Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2021, n. 20253

Rapporto di lavoro, Demansionamento, Assegnazione, al
rientro dal periodo di maternità, di compiti amministrativi di predisposizione
di ordini di acquisto, Accertamento, Risarcimento del danno

 

Rilevato che

 

1. con sentenza 24 giugno 2017, la Corte d’appello
di Venezia rigettava l’appello principale di A. Brescia – Verona – Vicenza –
Padova s.p.a. e incidentale di O.L. avverso la sentenza di primo grado, di
accertamento del diritto della seconda all’inquadramento nel livello A del CCNL
dipendenti concessionari autostrade dal 18 giugno 1999 ed al corrispondente
trattamento dal 18 giugno 2004, con la condanna della società datrice al
versamento delle relative differenze retributive dal 18 giugno 2004 alla data
della sentenza, oltre rivalutazione e interessi; nonché di accertamento
dell’adibizione della lavoratrice dal Io dicembre 2000 al novembre 2001 a
mansioni dequalificanti rispetto alle precedenti e di condanna della società al
pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio di danni patrimoniali e non,
della somma di € 9.746,00, pari al 40% della retribuzione lorda percepita nel
periodo, rigettandone le altre domande risarcitone per condotte discriminatorie
in suo danno;

2. in esito ad argomentato scrutinio delle
risultanze istruttorie, la Corte territoriale ribadiva la spettanza alla
lavoratrice, nella comparazione con il livello Al di sua attribuzione,
dell’inquadramento nel livello A del CCNL applicato e così pure del
risarcimento del danno, liquidato nella ricorrenza dei suoi presupposti in via
equitativa, derivante dall’accertato demansionamento per l’assegnazione alla
predetta, al rientro dal periodo di maternità, di compiti amministrativi di
predisposizione di ordini di acquisto, in staff di contabilità lavori sotto la
responsabilità di un collega, deteriori rispetto ai precedenti, di capo di un
Servizio costituito da più uffici di cui aveva coordinato il personale;

3. la stessa Corte escludeva peraltro la natura
discriminatoria del comportamento datoriale per difetto di prova, in assenza
degli elementi di fatto idonei e pur tenuto conto dell’attenuazione dell’onere
prevista per legge a carico della parte deducente: per tale ragione rigettando
l’appello incidentale di O.L.;

4. con atto notificato il 27 dicembre 2017, società
ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la lavoratrice resisteva con
controricorso contenente ricorso incidentale articolato su unico motivo, cui la
prima replicava con controricorso;

5. entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi
dell’art. 380bis 1 c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. la ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 41, primo comma Cost.,
2103 c.c., 19 e 21 CCNL Autostrade, per l’erroneo
inquadramento della lavoratrice nel superiore livello A, in assenza di un
accertamento delle effettive mansioni svolte (essendo irrilevanti le
valorizzate circostanze del conferimento di incarico di capo del servizio
tecnico amministrativo e di inquadramento degli altri capi di servizio nel
livello A) e soprattutto dell’effettivo grado di autonomia decisionale, facoltà
di iniziativa e di responsabilità (“diretta su obiettivi e su risultati
aziendali” richiesta dal livello A) comportate dalla maggiore qualifica
rivendicata, pure integrata da “attività di rilevante importanza per
l’azienda” ed esigente un “alto grado di competenze specialistiche
e/o manageriali” (primo motivo);

2. esso è inammissibile;

2.1. è noto che il procedimento logico-giuridico
diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato si
sviluppi in tre fasi successive, consistenti: a) nell’accertamento in fatto
delle attività lavorative concretamente svolte; b) nell’individuazione delle
qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; c) nel
raffronto tra i risultati di tali due indagini. E che, ai fini dell’osservanza
di tale procedimento, sia necessaria, pur senza rigide formalizzazioni (Cass.
27 settembre 2016, n. 18943), la scansione di ciascuno dei suddetti momenti di
ricognizione e valutazione nel ragionamento decisorio; in caso contrario, configurandosi
il vizio di error in iudicando, per errata applicazione dell’art. 2103 c.c. (Cass. 27 settembre 2010, n. 20272;
Cass. 28 aprile 2015, n. 8589; Cass. 22 novembre 2019, n. 30580);

2.2. la Corte territoriale ha fatto una corretta
applicazione del procedimento trifasico, individuando i livelli di
inquadramento in comparazione (A e A1 del CCNL applicabile), procedendo al loro
raffronto, sia per i requisiti di competenze richiesti dalle attività, sia per
il rispettivo grado di autonomia e di responsabilità, anche attingendo ai
profili professionali e quindi qualificando, in esito a tale indagine, le
mansioni concretamente svolte dalla lavoratrice di responsabile, in qualità di
capo, del servizio tecnico amministrativo del settore viabilità (per le ragioni
esposte a pgg. 9 e 10 della sentenza). In tale operazione di individuazione del
corretto livello di inquadramento, essa ha anche verificato la loro
corrispondenza (per relationem alle prove orali assunte dal Tribunale, riportate
nei passaggi rilevanti dal primo capoverso di pg. 4 al secondo alinea di pg. 5
della sentenza) all’incarico formalmente conferitole dalla società con lettera
del direttore generale del 17 luglio 1995;

2.3. sicché, l’accertamento della natura delle mansioni
concretamente svolte dalla dipendente, ai fini del suo inquadramento nella
superiore qualifica richiesta, siccome giudizio di fatto riservato al giudice
del merito, sorretto nel caso di specie da logica e adeguata argomentazione per
le ragioni dette, è insindacabile in sede di legittimità, (Cass. 30 ottobre
2008, n. 26233; Cass. 31 dicembre 2009, n. 28284);

3. la ricorrente deduce poi violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218, 2043, 2103 c.c. e
nullità della sentenza per violazione dell’art. 132
c.p.c., per apparenza di motivazione, comunque inidonea a rendere
comprensibili le ragioni della decisione, per il ritenuto demansionamento della
lavoratrice, in quanto adibita al rientro dalla maternità a mansioni “non
equivalenti”. Essa si duole dell’assenza di alcun riferimento alle
declaratorie contrattuali, né di una verifica comparativa sul piano oggettivo
(di inclusione in quali aree professionali e salariali delle mansioni iniziali
e di quelle cui successivamente destinata), ma neppure soggettivo (di congruità
professionale o meno all’armonizzazione con il bagaglio della lavoratrice, in
modo da promuoverne un coerente affinamento e sviluppo) delle mansioni in
concreto svolte prima e dopo il suindicato congedo; e ciò (non) valutato alla
luce delle risultanze istruttorie e della diversa collocazione lavorativa in
ragione di una riorganizzazione aziendale programmata da prima della sua
gravidanza (come accertato dalla Corte territoriale), e quindi per causa non
imputabile alla società a titolo di colpa (secondo motivo);

4. esso è infondato;

4.1. giova ribadire come il divieto di variazione
peggiorativa, sancito dall’art. 2103 c.c.,
escluda che al prestatore di lavoro possano essere affidate, anche se soltanto
secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori
a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in
concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale
specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e
garantiscano al contempo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità
professionali (Cass. 4 marzo 2014, n. 4989; Cass. 3 febbraio 2015, n. 1916); e che
l’equivalenza debba essere valutata in concreto dal giudice di merito, al fine
di verificare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza
tecnico professionale acquisita dal dipendente (Cass. 6 novembre 2018, n.
28240);

4.2. nel caso di specie, la Corte territoriale ha
accertato il demansionamento della lavoratrice, nella concretezza delle
mansioni svolte prima e dopo la sua assenza per maternità così come risultanti
dalle risultanze istruttorie (al primo capoverso di pg. 11, anche per richiamo,
nella condivisione del corretto assunto del Tribunale, riportato all’ultimo
capoverso di pg. 5 della sentenza);

4.3. né basta, al fine di giustificare il
demansionamento, la generica deduzione di una ragione riorganizzativa aziendale
(pur dalla Corte territoriale riconosciuta al fine di escluderne la natura
discriminatoria), posto che, quando il lavoratore alleghi un demansionamento
riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di
lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., su
quest’ultimo incombe l’onere di provarne l’esatto adempimento o attraverso la
prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la
prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri
imprenditoriali (dimostrando l’inesistenza, all’interno del compendio aziendale,
di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità
in precedenza raggiunto dal lavoratore: Cass. 19
ottobre 2018, n. 26477) o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., per impossibilità della
prestazione derivante da una causa a sé non imputabile (Cass. 6 marzo 2006, n. 4766; Cass. 3 marzo 2016, n. 4211; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26477);

4.4. sicché, nel caso di un nuovo assetto
organizzativo disposto dal datore di lavoro, che comprenda la riclassificazione
del personale concordata con le organizzazioni sindacali, non sussiste
violazione del divieto di dequalificazione qualora le mansioni del lavoratore,
a seguito del riclassamento, non mutino rispetto al precedente inquadramento,
poiché si realizza una violazione dell’art. 2013
c.c. solo se il dipendente venga adibito a differenti mansioni (quand’anche
compatibili con la nuova classificazione, ma) incompatibili con la sua storia
professionale (Cass. 25 settembre 2015, n. 19037);

5. la ricorrente deduce, infine, violazione e falsa
applicazione degli artt. 1223, 1226, 2697, 2729 c.c., 115 c.p.c.
e nullità della sentenza per violazione degli artt.
112, 132 c.p.c., per omessa pronuncia sul
motivo di appello di difetto di prova dell’esistenza di un danno non
patrimoniale da dequalificazione della lavoratrice, avendo la Corte esaminato
solo il profilo, non contestato, della sua liquidazione e comunque non
osservato le norme denunciate e i principi di diritto in materia di prova di
risarcibilità di un tale danno, non in re ipsa, ma da dimostrare nei suoi
elementi costitutivi, non già del solo inadempimento datoriale denunciato
(demansionamento), ma del suo collegamento causale con un pregiudizio
specificamente allegato e provato, anche in via presuntiva, ma sulla base di
una pluralità di elementi e non di uno solo (il peggioramento della situazione
lavorativa), come nel caso di specie (terzo motivo);

6. anch’esso è infondato;

6.1. è principio consolidato che, in tema di
demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale,
che asseritamente ne derivi, non ricorra automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale (cosiddetto danno in re ipsa), non potendo prescindere
da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla
natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 17 settembre 2010, n. 19785; Cass. 5 dicembre 2017, n. 29047); sicché, è
risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave
violazione dei diritti del lavoratore, che siano oggetto di tutela costituzionale,
da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e
alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale,
all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di
lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne
i compiti (Cass. s.u. 22 febbraio 2010, n. 4063;
Cass. 20 aprile 2018, n. 9901);

6.2. la prova del danno spetta al lavoratore, che tuttavia
non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare
elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità
e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della
professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova
collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. 15 ottobre 2018, n. 25743; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 2 ottobre
2019, n. 24585);

6.3. nel caso di specie, non ricorre l’omessa
pronuncia denunciata, in assenza dei presupposti di mancanza di una qualsiasi
decisione su un capo di domanda e, in genere, su ogni istanza che abbia un
contenuto concreto formulato in conclusione specifica sulla quale debba essere
emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass.
16 maggio 2012, n. 7653; Cass. 27 novembre 2017, n. 28308; Cass. 16 luglio
2018, n. 18797); ed infatti, la Corte territoriale ha pronunciato sul motivo
d’appello (il terzo, succintamente ma esaurientemente esposto al primo
capoverso di pg. 8 della sentenza), nel senso del rigetto, avendo confermato la
liquidazione (e pertanto la sua esistenza, logicamente pregiudiziale) operata
dal Tribunale;

6.4. ma neppure sussiste la violazione delle norme
denunciate per inosservanza dei principi di diritto in materia di prova di
risarcibilità di un tale danno, non in re ipsa, ma da dimostrare nei suoi
elementi costitutivi. Ed infatti la Corte d’appello ha ritenuto la
risarcibilità del danno in questione, sulla base del “peggioramento della
situazione lavorativa di L.” (all’ultimo capoverso di pg. 11 della
sentenza), come ritenuto dal Tribunale che, dopo aver escluso del “danno
in re ipsa”, l’ha tratta “in via presuntiva dalla privazione dei
compiti di responsabilità e coordinamento del personale di cui la ricorrente
era titolare prima dell’assenza dal servizio per maternità”, procedendo
alla sua determinazione proporzionata sull’”entità del demansionamento,
come sopra evidenziata” e in relazione alla durata di un periodo di non
totale privazione di mansioni, così come accertato (secondo la sua motivazione
sul punto, riportata al primo capoverso di pg. 6 della sentenza).

Sicché, la Corte veneziana, lungi dall’assumerla
dalla coincidenza con l’inadempimento datoriale, soltanto potenzialmente lesivo
(e quindi: in re ipsa), ha ricavato l’esistenza del danno, sia pur con
apprezzamento sinteticamente conglobante il concorso grave, preciso e concordante
dei plurimi elementi valutati dal Tribunale, esplicitamente richiamato con
assunzione come propria della sua valutazione (“Per la liquidazione del
danno da dequalificazione il Tribunale … si è attenuto alla consolidata e
condivisa giurisprudenza della Suprema Corte … all’esordio del secondo
capoverso di pg. 11; “Il Tribunale ha considerato … all’esordio
dell’ultimo capoverso di pg. 11); e pertanto da quegli elementi indiziari
suindicati di qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, di natura e
tipo di professionalità coinvolta e di durata del demansionamento;

7. la controricorrente a propria volta deduce, in
via di ricorso incidentale, violazione e falsa applicazione degli artt. 15 I. 903/1977, 4 I. 125/1991, 28 d.lg. 150/2011, 40 d.lg. 198/2006, 115, 116 c.p.c.,
nullità della sentenza e insufficiente o contraddittoria motivazione su un
fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per
l’erronea negazione dell’esistenza di una disparità di trattamento diretta di
genere, pertanto non giustificata da finalità legittime conseguite con mezzi
appropriati e necessari (come quelle indirette), sulla base di una pluralità di
documentate condotte riguardanti il proprio complessivo percorso professionale,
puntualmente richiamate e non soltanto l’assegnazione avuta a nuove mansioni
dopo il rientro dalla maternità, giustificata dall’esigenza riorganizzativa
aziendale, esclusivamente (e riduttivamente) esaminata dalla Corte
territoriale, sulla base di una ben censurabile ricognizione non corretta
proprio della fattispecie astratta normativa e non già di quella concreta a
mezzo delle risultanze di causa (unico motivo);

8. esso è inammissibile;

8.1. come ancora recentemente ribadito da questa
Corte (Cass. 12 ottobre 2018, n. 25543), l’art. 40 d.lg. 198/2006 non
stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del
regime ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con
quanto disposto dall’art. 19 della
direttiva 2006/54/CE, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della
discriminazione, solo una volta che il ricorrente abbia fornito al giudice
elementi di fatto idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti, patti
o comportamenti discriminatori in ragione del sesso (Cass. 5 giugno 2013, n. 14206; Cass. 9 settembre 2015, n. 17832; Cass. 3 febbraio 2016, n. 2113). Analogo
principio è stato affermato, in relazione all’interpretazione dell’art. 19 della richiamata
direttiva, dalla Corte di Giustizia, la quale ha evidenziato che spetta alla
lavoratrice che si ritenga lesa dall’inosservanza nei propri confronti del
principio della parità di trattamento dimostrare, dinanzi ad un organo
giurisdizionale ovvero dinanzi a qualsiasi altro organo competente, fatti od
elementi di prova in base ai quali si possa presumere che ci sia stata
discriminazione diretta o indiretta (CGUE 21
luglio 2011, Kelly, C-104/10, punto 29). Sicché, soltanto nel caso in cui
la lavoratrice interessata abbia provato tali fatti od elementi di prova si
verifica un’inversione dell’onere della prova e spetta alla controparte
dimostrare che non vi sia stata violazione del principio di non discriminazione
(CGUE 19 ottobre 2017 in causa C – 531/15 Otero
Ramos; CGUE 21 luglio 2011, Kelly, C-104/10,
punto 30);

8.2. ebbene, la Corte territoriale ha esattamente
applicato i suenunciati principi (richiamati dal secondo capoverso di pg. 13 al
quattordicesimo alinea di pg. 14 della sentenza) ritenendo, con valutazione
probatoria congruamente argomentata e pertanto insindacabile in sede di
legittimità, la precisa e circostanziata difesa della società, anche di
analitica contestazione dei dati statistici forniti dalla dipendente, la
carenza di precisione e concordanza richieste in materia di diritto
antidiscriminatorio, in specifico riferimento alla riorganizzazione aziendale,
programmata prima dell’inizio della sua gravidanza, a giustificazione della sua
assegnazione ad altro ufficio al rientro (così al primo e secondo capoverso di
pg. 14 della sentenza);

8.3. con ciò essa non ha omesso di esaminare i fatti
di discriminazione dedotti dalla lavoratrice in ricorso e richiamati in
controricorso e ricorso incidentale, dando preliminare atto (dopo averne fatto
succinta menzione a pg. 8 della sentenza) del “precipuo riferimento”
nella memoria difensiva d’appello “a quanto emerso e provato nel giudizio
di primo grado relativamente al subito demansionamento nel periodo successivo
al rientro dalla maternità” (al secondo capoverso di pg. 12 della
sentenza), ma ha piuttosto limitato la propria indagine a quanto devolutole
dalla stessa lavoratrice appellata e appellante incidentale tratta ex actis, in
particolare dalla lettura della suddetta memoria: secondo un’interpretazione
del contenuto sostanziale della domanda spettante in via esclusiva al giudice
del merito, approdante ad un giudizio, che, estrinsecandosi in valutazioni
discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di
legittimità unicamente se siano stati travalicati i detti limiti o per vizio
della motivazione (Cass. 29 aprile 2004, n. 8225; Cass. 21 maggio 2019, n.
13602). Peraltro, una tale operazione interpretativa, a giustificazione
argomentata della valutazione compiuta, non è stata affatto confutata dalla
lavoratrice, che si è limitata a reiterare le allegazioni di fatto, con
relativa documentazione, formulate nel ricorso introduttivo (dall’ultimo
capoverso di pg. 55 all’ottavo alinea di pg. 62 del controricorso);

9. per le suesposte ragioni entrambi i ricorsi
principale e incidentale devono essere rigettati, con la compensazione delle
spese di giudizio tra le parti e raddoppio del contributo unificato, ove
spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle
indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535);

 

P.Q.M.

 

Rigetta entrambi i ricorsi principale e incidentale
e dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente
incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello previsto per il ricorso principale e incidentale, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 luglio 2021, n. 20253
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