posto di
lavoro ed al pagamento della retribuzione globale di fatto dalla data del
licenziamento a quella della reintegra o, in subordine, al risarcimento del
danno», in misura non inferiore a sei mensilità, nonché al pagamento delle
differenze retributive ed al versamento dei contributi previdenziali ed
assistenziali.

La Corte territoriale di Roma, con sentenza
pubblicata il 3.12.2015, in parziale riforma della pronunzia impugnata, ferma
nel resto, ha dichiarato «la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro
subordinato a tempo indeterminato, con inquadramento nel quarto livello del
CCNL del Settore Terziario, con decorrenza dal 21.12.2004, ancora in atto, con
diritto dell’appellante al ripristino del rapporto», ed ha condannato «la
società appellata alla regolarizzazione contributiva del rapporto sin dal suo
inizio ed al pagamento in favore dell’appellante, a titolo risarcitorio, delle
retribuzioni dal 10.10.2008 alla data della sentenza di appello, oltre
rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze al saldo».

La Corte di merito, per quanto ancora di rilievo in
questa sede, ha osservato che «ai sensi dell’art. 61 del D.Igs. n. 276/2003, i
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale
e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409, n. 3), c.p.c. devono
essere riconducibili a uno o più progetti specifici determinati dal committente
e gestiti autonomamente dal collaboratore. Non vi è, pertanto, alcuna
distinzione ontologica tra contratti di collaborazione e contratti “a
progetto” per la semplice ragione che, secondo la normativa di cui al
D.Igs. n. 276/2003 applicabile ratione temporis ai contratti intercorsi tra le
parti, i contratti di collaborazione devono avere ad oggetto “un progetto”
specifico»; ed altresì che «Ciò chiarito, si deve rilevare che non può avere
rilievo decisivo, ai fini della effettiva qualificazione giuridica del
rapporto, il nomen iuris dato dalle parti nei contratti di collaborazione
coordinata e continuativa in quanto, non solo tale
“autoqualificazione” non pregiudica, secondo il consolidato
orientamento di legittimità, l’accertamento della sussistenza della
subordinazione nel concreto svolgimento del rapporto, costituendo un elemento
prevalentemente indiziario, ma anche perché, come puntualmente eccepito dalla
Z. sin dal primo grado, i contratti stipulati tra le parti non sono conformi
alla normativa di cui al D.Igs. 276/2003, nella cui vigenza sono stati
stipulati, in quanto l’attività che costituiva l’oggetto della prestazione non
richiedeva affatto l’esercizio di una professione per la quale era necessaria
l’iscrizione nell’albo professionale (nella specie psicologa) come previsto dal
terzo comma dell’art. 61 del citato D. Igs., ma solo un’attività di semplice
sollecito telefonico (call center) al cliente T. del pagamento delle fatture
scadute, per cui i contratti avrebbero dovuto contenere le indicazioni di uno
specifico progetto».

Per la cassazione della sentenza ricorre E.S. S.p.A.
affidandosi a due motivi, cui M.L.Z. resiste con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo la parte ricorrente deduce,
in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa
applicazione «dell’art. 32, commi 1, 3 sub lettera a) (e d) ante I. 92/2012, 4
sub lettere a e b, 5, 7 e 50 I. 10 novembre 2010, n. 183, nonché art. 6 I.
604/1966, in relazione all’art. 69, comma 1, Dlgs. 276/2003, nonché degli artt.
112 e 113, 1° comma, c.p.c.», in via preliminare, per l’errata applicazione
della «disciplina di diritto comune» quale conseguenza dell’accertata
subordinazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa
intercorsi tra le parti dal 21.12.2004 all’8.8.2008; si lamenta, in
particolare, che i giudici di seconda istanza, una volta ritenuto, «a fronte
delle modalità di svolgimento del rapporto così come emersa
dall’istruttoria….»  che si fosse
instaurato tra le parti un contratto di lavoro subordinato, «essendo stati
stipulati i contratti intercorsi in violazione dell’art. 61, comma 3, del D.Igs.
276/2003 (disciplina derogatoria ai co.co .pro) pre riforma Fornero-I. n.
92/2012» e, pertanto, ritenuto «applicabile l’art. 69, comma 1, del predetto
D.Igs. 276/2003 pre riforma Fornero, secondo cui “I rapporti di
collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di
uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art.
61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo
indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”», tuttavia,
«quanto alle conseguenze dell’accertamento della natura subordinata del
rapporto e della sua definitiva cessazione alla scadenza del terzo contratto
(avvenuta con la lettera dell’8 agosto 2006 non ritenuta rettamente un
licenziamento, essendosi limitata la società a comunicare il mancato rinnovo
del contratto di collaborazione che andava a scadere proprio in data 8 agosto
2006), il Collegio assumeva fosse applicabile la disciplina di diritto comune
secondo la quale il lavoratore ha diritto all’immediato ripristino del rapporto
ed al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni che avrebbe dovuto
percepire dalla data di messa in mora che può individuarsi nel caso di specie
nella richiesta di tentativo di conciliazione inviata anche alla società e a questa
pervenuta il 10.10.2008 con la quale la Z., chiedendo la riassunzione, ha di
fatto posto le proprie energie lavorative a disposizione della società». A
parere della società ricorrente, la Corte di merito «ha errato nella
applicazione della normativa alla fattispecie, in tema di
“conseguenze” risarcitorie in capo al datore di lavoro a seguito
dell’accertata subordinazione dei contratti di collaborazione coordinata e
continuativa intercorsi inter partes dal 21.12.2004 all’8.8.2008», poiché «con
la legge 183/2010 il legislatore ha previsto sub comma 5 una nuova indennità
ristoratrice dell’intero pregiudizio subito dal lavoratore in caso di
conversione del contratto a tempo determinato così espressamente disponendo:
“nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice
condanna il datore di lavoro al risarcimento stabilendo un’indennità
onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604″». E tale
erronea impostazione della Corte di Appello ha «comportato l’applicazione di
una condanna illegittima a carico dell’odierna ricorrente secondo la
“disciplina di diritto comune” e, quindi, a tutte “le
retribuzioni a far data dal 10.10.2008 alla data della presente sentenza”
(depositata il 3.12.2015)».

2. Con il secondo motivo la società denunzia, in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2099 e 2107 c.c., 36 Cost., 36, 123, 125 del CCNL
Commercio, Servizi e Terziario, 1, 2, 3 e 4 del D.Igs. n. 66 del 2003, per
avere i giudici di secondo grado «condannato la stessa a corrispondere a titolo
risarcitorio “la retribuzione” senza la specifica, riconosciuta prova
dell’orario di lavoro che, infatti, aveva già condotto rettamente al rigetto
delle differenze retributive».

1.1. Il primo motivo è fondato, secondo quanto di
seguito osservato. Nella fattispecie, si discute dell’applicabilità o meno
della indennità onnicomprensiva di cui all’art. 32, quinto comma, della I. n.
183 del 2010 ai contratti di collaborazione a progetto dichiarati illegittimi;
norma ai sensi della quale, in caso di conversione del contratto a tempo
determinato, il giudice condanna la parte datoriale al risarcimento, in favore
del lavoratore, stabilendo una indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5
ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della I. n. 604 del 1966.

Fatte tali premesse, questo Collegio intende dare
continuità agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte
nella materia, che condivide pienamente – ed ai quali, ai sensi dell’art. 118
Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., ex plurimis, Cass. nn.
24100/2019; 13404/2013; 1148/2013) -, secondo cui «il quinto comma dell’art. 32
della I. n. 183 del 2010 contiene una formulazione unitaria, indistinta e
generale di “casi” di conversione del “contratto a tempo
determinato” senza alcuna specificazione normativa di riferimento, né
aggiunta di elementi selettivi. Sulla base di tale piana constatazione
interpretativa questa Corte ha adottato una lettura estensiva della formula
“casi di conversione del contratto a tempo determinato, comprensiva anche
dei contratti di lavoro temporaneo, non preclusa da una “indicazione”
contenuta nella sentenza n. 303 del 2011 della Corte costituzionale, in quanto
“non vincolante e limitata ad un inciso, peraltro riguardante il contratto
di somministrazione, in una sentenza focalizzata su altro problema”». Per
la qual cosa, va considerato quale <<dato acquisito, per indirizzo
giurisprudenziale di legittimità ormai consolidato in diritto vivente, la
necessità di verificare la sussistenza delle due sole condizioni: a) di natura
a tempo determinato del contratto di lavoro; b) di presenza di un fenomeno di
conversione»; condizioni che sussistono, entrambe, nella fattispecie, nella
quale, in carenza di uno specifico progetto, funzionalmente collegato al
raggiungimento di un risultato finale, il rapporto è stato convertito
automaticamente, ai sensi dell’art. 69, primo comma del D.Igs. n. 276/2003,
applicabile ratione temporís nella versione antecedente alle modifiche
dell’art. 1, comma 23, lett. f), della I. n. 92 del 2012.

E tale conclusione trova, altresì, conforto nel
disposto dell’art. 50 della I. n. 183 del 2010, che introduce un sistema
speciale finalizzato a limitare, in sede di prima applicazione della I. n. 183
del 2010, le conseguenze sanzionatorie in caso di accertamento della natura
subordinata del rapporto delle collaborazioni coordinate e continuative, anche
a progetto, già oggetto di un’offerta di stabilizzazione ai sensi dell’art. 1,
comma 1202 e segg., della I. n. 296 del 2006 (c.d. “legge
finanziaria”), non potendosi così trarsene una regola generale nel senso
di escludere, in difetto delle condizioni di stabilizzazione eccezionalmente
indicate, il contratto in esame dalla soggezione al nuovo generale regime indennitario.

Le considerazioni svolte comportano l’accoglimento
del primo motivo, non essendosi la Corte di Appello uniformata ai principi
enunciati.

2.2. Il secondo motivo resta assorbito, considerata
la evidente pregiudizialità ed il carattere assorbente che, nella fattispecie,
il momento della esatta determinazione delle «conseguenze risarcitorie», da
porre a carico della parte datoriale, a seguito dell’accertata subordinazione
dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa di cui si discute,
riveste nei confronti dell’intera controversia.

3. Per le considerazioni svolte, la sentenza va
cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte
di  Appello di Roma, in diversa
composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, ai principi
innanzi affermati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del
giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c..

 

P.Q.M.

 

accoglie il primo motivo di ricorso; assorbito il
secondo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche
per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 19583
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