Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 luglio 2021, n. 19316

Omissione contributiva, Cartella esattoriale, Prova del
diritto agli sgravi, Restituzione di somme indebitamente conguagliate dal
datore di lavoro

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 4.5.2015, la Corte
d’appello di Catanzaro, in parziale riforma della pronuncia di primo grado e in
accoglimento dell’appello incidentale dell’INPS, ha rigettato l’opposizione
proposta da A.P. avverso la cartella esattoriale con cui gli era stato intimato
il pagamento di contributi omessi per effetto di conguagli non spettanti a
titolo di indennità di malattia, assegni familiari e sgravi ex I. n. 407/1990,
tutti accertati a seguito di verbale ispettivo.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che il datore
di lavoro fosse legittimato passivo rispetto alla richiesta dell’Istituto di
restituire le somme anticipate ai propri dipendenti a titolo di prestazioni
previdenziali temporanee di cui successivamente fosse stata accertata la non
debenza, ancorché per motivi non valutabili dal datore di lavoro medesimo;
sotto altro profilo, ha ritenuto che gravasse sul datore di lavoro la prova del
diritto agli sgravi e che detta prova, nella specie, non fosse stata raggiunta,
anche in considerazione dell’inammissibilità della documentazione prodotta in
appello dalla parte datoriale, siccome tardiva.

Per la cassazione di tali statuizioni A.P. ha
proposto ricorso, deducendo sei motivi di censura, successivamente illustrati
con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo di censura, il ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, d.l. n. 663/1979 (conv.
con I. n. 33/1980), e degli artt. 37 e 43, d.P.R. 30.5.1955, in relazione
all’art. 2, d.l. n. 69/1988 (conv. con I. n. 153/1988), per avere la Corte di
merito ritenuto che il datore di lavoro fosse legittimato passivo rispetto alla
pretesa recuperatoria dell’INPS di somme anticipate in favore di lavoratori a
titolo di indennità di malattia e assegni al nucleo familiare successivamente
risultati non dovuti in relazione a circostanze non sindacabili né accertabili
dal datore di lavoro medesimo.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 1, d.l. n. 663/1979, cit., per avere
la Corte territoriale ritenuto che la legittimazione passiva del datore di
lavoro di cui al primo motivo dovesse altresì affermarsi allorché oggetto della
pretesa recuperatoria dell’ente previdenziale fosse l’indennità di malattia
erogata nel corso del rapporto di lavoro (e fino alla sua cessazione per
superamento da parte del lavoratore del periodo di comporto) e successivamente
risultata non dovuta per mancata presentazione dei certificati medici da parte
del lavoratore che l’aveva percepita.

Con il terzo motivo, il ricorrente si duole di
violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 9, I. n. 407/1990, nonché di
nullità della sentenza e del procedimento, per avere la Corte di merito
ritenuto la fondatezza della pretesa restitutoria dell’INPS di sgravi
precedentemente conguagliati pur a fronte di un contrasto tra la certificazione
del Centro per l’impiego, che attestava lo stato di disoccupazione del
lavoratore in relazione erano stati conguagliati gli sgravi, e l’accertamento
condotto dall’INPS in ordine ai redditi da costui percepiti nel periodo di
disoccupazione, senza peraltro dare ingresso in sede di gravame all’anzidetta
certificazione.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 9, I. n. 407/1990, e degli
artt. 2697 e 2033 c.c., per avere la Corte territoriale escluso la valenza
probatoria della certificazione del Centro per l’impiego attestante lo stato di
disoccupazione del lavoratore per il quale erano stati conguagliati gli sgravi
e aver ritenuto che l’onere della prova di fatti impeditivi del diritto agli
sgravi (come, nella specie, lo stato di disoccupazione) incombesse sul datore
di lavoro.

Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell’art. 5, d.l. n. 463/1983 (conv. con I. n.
638/1983), per averne la Corte di merito escluso la derogabilità per volontà
delle parti e aver conseguentemente ritenuto che l’anticipazione dell’indennità
di malattia in favore del lavoratore P.C. fosse avvenuta oltre lo spirare del
termine apposto al contratto di lavoro, nonostante che, nella specie,
quest’ultimo fosse stato protratto fino al momento in cui il lavoratore aveva
documentato il proprio stato di malattia.

Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 29,
d.l. n. 244/1995 (conv. con I. n. 341/1995), per avere la Corte territoriale
ritenuto che, ai fini della conservazione del diritto agli sgravi contributivi,
gravasse sul datore di lavoro l’onere di provare le circostanze che avevano
dato luogo alla sospensione dell’obbligo retributivo nei confronti dei
lavoratori risultati assenti per sospensione concordata della prestazione e/o
assenze ingiustificate.

Ciò premesso, i primi due motivi possono essere
esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle
censure rivolte alla sentenza impugnata, e sono infondati.

Deve anzitutto escludersi la sussistenza di un
orientamento consolidato di questa Corte secondo cui la pretesa dell’ente
previdenziale avente ad oggetto la restituzione di somme indebitamente
conguagliate dal datore di lavoro a seguito dell’anticipazione di prestazioni
previdenziali in favore di un lavoratore e successivamente risultate non dovute
dovrebbe avere come soggetto passivo Vaccipiens indebiti, ossia il lavoratore
stesso: tutte le pronunce ricordate a pag. 9 del ricorso per cassazione (e cioè
Cass. nn. 5185 del 1996, 16140 del 2002, 12464 del 2003 e 23765 del 2014) hanno
bensì affermato che l’unico soggetto legittimato a richiedere la restituzione
delle somme anticipate dal datore di lavoro a titolo di indennità di malattia è
l’ente previdenziale, ma non anche che l’unico soggetto passivo di una tale
richiesta sia il lavoratore che abbia indebitamente percepito la relativa
prestazione; né avrebbero potuto altrimenti, giacché l’art. 1, d.l. n. 663/1979
(conv. con I. n. 33/1980), prevede, al comma 3°, che le indennità di malattia e
di maternità che siano state «indebitamente erogate al lavoratore e poste a
conguaglio, sono recuperate dal datore di lavoro sulle somme dovute a qualsiasi
titolo in dipendenza del rapporto di lavoro e restituite all’Istituto nazionale
della previdenza sociale», e al comma 4° che «qualora il datore di lavoro non
possa recuperare le somme stesse, è tenuto a darne comunicazione all’Istituto,
che provvederà direttamente al relativo recupero».

Ciò vale quanto dire che il presupposto affinché
l’ente previdenziale debba rivolgersi al lavoratore per recuperare le somme
indebitamente anticipategli dal datore di lavoro a titolo di indennità per
malattia o maternità successivamente risultate non dovute e già oggetto di
conguaglio è che il datore di lavoro stesso abbia comunicato all’INPS di non
poter provvedere al recupero; e, di riflesso, che – salvo appunto il caso in
cui siffatta comunicazione abbia tempestivamente avuto luogo – legittimato
passivo dell’azione di recupero è proprio il datore di lavoro, il quale, come
dispone l’art. 1, comma 3°, d.l. n. 663/1979, cit., ben potrà rivalersi nei
confronti del lavoratore «sulle somme dovute a qualsiasi titolo in dipendenza
del rapporto di lavoro».

Anche le censure di cui al terzo e al quarto motivo
si prestano ad essere esaminate congiuntamente e sono in parte inammissibili,
in parte infondate.

Più precisamente, sono inammissibili nella parte in
cui dissimulano dietro l’invocazione della violazione di legge una critica del
giudizio di fatto compiuto dai giudici territoriali circa l’insussistenza del
requisito della disoccupazione dei lavoratori D. e L., in relazione ai quali
erano stati indebitamente conguagliati sgravi ex I. n. 407/1990, ed altresì
nella parte in cui denunciano di nullità la sentenza e il procedimento in
relazione alla mancata ammissione della nota del Centro per l’impiego che tale
condizione avrebbe attestato, atteso che il contenuto della nota cit. non
risulta trascritto nel ricorso, nemmeno nella parte necessaria a dare alla
censura un non opinabile fondamento fattuale in ordine alla decisività delle
sue risultanze, né si dice in quale luogo del fascicolo processuale e/o di
parte essa in atto si troverebbe.

Sono invece infondati nella parte in cui lamentano
la violazione delle regole di riparto dell’onere della prova, dal momento che,
diversamente da quanto sostenuto in ricorso, l’ente previdenziale che agisca
per conseguire la differenza tra la contribuzione dovuta in misura piena e
quella versata dal datore di lavoro che ritenga di aver diritto al beneficio
degli sgravi non esercita alcuna pretesa “restitutoria e sanzionatoria”,
ma la normale azione per l’adempimento della contribuzione dovuta, a fronte
della quale è onere del datore di lavoro provare i presupposti del fatto
modificativo in ipotesi costituito dallo sgravio contributivo (così, da ult.,
Cass. n. 1157 del 2018).

È inoltre infondato il quinto motivo: è sufficiente,
al riguardo, ricordare che l’art. 5, comma 2°, d.l. n. 463/1983 (conv. con I.
n. 638/1983), prevede che «non possono essere corrisposti trattamenti economici
e indennità economiche per malattia per periodi successivi alla cessazione del
rapporto di lavoro a tempo determinato», quale nel caso in esame era il
contratto stipulato dall’odierno ricorrente con il lavoratore P.C., e che non è
consentito alle parti private di derogare attraverso proprie pattuizioni alla
cogenza di disposizioni che, come l’art. 5, cit., lungi dal concernere il
rapporto di lavoro, incidono piuttosto sul rapporto previdenziale, essendo
quest’ultimo, così come il rapporto contributivo, retto da norme inderogabili
di legge volte alla salvaguardia dell’integrità del bilancio pubblico.

Del pari infondato, infine, è il sesto motivo: è
infatti ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio
secondo cui, in tema di minimale contributivo previsto, nel settore edile,
dall’art. 29, d.l. n. 244/1995 (conv. con I. n. 341/1995), la sospensione
dell’attività che sia stata concordata tra datore di lavoro e lavoratore non fa
venir meno l’obbligo del pagamento della contribuzione dovuta, salvo che si
tratti di ipotesi di sospensione debitamente comunicate all’INPS in via
preventiva ed oggettivamente accertabile (così, tra le più recenti, Cass. nn.
11337 del 2018, 16859 del 2020).

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi
come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la
soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove
dovuto, previsto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla
rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €
6.200,00, di cui € 6.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari
al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 luglio 2021, n. 19316
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