Giurisprudenza – TRIBUNALE DI FOGGIA – Ordinanza 17 luglio 2021

Licenziamento, Superamento del periodo di comporto,
Sospensione della malattia, Fruizione delle ferie maturate e non godute,
Domanda del lavoratore

 

Ragioni di fatto e di diritto
della decisione

 

1. Con ricorso depositato in data 18.5.2021, M.A. –
premesso di aver lavorato dall’1.4.2009 al 27.2.2021 alle dipendenze della P.M.
s.r.l., con qualifica di operaio meccanico livello B – adiva l’intestato
Tribunale del lavoro, impugnando il licenziamento intimatogli dalla società
datrice con lettera raccomandata del 27.2.2021, sul presupposto che egli fosse
rimasto assente per malattia negli ultimi 30 mesi, per complessivi 430 giorni
(con conseguente superamento del periodo di comporto, quale previsto dal
C.C.N.L. di categoria, pari a 14 mesi, corrispondenti a 420 giorni).

A sostegno del ricorso deduceva: che, nel periodo
dal 16.3.2020 al 16.5.2020 (per un totale di 9 settimane, pari a 61 giorni),
egli era stato sottoposto, unitamente a tutti gli altri dipendenti della
società datrice di lavoro, alla misura della Cassa Integrazione Guadagni
Ordinaria (d’ora innanzi anche solo C.I.G.); che, pertanto, la misura in
questione aveva sostituito ad ogni effetto il periodo di malattia di cui egli
stava fruendo; che i conteggi formulati dalla P.M. s.r.l. erano errati, non
essendo state scomputate dal periodo di comporto le settimane in cui tutta la
forza lavoro dell’azienda era stata collocata in C.I.G.; che, sul punto,
avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 3, comma 7°, del D.lgs. n. 148/2015,
nonché l’orientamento espresso dall’I.N.P.S. nella circolare d’Istituto n.
197/2015, in base alla quale il lavoratore in malattia entra in C.I.G. dalla
data di inizio della stessa; che, in definitiva, essendo egli rimasto assente
per malattia per complessivi 369 giorni, non era stato superato il limite
temporale stabilito dalla contrattazione collettiva.

Sulla scorta di quanto dedotto, il ricorrente
chiedeva dichiararsi illegittimo il provvedimento espulsivo, invocando le tutele
previste dall’art. 18 L. n. 300/1970.

Instauratosi il contraddittorio, si costituiva la
società convenuta, la quale resisteva al ricorso, chiedendone il rigetto.

In assenza di attività istruttoria, all’udienza del
giorno 1.7.2021 il Giudice designato – uditi i procuratori delle parti – si
riservava per la decisione.

2. Il ricorso è infondato e va rigettato,
condividendosi le argomentazioni espresse dal Tribunale di Pesaro nella
sentenza n. 16 del 20.1.2021, versata in atti dalla società resistente (doc. 5)
ed i cui principali passaggi motivazionali vengono di seguito riprodotti, anche
ai sensi dell’art. 118, comma 1°, disp. att. c.p.c..

2.1. Invero, l’unico motivo di impugnazione è
incentrato sul dedotto, mancato superamento del periodo di comporto per effetto
del sopravvenuto collocamento del ricorrente in C.I.G. ordinaria a zero ore,
previsto dalla normativa d’emergenza COVID, periodo che, avendo interessato
tutti i dipendenti, non potrebbe, secondo parte ricorrente, essere computato
come malattia ai fini del comporto.

La tesi sostenuta da parte ricorrente si fonda, in
particolare, su un messaggio I.N.P.S. del 30.4.2020, il quale,
nell’interpretare la disposizione di cui all’art. 3, comma 7°, D.lgs. 148/2015
(secondo cui “il trattamento di integrazione salariale sostituisce in caso di
malattia l’indennità giornaliera di malattia, nonché la eventuale integrazione
contrattualmente prevista”), ha ritenuto che, qualora lo stato di malattia sia
precedente l’inizio della sospensione dell’attività lavorativa, si avranno due
casi: se la totalità del personale in forza all’ufficio, reparto, squadra o
simili cui il lavoratore appartiene ha sospeso l’attività, anche il lavoratore
in malattia entrerà in C.I.G. dalla data di inizio della stessa; qualora,
invece, non venga sospesa dal lavoro la totalità del personale in forza
all’ufficio, reparto, squadra o simili cui il lavoratore appartiene, il
lavoratore in malattia continuerà a beneficiare dell’indennità di malattia, se
prevista dalla vigente legislazione.

Da tale interpretazione parte ricorrente ha desunto
che, se durante una malattia l’azienda pone in Cassa Integrazione a zero ore il
lavoratore interessato (insieme al reparto di appartenenza, se non la totalità
della forza-lavoro), si avrebbe una modificazione della natura giuridica
dell’assenza e del motivo del mancato svolgimento dell’attività lavorativa, la
quale comporta che l’assenza dal lavoro non è più ascrivibile o imputabile al
lavoratore, anche in presenza di una certificazione medica preesistente, con la
conseguenza ulteriore che l’assenza, essendo imputabile alla chiusura aziendale
sopravvenuta, non potrebbe essere computata ai fini del comporto.

La tesi non pare condivisibile.

Ritiene il giudicante che, con l’art. 3, comma 7°,
del D.lgs. 148/2015, il Legislatore abbia inteso esclusivamente prevedere una
diversa “imputazione” della prestazione economica, che resta, comunque, di
competenza dell’I.N.P.S. (sia nel caso di malattia, sia nel caso di C.I.G.) e
che nulla ha a che vedere con il comporto, non incidendo in alcun modo sul
titolo dell’assenza e sulla sua rilevanza all’interno del rapporto tra
lavoratore e datore di lavoro.

E’, infatti, da escludere, in linea di principio,
che il datore di lavoro possa determinare il mutamento del titolo dell’assenza
quando il lavoratore è in malattia, perché ciò significherebbe attribuire al
datore di lavoro un potere extra ordinem, che si porrebbe addirittura in
contrasto con un diritto di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla
salute.

Parimenti è da escludere che una normativa speciale,
emessa al fine di imprimere una particolare connotazione alla prestazione
economica erogata dall’I.N.P.S. in caso di C.I.G. che sopravviene durante la
malattia, possa determinare il mutamento del titolo dell’assenza anche per finalità
diverse da quelle espressamente previste dalla legge.

Il mutamento del titolo dell’assenza è, sì, ammesso,
ma solo se sia il lavoratore a richiederlo, mediante la presentazione di
richiesta di ferie, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e
ferie.

Secondo il più recente indirizzo di legittimità,
dovendo ritenersi prevalente l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del
rapporto (Cass. 11.5.2000, n. 6043, Cass. 15.12.2008, n. 29317, Cass. 3.3.2009,
n. 5078), questi ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle
ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo
di comporto, gravando poi sul datore di lavoro, cui è generalmente riservato il
diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare – ove sia stato investito
di tale richiesta – di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione,
del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la
possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto.

L’orientamento risulta confermato dai successivi
arresti di legittimità (cfr. Cass. 7.6.2013, n. 14471), ove sono valorizzati i
canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto (Cass. sez.
lav., 14/09/2020, n.19062).

Tali principi sono stati ribaditi da Cass. n.
27392/2018, secondo cui il lavoratore assente per malattia ha facoltà di
domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di
sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità
assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un
obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni
organizzative di natura ostativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi
contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona
fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete
ed effettive (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che
aveva ritenuto privo di giustificazione, in quanto fondato su ragioni vaghe ed
inconsistenti, il rifiuto di concessione delle ferie motivato dalla società
datrice con un generico riferimento a non meglio precisate esigenze
organizzative dell’ufficio).

La possibilità, quindi, di mutare il titolo
dell’assenza per malattia spetta solo al lavoratore, al fine di sospendere il
decorso del periodo di comporto, nel cui calcolo vanno inclusi, come noto,
oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante
il periodo di malattia indicato dal certificato medico, operando, in difetto di
prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), una presunzione di
continuità, in quei giorni, dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale
causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione
dovuta, con la precisazione che la prova idonea a smentire tale presunzione di
continuità può essere costituita solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa
dell’attività lavorativa (Cassazione civile sez. lav., 13/09/2019, n.22928).

2.2. Nel caso di specie, così come in quello
esaminato nella pronuncia innanzi riportata, il ricorrente ha inviato i
certificati di malattia senza soluzione di continuità e senza chiedere il
mutamento del titolo dell’assenza, dimostrando, con comportamento concludente,
di voler proseguire lo stato di malattia (si vedano, in proposito, i
certificati medici allegati dalla parte resistente, doc. 3).

Avendo, quindi, il lavoratore continuativamente
coperto il periodo dal 2.1.2020 al 27.2.2021 con certificati di malattia, non
vi è dubbio che un eventuale mutamento del titolo dell’assenza avrebbe
richiesto un’istanza in tal senso rivolta al datore di lavoro, prima della
scadenza del periodo di comporto e al fine di sospenderne il decorso, come
precisato da Cass. n. 8834/2017 in un caso di mutamento del titolo dell’assenza
da malattia a ferie (per l’ipotesi inversa, si veda quanto affermato da Cass.
sez. lav., 10/01/2017, n.284, secondo cui, in caso di malattia del lavoratore
insorta durante il periodo feriale, la trasmissione della relativa
certificazione vale come richiesta di modificazione del titolo dell’assenza,
pur in assenza di un’espressa comunicazione, scritta od orale, trattandosi di
un atto che esprime in modo inequivocabile la volontà del soggetto di
determinare l’effetto giuridico della conversione).

Alla stregua delle argomentazioni che precedono, non
appare rilevante la circostanza dedotta nel verbale di udienza, secondo cui la
società datrice di lavoro non avrebbe mai comunicato al ricorrente il suo
collocamento in C.I.G. per il periodo dal 16.3.2020 al 16.5.2020, poiché ciò
che conta è il dato obiettivo – non contestato e, in ogni caso, provato per
tabulas – che, in tale periodo, il lavoratore abbia continuato ad inoltrare al
datore di lavoro i certificati medici attestanti il suo stato morboso.

In definitiva, il licenziamento s’appalesa
legittimo, dal che discende il rigetto del ricorso.

3. La relativa novità delle questioni trattate,
attestata dall’assenza di precedenti specifici di legittimità, induce nondimeno
a compensare integralmente le spese di lite, ai sensi dell’art. 92, comma 2°,
c.p.c..

 

P.Q.M.

 

In persona del Giudice designato, dott. I.C.,
definitivamente pronunciando nel procedimento iscritto al n. 3715/2021 R.G.L.,
disattesa o assorbita ogni contraria istanza, eccezione e difesa, così
provvede:

a) rigetta il ricorso;

b) compensa integralmente le spese di lite;

c) manda alla Cancelleria per le comunicazioni.

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