Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 luglio 2021, n. 20560

Licenziamento disciplinare, Falsa attestazione della presenza
in ufficio, Abusivo utilizzo dei badges dotazione

 

Fatti di causa

 

1. la Corte d’Appello di Milano, riformando la
sentenza del Tribunale di Lodi, ha rigettato l’impugnativa del licenziamento
disciplinare irrogato dal Ministero della Giustizia nei confronti di A.M., già
cancelliere con mansioni di capo ufficio presso il Giudice di Pace di Lodi.

La Corte riteneva incontestabile che il M.,
unitamente ad altri due colleghi, avesse falsamente attestato la propria
presenza in ufficio mediante l’abusivo e reciproco utilizzo dei badges in loro
dotazione.

La Corte d’Appello, a parte il rilievo che il M. non
era riuscito a circostanziare l’asserito impegno presso il Tribunale in tre
delle giornate contestate, osservava come il sistema illecito operasse anche
solo se egli era in ritardo o se l’assenza riguardasse assenze intermedie per
ritardati rientri nella pausa pranzo.

Riteneva quindi che la condotta posta in essere, in
ragione del ruolo rivestito e dell’artificio ideato fosse oggettivamente di
gravità tale da incidere negativamente sul vincolo di fiducia.

2. Il M. ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di tre motivi, poi illustrati da memoria.

Il Ministero della Giustizia ha opposto difese con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo addotto dal ricorrente afferma la
violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 115 c.p.c., nonché dell’art. 2697
c.c. e dell’art. 5 L. 604/1966, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe
omesso di porre a fondamento della propria decisione le circostanze dedotte nel
ricorso introduttivo e non contestate dal Ministero, costituitosi tardivamente,
riguardanti il fatto che il sistema del badge non consentiva la rilevazione
delle ore lavorate presso altri uffici, ribadiva che vi erano molte ore in più
del dovuto, in parte non registrate.

1.1. Egli aggiunge poi che la Corte d’Appello non
avrebbe potuto fondare l’accertamento della sussistenza dell’addebito sulla
sentenza ex art. 444 c.p.p., sia perché successiva al licenziamento, sia perché
inidonea a fornire elementi di valutazione sulla sussistenza del fatto e sulla
sua gravità.

1.2. Pertanto, non essendovi stata dimostrazione dei
fatti contestati, la Corte d’Appello, nel riconoscere la fondatezza
dell’addebito, aveva violato le regole generali (art. 2697 c.c.) e specifiche
(art. 5 L. 604/1966) sull’onere della prova.

2. Il motivo va disatteso in tutte le sue
articolazioni.

2.1. La Corte d’Appello ha fatto menzione della
questione in ordine alle ore di lavoro svolte dal M. presso il Tribunale ed
all’impossibilità di documentarle per mezzo del badge, sottolineando come il
ricorrente non avesse saputo precisare quali precisi impegni lo avessero
portato presso il Tribunale in tre date specifiche, ritenendo tuttavia che, al
di là di ciò, fosse accertata l’utilizzazione delle false attestazioni per i
ritardi o per le assenze intermedie.

Ciò posto, per la valorizzazione di circostanze che
si assumono non contestate, non è sufficiente il riepilogo narrativo contenuto
nel corpo del primo motivo di ricorso, essendo necessaria la trascrizione –
mancante – degli specifici passaggi del ricorso di primo grado in cui quei
fatti sarebbero stati addotti.

La formulazione del motivo si pone dunque in
contrasto con i presupposti di specificità di cui all’art. 366, co. 1, c.p.c.
(Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione
(Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso
esprime, con riferimento in particolare, qui, ai nn. 3, 4 e 6 della stessa
disposizione, da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione
siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti
e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e
decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di
ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili
ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n.
34469).

2.2. Non è poi fondato l’assunto secondo cui la
Corte d’Appello non avrebbe potuto trarre dalla sentenza penale di c.d.
patteggiamento elementi di valutazione.

A parte il fatto che tale sentenza appare più
richiamata che posta a reale fondamento delle argomentazioni svolte, questa
Corte ha comunque già ritenuto che «nei giudizi disciplinari che si svolgono
davanti alle autorità pubbliche, e quindi anche in quelli contro i dipendenti
della P.A., a norma degli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla I. n.
97 del 2001, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha
efficacia di giudicato quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità
penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso; ne consegue che quando
la contrattazione collettiva fa riferimento, per la graduazione delle sanzioni
disciplinari a carico del pubblico dipendente, alla sussistenza, per i medesimi
fatti, di sentenza di condanna penale, quest’ultima, in ragione del disposto
del citato art. 653, deve presumersi riguardare anche il caso di sentenza di
applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p.» (Cass. 31 luglio 2019, n.
20721).

Il riferimento dell’art. 653 c.p.c. al «giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità» non vale poi a
delimitare la valenza della norma alla sola fase amministrativa della
valutazione disciplinare, essendo evidente che l’ordinamento, per non
contraddire se stesso, non potrebbe riconoscere l’efficacia di giudicato alla
sentenza penale di patteggiamento solo allorquando la P.A. valuti l’addebito e
non nella sede giudiziale in cui ulteriormente si discuta dello stesso.

In tale logica neppure può ravvisarsi una qualche
preclusione alla valorizzazione del giudicato in sede giudiziale, per la
circostanza che la sentenza penale sia successiva all’irrogazione della
sanzione disciplinare e quindi non abbia fatto parte del materiale istruttorio
esaminato in sede amministrativa.

Infatti, una tale limitazione della portata
dell’art. 653 c.p.p. è priva di senso, non essendovi ragione alcuna perché
l’efficacia di giudicato possa subire variazioni a seconda del momento in cui
la sentenza sia stata pronunciata e ciò tanto più a fronte di un principio
generale, già acquisito alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «il
principio deH’immutabilità della contestazione attiene ai fatti posti a
fondamento del licenziamento disciplinare, non anche ai mezzi di prova dei
quali il datore di lavoro si avvalga per dimostrare giudizialmente la
fondatezza dell’addebito, sicché non gli è impedito di chiedere in giudizio
l’acquisizione di prove non emerse nel procedimento disciplinare, né gli è
precluso, per dimostrare la sussistenza del fatto e la commissione da parte
dell’incolpato, ferma la necessità di evitare conflitti fra gli esiti dei
procedimenti, in forza della disciplina di cui agli artt. 55 ter del d.lgs. n.
165 del 2001 e 653 e 654 c.p.p., di avvalersi del giudicato penale di condanna
che sopravvenga nel corso del giudizio civile di impugnazione della sanzione»
(Cass. 28 settembre 2016, n. 19183).

2.3. Non è infine vero che la Corte d’Appello abbia
operato addossando gli oneri probatori in capo al lavoratore.

Essa ha invece ritenuto la fondatezza sulla base
degli atti complessivamente disponibili e puntualmente indicati (pag. 3,
penultimo periodo) e poi esaminati (pag. 4) nella sentenza, valorizzandosi in
particolare il verbale di audizione del M. in sede disciplinare.

3. Il secondo motivo è formulato come omessa
motivazione su fatti decisivi e omesso esame della proporzionalità del
licenziamento.

La questione sulla proporzionalità è affrontata
altresì nel terzo motivo, con il quale si assume la violazione dell’art. 2106
c.c. e dell’art. 7 L. 300/1970 (art. 360 n. 3 c.p.c.), ma anche l’omesso esame
di fatti decisivi (art. 360 n. 5 c.p.c.); i due motivi, riguardando il medesimo
tema, possono essere esaminati congiuntamente.

Il secondo motivo contiene la mera proposizione di
una diversa valutazione rispetto alla proporzionalità della sanzione, la cui
valutazione è propria del giudice del merito e come tale certamente estranea
all’ambito del giudizio di legittimità (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass.,
S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; Cass. 9 agosto 2007, n. 17477), se non
espressa con modalità logicamente inaccettabili.

La Corte territoriale ha al contrario plausibilmente
apprezzato tale aspetto, avendo argomentato sia sulla gravità dell’infrazione
in ragione della creazione di un artificio utile a eludere i controlli della
P.A. sul rispetto degli orari, sia sul disposto dell’art. 55-quater, nel testo
vigente ratione temporis, contenente il richiamo, quale causa di licenziamento,
alle alterazioni dei mezzi di rilevazione della presenza in servizio mediante
atipiche «modalità fraudolente», senza tralasciare il richiamo al ruolo (di
capo ufficio) rivestito dal ricorrente, così ricostruendo con completezza i
fatti a base della rottura del vincolo fiduciario.

Non diversamente, il richiamo del terzo motivo a
«tutti gli aspetti concreti afferenti la natura e l’utilità del singolo
rapporto, la posizione … il grado di affidamento richiesto dalle specifiche
mansioni, il nocumento eventualmente arrecato … i motivi e l’intensità
dell’elemento intenzionale o di quello colposo» è rilievo del tutto apodittico,
privo di elementi concreti e tale da trascurare la motivazione viceversa spesa
e sopra richiamata sulla veste del M. nell’ufficio e sull’elemento intenzionale
nella creazione di un artificio fraudolento.

Anche il successivo richiamo del ricorrente alle
motivazioni rese dal Tribunale in prime cure si traduce ulteriormente nella
riproposizione di una diversa lettura di merito dei dati istruttori, sulla cui
inammissibilità già si è detto.

Così come la denuncia di omessa valutazione di un
fatto decisivo incentrata sulla mancata considerazione di «tutti gli elementi
offerti dal ricorrente» risulta di una tale genericità da non permettere di
riconoscere una rituale introduzione del motivo di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c.

4. Al rigetto del ricorso segue la regolazione
secondo soccombenza delle spese del grado.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità
che liquida in euro 6.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

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