Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2021, n. 20397

Compimento dell’anzianità massima di servizio, Rapporto di
lavoro dirigenziale, Risoluzione risoluzione automatica del contratto,
Reintegrazione nell’incarico espletato e risarcimento dei danni, Domanda
dell’interessato per la permanenza in servizio, Necessario rispetto degli
oneri di specificazione e di allegazione

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di L’Aquila ha respinto
l’appello di C. O. avverso la sentenza del Tribunale di Pescara che aveva
rigettato il ricorso, proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, volto
ad ottenere l’annullamento dell’atto del 18 
settembre 2012, con il quale l’Agenzia in ragione del compimento
dell’anzianità massima di servizio, aveva risolto il rapporto di lavoro
dirigenziale, e la conseguente condanna dell’ente convenuto alla reintegrazione
nell’incarico in precedenza espletato ed al risarcimento dei danni tutti subiti
in conseguenza dell’illegittimo recesso;

2. la Corte territoriale ha osservato che
erroneamente il primo giudice aveva ritenuto che l’Agenzia avesse esercitato il
potere conferito alle amministrazioni pubbliche dall’art. 72, comma 11, del
d.l. n. 122/2008, convertito dalla legge n. 133/2008, perché in realtà l’ente
aveva risolto il rapporto ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. a) del CCNL per
il personale dirigente dell’Area VI, che prevedeva, appunto, la risoluzione
«nel caso di compimento dell’anzianità massima di servizio o del limite massimo
di età», «salvo domanda dell’interessato per la permanenza in servizio oltre
tale termine, da presentarsi almeno tre mesi prima»;

3. il giudice d’appello ha, poi, rilevato che
l’appellante aveva posto a fondamento dell’asserita illegittimità dell’atto
adottato, non la contrarietà alla legge della disposizione contrattuale, bensì
l’insussistenza nel suo caso dei requisiti richiesti dalle parti collettive e
ciò perché al momento del raggiungimento dell’anzianità contributiva di
quaranta anni, ossia alla data del 9 marzo 2012, era già entrato in vigore il
d.l. n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011 che aveva elevato i limiti
di età e di contribuzione per accedere al collocamento a riposo;

4. la Corte aquilana ha disatteso l’interpretazione
del d.l. n. 201/2011 prospettata dall’appellante ed ha richiamato la norma di
interpretazione autentica dettata dall’art. 2, comma 4, del d.l. n. 101/2013,
convertito dalla legge n. 125/2013, secondo cui il conseguimento da parte di un
lavoratore dipendente delle amministrazioni di un qualsiasi diritto a pensione
entro il 31 dicembre 2011 comportava obbligatoriamente l’applicazione del
regime previgente all’entrata in vigore della nuova normativa;

5. infine il giudice d’appello ha osservato che l’O.
non aveva presentato la domanda di permanenza in servizio entro il termine
previsto dal C.C.N.L. ed ha aggiunto che, a fronte di disciplina dettata dal
contratto collettivo in vigore già dall’anno 2006, nessun obbligo di
informativa poteva essere posto a carico dell’amministrazione appellata;

6. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso C. O. sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria, al quale ha
opposto difese con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

 

Considerato che

 

1. con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi
dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ., il ricorrente denuncia la violazione e
falsa applicazione dell’art. 1421 cod. civ., in relazione agli artt. 112, 434 e
324 cod. proc. civ., ed addebita alla Corte territoriale di non avere rilevato
d’ufficio la nullità dell’art. 39 del CCNL 1.8.2006 per il personale dirigente
dell’Area VI, nullità che, invece, andava dichiarata in quanto la disposizione
contrattuale prevede una causa di risoluzione automatica del contratto non
prevista dal legislatore, il quale ha ricondotto l’effetto risolutorio del
rapporto di lavoro unicamente al 
licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo, alle
dimissioni, al mutuo consenso;

1.1. richiama il principio di diritto enunciato
dalle Sezioni Unite di questa Corte sulla rilevazione d’ufficio delle cause di
nullità in ogni stato e grado del giudizio e sostiene che nella fattispecie il
rilievo era doveroso, sia perché l’Agenzia per affermare la legittimità
dell’atto impugnato aveva richiamato la disciplina contrattuale, sia in quanto
lo stesso giudice d’appello aveva dato atto delle deduzioni svolte
dall’appellante anche sull’illegittimità della disciplina dettata dalle parti
collettive;

2. il ricorso è inammissibile perché prospetta, per
la prima volta con il ricorso per cassazione, un vizio dell’atto di recesso
oggetto di impugnazione non dedotto nel giudizio di merito;

3. anche all’esito della pronuncia delle Sezioni
Unite in tema di rilievo officioso delle nullità negoziali questa Corte ha
ribadito il consolidato orientamento secondo cui la causa petendi dell’azione
proposta dal lavoratore per contestare la validità e l’efficacia del
licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimità dell’atto
denunciato nel  ricorso introduttivo, con
la conseguenza che costituisce inammissibile domanda nuova la prospettazione,
in sede di impugnazione, di un profilo di illegittimità non tempestivamente
dedotto ( Cass. n. 8/2020; Cass. n. 18705/2019; Cass. n. 9675/2019; Cass. n.
6950/2019; Cass. n. 23869/2018; Cass. n. 7687/2017);

3.1. le pronunce richiamate, alla cui motivazione si
rinvia ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ., hanno sottolineato le
peculiarità dell’azione di impugnazione del recesso dal rapporto di lavoro
rispetto alle domande nelle quali venga in rilievo la validità del regolamento
contrattuale oggetto di causa ed hanno evidenziato, in particolare, che le
ragioni sottese ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite non si
prestano ad essere estese al giudizio nel quale si discute della legittimità
del licenziamento;

4. nel caso di specie il ricorrente, attraverso la
prospettazione della nullità della clausola del contratto collettivo invocata a
fondamento del potere di recesso, finisce per denunciare un profilo di
illegittimità dell’atto impugnato non tempestivamente allegato nel giudizio di
merito, nel quale, come si desume dalla motivazione della sentenza impugnata,
il ricorrente aveva posto «il centro focale della decisione» sulla
insussistenza delle condizioni alla cui ricorrenza le parti collettive hanno
subordinato l’esercizio del potere;

5. ciò rende applicabile il principio di diritto
richiamato nei punti che precedono, atteso che quel principio, per le ragioni
sulle quali riposa, opera ogniqualvolta, al di là della formale qualificazione
dell’atto adottato, venga in rilievo l’esercizio del potere datoriale di
recesso dal rapporto;

5. il ricorso, nella parte in cui addebita alla
Corte territoriale di non avere statuito su una questione che era stata
comunque prospettata dall’O., è formulato senza il necessario rispetto degli
oneri di specificazione e di allegazione di cui agli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4
cod. proc. civ. perché il ricorrente si limita a richiamare le conclusioni
dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e dell’appello, che si
riferiscono unicamente alla revoca o all’annullamento dell’atto impugnato senza
fare cenno alla nullità della disposizione contrattuale, e non riporta, neppure
nelle parti essenziali, le argomentazioni che sarebbero state dedotte a
sostegno dell’illegittimità della disciplina contrattuale, sicché il difetto di
completezza del motivo impedisce alla Corte di verificare ex actis la
fondatezza della censura;

6. l’inammissibilità del motivo, quindi, non
consente alla Corte di esaminare nel merito la fondatezza della censura e di
affrontare la questione dell’estensibilità all’impiego pubblico
contrattualizzato di principi che, in ordine alla tipicità delle cause di
cessazione del rapporto di lavoro, sono stati affermati in relazione al
rapporto di lavoro alle dipendenze di privati (cfr. sulla diversità della
disciplina, pur all’esito della contrattualizzazione, Cass. n. 4355/2005; Cass.
n. 26377/2008; Cass. n. 14628/2010);

7. le spese del giudizio di cassazione, liquidate
come da dispositivo, seguono la soccombenza e vanno poste a carico del
ricorrente;

8. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R.
n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai
fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza
delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del
contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in €
3.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate
a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2021, n. 20397
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: