Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 26151

Violazione di norme di prevenzione e sicurezza dei luoghi di
lavoro, Morte del lavoratore, Comportamento abnorme ed imprevedibile dal
datore di lavoro, Prova, Accertamento

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 16 settembre 2019 la Corte di
Appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Vasto con cui
A.B., F.D. e G.D.L. sono stati assolti con la formula ‘perché il fatto non
sussiste’ dal reato di cui all’art. 589 comma secondo cod. pen., loro ascritto
dall’imputazione per avere cagionato, nelle loro qualità, rispettivamente di
dirigente della P.I. s.p.a., preposto e preposto diretto dello stabilimento
aziendale di San Salvo (Chieti), la morte del lavoratore D.D.F., perché con
imprudenza, negligenza ed imperizia, ed in violazione di norme di prevenzione e
sicurezza dei luoghi di lavoro ed in particolare dell’art. 64, comma 1, lett. c) ed e)
d.lgs. 81/2008, consentivano e tolleravano l’utilizzazione da parte dei
dipendenti di un’area di produzione dismessa, quale zona franca per fumare, in
pessime condizioni igieniche e microclimatiche, caratterizzata da alte
temperature, senza informare i diretti superiori, non impedendo che D.D.F.,
affetto da epilessia e garantito da prescrizioni medico aziendali che non
consentivano, fra l’altro, il lavoro in ambiente confinato, vi accedesse, ed
ivi colto da crisi, probabilmente favorita dall’alta temperatura, fosse
ritrovato solo dopo due ore, in stato di coma, decedendo dopo nove giorni per
progressiva ed ingravescente disfunzione multiorgano e coagulopatia
intravascolare disseminata, secondaria a coma post-epilettico prolungato.

2. La sentenza di primo grado ha ricostruito come
segue: il lavoratore D.D.F., dipendente della P.I., presso lo stabilimento di
San Salvo, con mansioni di addetto al controllo nel reparto CRS, destinatario
in quanto affetto da epilessie, pur ritenuto abile al lavoro ed alle mansioni,
di prescrizioni inerenti al divieto di lavoro notturno, al divieto di lavoro in
ambienti confinati o in solitario, al divieto di lavoro in quota o su carrelli,
il giorno 13 luglio 2014, intorno alle ore 8 si allontanava dalla sua
postazione. Intorno alle ore 9.00, il collega A.F., non vedendolo tornare
cominciava a cercarlo, verificando anche che egli non si fosse introdotto nel
box della vecchia linea di produzione, ma avendo ritrovato la porta chiusa con
un lucchetto, ed avendo visto che all’interno era tutto buio, si metteva a cercarlo
altrove. Allertati, altri dipendenti cominciavano le ricerche, che si
concludevano dopo un’ora, quando D.F. veniva rinvenuto, in stato di coma,
all’interno dell’area dismessa ‘ex area applicazione film antilacerante’, e
precisamente in un locale cui si accedeva da una porta del box ove il collega
F. lo aveva cercato un’ora prima, chiusa con un lucchetto, che, tuttavia,
presentava un pannello inferiore manomesso. Il coma anossico, determinato dalla
crisi epilettica induceva la disfunzione multiorgano che conduceva D.F. alla
morte. Il tribunale ha assolto gli imputati per insussistenza del fatto,
osservando che D.F. era normalmente adibito a due diverse postazioni e gli era
assicurata una certa libertà di movimento, proprio in ragione della sua malattia;
dalla lettura complessiva del fascicolo delle indagini preliminari era
risultato che l’area nella quale D.F. era stato ritrovato fosse un’area
completamente dismessa, ove non era presente alcuna fonte di calore; che i
testimoni hanno riferito che D.F. presentava una temperatura corporea elevata,
ma nulla hanno riferito sulla temperatura dell’ambiente in cui fu rinvenuto;
che non è emerso dagli atti che gli imputati avessero saputo e tollerato l’uso
da parte dei lavoratori dell’area, non essendo risultato che altri, oltre al
D.F. si fossero sistematicamente introdotti all’interno del locale; che non è
stato possibile accertare se un intervento più tempestivo avrebbe, con
ragionevole certezza, evitato l’evento morte o ridotto la significatività
dell’evento lesivo; che non è stato possibile ricostruire quando egli abbia
avuto l’attacco epilettico, quando sia entrato in coma e come abbia influito il
fattore tempo sullo stato comatoso accertato; che nessuna indagine è stata
svolta sulla sussistenza del nesso causale fra la condotta omissiva contestata
e l’evento morte. Il Tribunale ha, inoltre, considerato che D.F. manomettendo
il pannello, in modo che ciò non fosse visibile, aveva posto in essere un
comportamento che, di per sé , aveva costituito un ostacolo alle ricerche; che
il datore di lavoro aveva ottemperato alla prescrizioni impartite dal medico in
relazione alla prestazione lavorativa, consistenti nel non adibire il
lavoratore a lavoro notturno, al lavoro in quota o su carrelli, al lavoro in
ambiente o in solitario. Invero, D.F. operava in ambiente aperto, in postazioni
che potevano essere monitorate dai colleghi di lavoro, da una delle quali si
era allontanato senza motivo noto o plausibile, per recarsi in un ambiente
totalmente chiuso, manomettendo un pannello per entrarvi. Egli aveva, pertanto,
messo in atto un comportamento abnorme ed imprevedibile dal datore di lavoro,
cui non era richiesto di tenere il lavoratore sotto controllo continuo e
costante, ma solo di non contravvenire alle prescrizioni impartite, cui aveva
regolarmente adempiuto. Il datore di lavoro, dunque, non aveva posto in essere
alcuna condotta omissiva e mancava, in ogni caso, il nesso causale con la morte
del lavoratore.

3. La Corte di appello, confermando la sentenza di
primo grado, ha ripercorso il compendio probatorio inerente alla ricostruzione
del fatto, ribadendo le modalità di accadimento come accertate dal primo
giudice. Indi si è soffermata sull’assenza della condotta colposa ascritta,
rilevando che, pur non potendo escludersi che altri, oltre a D.F., avessero
frequentato l’area in questione, nondimeno, nessuna prova era stata raggiunta
sulla conoscenza di detto uso improprio da parte della dirigenza, né tantomeno
che il fatto fosse tollerato, tanto che il collega F., nel corso delle sue
ricerche, neppure si era accorto della manomissione del pannello. Ciò, secondo
la Corte, fa venir meno la contestazione della violazione dell’art. 64, lett. c) ed e) d.lgs.
81/2008, inerente alla salvaguardia delle condizioni igieniche dei luoghi
di lavoro. Così come è da escludere la violazione dell’art. 19, lett. f) d.lgs. 81/2008,
non essendo in alcun modo dimostrato che la dirigenza – e quindi gli imputati-
fossero a conoscenza dell’utilizzo di quel locale, chiuso con una porta recante
un lucchetto. Quanto alla contestazione dell’omessa vigilanza sul lavoratore
affetto da epilessia, la Corte territoriale ha sottolineato che l’ambiente
lavorativo nel quale operava D.F. non poteva dirsi ambiente confinato, Nessuna
negligenza nel sistema organizzativo aziendale, né alcuna omissione di
vigilanza sul lavoratore, è dunque configurabile, sicché non sussistono le
condotte omissive contestate, il che di per sé è sufficiente ad escludere il
reato.

La Corte, peraltro, affronta anche il profilo del
nesso causale, concludendo, come il primo giudice, sulla sussistenza del
comportamento abnorme del lavoratore, consistito nell’introdursi, nel corso
dell’orario di lavoro, in un’area chiusa, il cui accesso era precluso da una
porta bloccata con un lucchetto, provvedendo a rimuovere un pannello, senza
alcuna ragione plausibile.

4. Avverso la sentenza della Corte di appello
propone ricorso per cassazione la parte civile, a mezzo del suo difensore,
formulando un unico articolato motivo.

5. Con la doglianza fa valere la violazione della
legge penale ed il vizio di della manifesta illogicità e contraddittorietà
della motivazione, nonché l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie ed
il travisamento del fatto. Ricorda che D.D.F. era stato ritenuto idoneo al
lavoro, con il divieto di svolgere lavorazioni in solitario o in ambiente
confinato. Ricorda che A. F. ha raccontato che la mattina del fatto egli aveva
lavorato con D.F. sino alle ore 7.45, quando si era allontanato dalla propria
postazione per qualche minuto. Al suo ritorno non aveva trovato D.F., ma non si
era preoccupato dell’assenza del collega, nonostante questa si fosse
prolungata, non essendo a conoscenza della sua patologia, posto che lavorava in
quella postazione solo da alcuni giorni, tanto è vero che si era recato a
cercarlo, anche nei pressi dell’area box, solo per curiosità. Al contrario,
M.D.S., cui era nota la patologia di D.F., avvedendosi pochi minuti prima delle
dieci, della sua assenza, dopo avere chiesto a F. dove fosse, informava subito
la collega P.P., che, allarmatasi, si recava immediatamente nei pressi del
vecchio box, avvedendosi del pannello inferiore della porta aperto, e dopo aver
chiamato a gran voce D.F., lo rinveniva a terra, in stato di incoscienza.
Dunque, il primo giudice, secondo il quale, dopo l’intervento di F., si
sarebbero intensificate per due ore consecutive, risultando comunque
difficoltose per la peculiarità dell’area, chiusa a terzi e buia, oltre che di
notevoli dimensioni, non rifletterebbe quanto riferito dai testimoni. La Corte,
inoltre, nel ripetere la medesima valutazione, in modo avulso dalla realtà
processuale, avrebbe ritenuto insussistente l’omessa vigilanza sul lavoratore,
considerando non previsto il monitoraggio costante del medesimo. E ciò senza
tenere conto delle importanti limitazioni previste alla sua prestazione, né del
fatto che il medesimo non poteva lavorare in solitario e che al suo fianco era
stato posto, da pochi giorni, un operaio non a conoscenza delle sue condizioni
di salute, il che deve ritenersi equivalente al lavoro ‘in solitario’.
L’assenza di attenzione della società, inoltre, era ricavabile anche dalla
deposizione del teste M., secondo cui l’area cui era assegnato D.F. ‘era
particolarmente libera’ e che al medesimo venivano riconosciute libertà di
movimento e possibilità di fruire di lunghe pause, perché i controlli sulla sua
produttività venivano effettuati solo a fine turno. Osserva che se si ritiene
che non vi fosse onere di vigilanza da parte dei colleghi, ciò significa che il
lavoratore non veniva sottoposto a sorveglianza alcuna, tanto è vero che solo
casualmente il collega D.S. si avvedeva della sua assenza. Dunque, l’area nella
quale operava D.F., per l’assenza di controlli è da ritenersi ‘ambiente
confinato’ e la prestazione del medesimo ‘lavoro in solitario’, non essendo
prevista neppure la presenza di un team leader che si occupasse di gestire le
pause ed effettuare i controlli sulle singole postazioni di lavoro. Ciò,
nondimeno, dimostra la negligenza del sistema organizzativo aziendale,
apoditticamente liquidata dai giudici di merito con l’assenza della previsione
di un obbligo di controllo continuativo del dipendente. Sostiene che la contraddittorietà
della motivazione risulta evidente laddove si consideri che la ricostruzione
dell’ambiente come non confinato, perché D.F. lavorava a fianco di altri
lavoratori, collide con quella per cui i medesimi non avevano onere di
controllo su di lui. Sottolinea che la stessa adibizione di D.F. a due
postazioni diverse, di cui una non visibile da F. -che infatti ha riferito di
avere pensato che il collega si fosse recato proprio all’altra postazione –
dimostra la negligenza del datore di lavoro e dei suoi preposti
nell’organizzazione dell’impresa e nella vigilanza sul lavoratore affetto da
così grave patologia, che ha reso possibile che la sua assenza perdurasse per
un tempo così lungo, senza alcuna allerta. Sostiene che, inoltre, dalla
documentazione fotografica è emerso che l’area box si trovava in stato di
estremo degrado, con la presenza di stracci, sigarette, rifiuti organici e che
il fatto che fosse accessibile è dimostrato dalla circostanza che i lavoratori
D.S. e P. abbiano cercato D.F. proprio lì e che P.P. abbia visto il pannello
aperto, non notato da F., che lavorava nel settore da pochi giorni. Né appare
possibile che D.S. e P. intendessero controllare solo la parte antistante la
porta chiusa con il lucchetto, dove gli operai lasciavano borse ed effetti
personali, perché F. non poteva non avere riferito di aver già controllato-il
locale. La ricostruzione dei giudici di merito che non tiene conto del reale
contenuto delle dichiarazioni dei lavoratori – ed in particolare di quella di
F., secondo il quale P. conosceva il passaggio segreto della porta, costituito
dal pannello inferiore rimosso – e si appalesa, pertanto, contraddittoria
rispetto al compendio probatorio acquisito, risultando chiaro che la
possibilità di accesso al locale in cui trovato D.F. era nota ad una pluralità
di lavoratori, il che dimostra la negligenza aziendale nell’assicura re le
condizioni igienico- sanitarie del luogo di lavoro, avendo tollerato un simile
utilizzo del locale. Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

6. Con requisitoria scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8 d.l. 137/2020
il Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

7. Con memoria difensiva ritualmente depositata
A.B., a mezzo del suo difensore, chiede pronunciarsi l’inammissibilità del
ricorso, o, subordinatamente il suo rigetto. Fa valere l’inammissibilità per
genericità dei motivi, prospettanti una mera lettura alternativa del compendio
probatorio; per difetto di interesse, essendo le sentenze sostenute da plurime
ragioni, ciascuna fondante il verdetto assolutorio, avendo i giudici di merito
affermato l’assenza di condotte colpose in capo agli imputati, ma anche la
sussistenza di un comportamento abnorme del lavoratore, aspetto quest’ultimo
con il quale la parte civile ha omesso il confronto. Deduce, comunque,
l’infondatezza del ricorso, sottolineando che le cause della morte del
lavoratore non sono state identificate con certezza, neppure essendo stato accertato
se un intervento più tempestivo avrebbe potuto evitarne la morte.

8. Con distinte memorie difensive, entrambe
ritualmente depositate F.D. e G.D.L., formulano considerazioni del medesimo
contenuto e concludono per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto
del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso deve essere rigettato.

2. In primo luogo, il confronto fra l’atto di
impugnazione ed il testo della sentenza qui impugnata consente di constatare
che le censure proposte in questa sede altro non sono che la ripetizione di
quelle già oggetto del precedente gravame. La giurisprudenza di legittimità ha,
invero, chiarito in plurime occasione come sia inammissibile per genericità
“il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati
con l’atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza
confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento
impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza
o illogicità della motivazione. (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli,
Rv. 276970) e ciò perché la pedissequa reiterazione dei motivi già dedotti in
appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, non assolve la tipica
funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di
ricorso” (Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014 – dep. 28/10/2014, Cariolo e
altri, Rv. 260608; Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568; Sez.
6, n. 34521 del 27/06/2013, Ninivaggi, Rv. 256133; Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009,
Arnone e altri, Rv. 243838).

3. La critica alla sentenza impugnata, si realizza,
infatti, attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 c.p.p.),
debbono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto
che sorreggono ogni richiesta.

4. Si tratta di un principio generale, enunciato per
tutte le forme di impugnazione che debbono enucleare in modo specifico il vizio
denunciato esponendo le ragioni della sua decisività rispetto al percorso
logico-giuridico seguito dal provvedimento impugnato, in modo da chiarire il
contenuto della violazione di legge od il vizio di motivazione, che se
eliminati secondo conducono ad una decisione nel senso richiesto.

5. Ciò spiega perché se il motivo di ricorso in sede
di legittimità si limita a ripetere quanto già chiesto al giudice precedente,
riproponendo le medesime doglianze fallisce lo scopo dell’impugnazione, perché
non critica la decisione che ne forma oggetto, che diviene indifferente
rispetto alla stessa richiesta, ma quella del grado precedente. Questo di per
sé giustifica l’inammissibilità del ricorso.

6. Nondimeno, neppure superando siffatto motivo di
inammissibilità, può darsi ingresso alla valutazione della fondatezza della
censura e ciò perché, come di recente ribadito: “Anche a seguito della
modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e),
cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006,
resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto,
stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria
valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi
di merito” (ex multis: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217;
Sez. 3, n. 38431 del 31/01/2018 – dep. 10/08/2018, Ndoja, Rv. 273911).

7. Ora, la doglianza proposta, pur molto articolata,
consiste proprio nella richiesta di un nuovo vaglio del materiale probatorio,
rivolto alla verifica dell’erroneità della ricostruzione dei giudici di merito,
per effetto della rilettura delle deposizioni testimoniali, rese in sede di
indagini preliminari, nonché della deposizione del teste M., cui era stata
condizionata la richiesta di giudizio abbreviato.

8. Nemmeno qualificando il motivo, introdotto come
vizio di motivazione per travisamento del fatto derivante dalla ‘erronea
valutazione delle prove e non adeguata valutazione delle risultanze
istruttorie’, quale censura relativa al travisamento della prova – perché in
tal modo sembra argomentare il ricorso nello svolgimento della doglianza,
nonostante la diversa intitolazione – è possibile esaminarne il contenuto,
posto che le dichiarazioni testimoniali che si intendono fraintese non sono
state allegate al ricorso in esame.

9. D’altro canto, va ricordato che “Nell’ambito
dei motivi di ricorso per cassazione, con riferimento all’ipotesi di cd.
“doppia conforme”, pur quando il giudice dell’impugnazione abbia
preso in considerazione, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di
gravame, atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, sussiste
comunque la preclusione alla deducibilità del vizio di travisamento della prova
di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), cod.
proc. pen., in relazione a quelle parti della sentenza che abbiano
esaminato e valutato in modo conforme elementi istruttori, suscettibili di
autonoma considerazione, comuni al primo ed al secondo grado di giudizio. (Sez.
5, n. 18975 del 13/02/2017 Cadore, Rv. 269906). Nel caso di specie, ciò che si
contesta è proprio ciò che non può essere dedotto in questa sede, nei termini
nei quali viene dedotto.

10. Ciò posto, in ordine ai profili di ricostruzione
del fatto, occorre soffermarsi su altri due aspetti che vengono sollevati dalla
censura.

11. Il primo è inerente la configurabilità della
condotta omissiva descritta nell’imputazione, riguardante l’omessa vigilanza
sul lavoratore, pur essendo la sua attività soggetta ad una serie di
prescrizioni a tutela del suo stato di salute.

La condotta sarebbe consistita nell’avere collocato
il lavoratore in un’area che non consentiva un controllo costante sul medesimo,
il quale, infatti, aveva potuto allontanarsi indisturbato, senza che la sua
assenza, pur prolungata, destasse preoccupazione per un lungo periodo di tempo.

Ora, la questione involge due profili.

L’uno riguardante gli obblighi del datore di lavoro,
a fronte della conoscenza di un problema grave di salute del lavoratore e del
contenuto delle prescrizioni del medico del lavoro, subordinanti l’idoneità al
lavoro e la prestazione dell’attività.

L’altro inerente all’asserito obbligo di coinvolgere
altri lavoratori nella sorveglianza delle condizioni di salute di un dipendente,
anche tenendo conto della normativa in ordine alla privatezza dei dati
sensibili.

12. Nel caso di specie, infatti, la prescrizione del
medico del lavoro -che pure ha dichiarato idoneo il lavoratore allo svolgimento
delle mansioni affidategli- comprendeva disposizioni non solo sul tipo di
prestazione (divieto di lavoro in quota o su carrelli), ma sulla conformazione
dei locali nei quali detta attività doveva essere prestata, essendo stata
formulata la prescrizione di non adibire il lavoratore ad attività in ‘ambiente
confinato’, e sulla modalità, essendo previsto che egli non svolgesse lavori
‘in solitario’.

Ebbene, deve ritenersi che le prescrizioni mediche
sullo svolgimento della prestazione lavorativa, sono rivolte a rendere
compatibile la condizione soggettiva del lavoratore con le esigenze produttive
del datore di lavoro, al fine di consentire al primo di intraprendere e
proseguire l’attività lavorativa, nonostante le deteriorate condizioni di
salute, ed al secondo di limitare le modifiche dell’organizzazione del lavoro
alle prescrizioni imposte, in modo da assicurare il diritto alla salute del
lavoratore, ma anche l’utilità della prestazione lavorativa.

Peraltro, iniziative che oltrepassino le
prescrizioni imposte dal medico del lavoro costituiscono per il datore di
lavoro l’assunzione di fatto di un rischio, generatore di responsabilità,
laddove esse si rivelino dannose per la salute fisica o psichica del
lavoratore.

Dunque, non può ritenersi imposto al datore di
lavoro alcun altro obbligo se non quelli prescritti, né è possibile ipotizzare
alcuna estensione applicativa dei medesimi, se non a costo di far assumere al
datore di lavoro responsabilità ulteriori non rientranti fra quelle
espressamente previste.

Fatta questa precisazione, occorre chiedersi che
cosa significhi ‘ambiente confinato’, muovendo dal significato dell’aggettivo,
di ‘chiuso entro confini’ ovverosia isolato o relegato, o ancora, in senso
trasposto, appartato o lontano. Un ambiente cioè che non presenta comunicazioni
con altri, che non consente di rapporti, relazioni o interventi.

Il divieto di lavoro ‘in solitario’ non si
sovrappone a quello di lavoro in ambiente non confinato, ben potendo un luogo
che consente comunicazione con altri prevedere postazioni non visibili a terzi
e pertanto ‘solitarie’, nel senso di ‘separate’ dalle altre.

Così definiti i termini, appare corretta
l’interpretazione data dai giudici di merito, secondo i quali l’ambiente nel
quale operava il lavoratore non era ‘confinato’, trattandosi di luogo in cui
erano presenti più dipendenti. Tanto è vero che proprio un collega di lavoro si
accorse che l’assenza di D.F. si prolungava oltre un tempo compatibile con un
allontanamento non sospetto.

Né è possibile prendere in considerazione la
contestazione formulata dalla parte civile secondo la quale, benché in luogo
non confinato, il lavoratore che operava su due postazioni all’interno dello
stesso ambiente, potesse considerarsi addetto ad un lavoro ‘in solitario’, non
essendo la seconda visibile da altri dipendenti, pur operanti nel medesimo
luogo. E ciò, non solo perché non risulta dalle sentenze, ma perché, per le
ragioni supra esposte, si tratta di una circostanza che non può essere vagliata
in questa sede.

13. Viene, a questo punto, in esame il secondo
aspetto, relativo alla possibilità, per il datore di lavoro, di esigere da
altri lavoratori di assicurare la sorveglianza sul lavoratore affetto da
patologie, che quando si manifestino impongano un pronto intervento. La parte
civile, infatti, sostiene che siffatto dovere sia una declinazione dell’obbligo
di non adibire il lavoratore ad attività in ‘ambiente confinato’ arrivando ad
ipotizzare la necessità del suo affiancamento continuo, o della necessità di
affidare il reparto nel quale il medesimo operava ad un ‘team leader’.

14. Ebbene, la predisposizione di una simile
organizzazione lavorativa richiede, in primo luogo, che terzi soggetti, i
colleghi di lavoro appunto, siano messi a parte, proprio dal datore di lavoro
delle informazioni sullo stato di salute del lavoratore. Ciò, nondimeno,
implica, ai sensi dell’art. 26 del
c.d. Codice della Privacy, che l’interessato esprima per iscritto il suo
consenso alla diffusione dei dati sanitari in possesso del datore di lavoro,
non essendo a questi consentito diffonderli autonomamente, neppure ai sensi
dell’art. 24 del medesimo
codice, nella versione vigente all’epoca del fatto, secondo cui la diffusione
per la salvaguardia dell’incolumità del soggetto interessato è consentita solo
con il suo consenso, o nell’impossibilità di ottenerlo, con il consenso di
soggetti quali l’esercente legale della potestà o un prossimo congiunto. Ciò è
ribadito dall’art. 51 delle linee guida emesse dal Garante della privacy,
vigenti all’epoca, secondo cui “La conoscenza dei dati personali relativi
ad un lavoratore da parte di terzi è ammessa se l’interessato vi
acconsente” rimanendo impregiudicata la facoltà del datore di lavoro di
disciplinare le modalità del proprio trattamento designando i soggetti, interni
o esterni, incaricati o responsabili del trattamento, che possono acquisire
conoscenza dei dati inerenti alla gestione del rapporto di lavoro, in relazione
alle funzioni svolte e a idonee istruzioni scritte alle quali attenersi (artt.
4, comma 1, lett. g) e h), 29 e 30). Ma nulla autorizza a diffondere notizie
sulla salute del lavoratore ai colleghi che operino con il medesimo.

15. Né, tantomeno, è possibile ipotizzare che la
‘sorveglianza’ su un collega rientri fra gli obblighi contrattuali derivanti
dal rapporto di lavoro, sicché non è possibile da parte del datore di lavoro
neppure richiedere una simile prestazione. Del tutto fuorviante, dunque, è
l’assunto della parte civile, secondo il quale il datore di lavoro avrebbe
dovuto informare i colleghi che operavano con D.F., affinché lo sorvegliassero
adeguatamente, e pretendere da loro siffatto costante controllo.

16. E qui, si ritorna alle prescrizioni impartite
dal medico al datore di lavoro sulla conformazione dell’attività del lavoratore
alla sua patologia. Invero, la disposizione relativa all’ambiente ‘non
confinato’ ed alla modalità non ‘in solitario’, sono rivolte – proprio tenendo
conto della non esigibilità della sorveglianza continuativa del lavoratore da
parte dei colleghi ed al divieto di rendere nota la patologia senza il consenso
dell’interessato – a porre il lavoratore in una condizione di ‘visibilità’ da
parte dei terzi, essendo ovvio che allorquando un collega di lavoro si sente
male e perde i sensi, come accade nelle crisi epilettiche del tipo descritto, è
immediato l’allarme di coloro che lavorano nelle vicinanze.

17. Questa prescrizione imposta al datore di lavoro
è, dunque, quella di apprestare una postazione lavorativa che consente di ‘favorire’
il soccorso, non certo quella di ‘sorvegliare continuativamente’ l’interessato,
ponendogli accanto un ‘lavoratore sentinella’, che lo segua ovunque egli
ritenga di recarsi, nel corso della giornata lavorativa.

18. Anche in questo caso, pertanto, deve ritenersi
esclusa la condotta ascritta.

19. In relazione, infine, all’ultima contestazione
introdotta dalla parte civile, inerente all’utilizzo del box, da parte dei
lavoratori ed alla condizione di insicurezza, anche igienica nella quale il
locale versava, non può – anche quiche richiamarsi quanto in precedenza
osservato sui limiti del sindacato del giudice di legittimità in ordine alla
ricostruzione del fatto. Ed invero, per verificare quanto sostenuto dalla parte
civile, in ordine alla conoscenza ed utilizzazione dell’area da parte di una
pluralità di lavoratori sarebbe necessario un nuovo vaglio delle dichiarazioni
testimoniali, precluso in questa sede.

20. Ma, in ogni caso, la sentenza impugnata, pur
escludendo in radice la sussistenza delle condotte colpose ascritte agli
imputati, sottolinea comunque l’abnormità della condotta del lavoratore che,
consapevole della sua malattia, si allontana dalla sua postazione per recarsi
in un luogo appartato, buio e molto difficile da raggiungere, sinanco nascosto,
senza avvertire nessuno e per ragioni ignote. Con queste considerazioni,
nondimeno, il ricorso non si confronta.

21. Al rigetto del ricorso consegue la condanna
della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 09 luglio 2021, n. 26151
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