Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 luglio 2021, n. 21173

Rapporto di lavoro, Lavoratori impiegati in servizio di
guardiania e custodia, Cartella esattoriale, Prova dell’insussistenza del
maggior debito contributivo

 

Fatti di causa

 

Con sentenza depositata il 18.9.2014, la Corte
d’appello di Milano, in parziale riforma della pronuncia di primo grado e in
accoglimento dell’appello incidentale proposto da INPS e Equitalia Nord s.p.a.,
ha dichiarato inammissibile la domanda di accertamento della nullità proposta
da S. s.p.a. nei confronti della cartella esattoriale con cui le era stato
intimato il pagamento di contributi non pagati in danno di lavoratori impiegati
in servizio di guardiania e custodia, dichiarando altresì la legittimità
dell’iscrizione a ruolo per la minor somma di € 287.552,06, per come già
accertato dal primo giudice.

La Corte, in particolare, ha accolto gli appelli
incidentali proposti da INPS e Equitalia Nord s.p.a., nonostante che entrambi
riguardassero la sentenza non definitiva con cui il primo giudice aveva
dichiarato la nullità della cartella esattoriale, nei cui confronti solo S.
s.p.a. aveva proposto riserva d’impugnazione; sotto altro profilo, ha ritenuto
che gravasse sull’azienda l’onere di provare l’insussistenza del maggior debito
contributivo, che concerneva – come anzidetto – la continuatività del servizio
prestato dagli addetti al servizio di guardiania e custodia e/o comunque il
loro assoggettamento a continua disponibilità equivalente al lavoro effettivo,
e ha rigettato le richieste istruttorie dall’azienda riproposte in appello.

Avverso tali statuizioni S. s.p.a. ha proposto
ricorso per cassazione deducendo quattro motivi censura, successivamente
illustrati con memoria. INPS e Equitalia Nord s.p.a. hanno resistito con
distinti controricorsi. La causa è stata rimessa all’udienza pubblica a seguito
di infruttuosa trattazione camerale con ordinanza del 21.10.2020.

 

Ragioni della decisione

 

Con il primo motivo, la ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 334, 340 e 326 c.p.c. per avere la
Corte di merito accolto gli appelli incidentali proposti da INPS ed Equitalia
Nord s.p.a. nonostante che concernessero la sentenza non definitiva con cui il
primo giudice aveva dichiarato la nullità della cartella esattoriale, rispetto
alla quale soltanto essa aveva formulato riserva di impugnazione: ad avviso di
parte ricorrente, infatti, non avendo l’ente previdenziale e la concessionaria
dei servizi di riscossione formulato riserva d’appello nei confronti della sentenza
parziale, non avrebbero potuto impugnarne tardivamente le statuizioni, dal
momento che il gravame principale da essa proposto aveva avuto ad oggetto
soltanto le statuizioni della sentenza definitiva.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione
e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 24 ss., d.lgs. n. 46/1999, per
non avere la Corte territoriale esaminato, pur ritenendo ammissibile l’appello
incidentale, la sua eccezione di decadenza dall’iscrizione a ruolo, benché essa
fosse stata ritualmente riproposta in appello.

Con il terzo motivo, la ricorrente si duole di
violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 346 c.p.c., per avere
la Corte di merito ritenuto che gravasse a suo carico l’onere di provare
l’insussistenza del maggior debito contributivo (che concerneva la
continuatività del servizio prestato dagli addetti al servizio di guardiania e
custodia e/o comunque il loro assoggettamento a continua disponibilità
equivalente al lavoro effettivo) ed altresì per non aver considerato che le
istanze istruttorie proposte in primo grado dall’INPS dovevano reputarsi
rinunciate, dal momento che non erano state riproposte in appello.

Con il quarto motivo, la ricorrente deduce
violazione dell’art. 115 c.p.c. per non avere la Corte territoriale ammesso le
proprie istanze istruttorie, nonostante fossero state ritualmente riproposte in
appello.

Ciò premesso, il primo motivo è infondato.

È senz’altro vero che, come ricordato da parte
ricorrente nell’illustrazione della censura e dal Pubblico ministero nelle sue
conclusioni, plurime decisioni di questa Corte hanno affermato il principio di
diritto secondo cui la legittimazione all’impugnazione incidentale tardiva ex
art. 334 c.p.c. può riguardare la sentenza non definitiva alla duplice e congiunta
condizione che il soccombente sia autore della riserva di gravame differito e
che, essendo risultato parzialmente vittorioso per effetto della sentenza
definitiva, veda le statuizioni di questa, a lui favorevoli, impugnate in via
principale dalla controparte (così Cass. nn. 6515 del 1997, 3052 del 2001,
15874 del 2013, 19514 del 2020).

È però altrettanto vero che all’affermazione di tale
principio, poi tralaticiamente richiamato dalle pronunce successive, Cass. n.
6515 del 1997, cit., è pervenuta richiamando a proprio sostegno le affermazioni
della precedente Cass. n. 1452 del 1991, dalla quale ultima, tuttavia, non è
dato in realtà evincere alcun decisivo argomento a supporto della soluzione
adottata ed emergono semmai convincenti indicazioni di segno contrario.

Più in particolare, non è esatto che Cass. n. 1452
del 1991, cit., abbia sostenuto in termini assoluti che l’esperibilità in via
incidentale tardiva del gravame contro la sentenza non definitiva è subordinata
alla proposizione di un’esplicita riserva di impugnazione di tale sentenza da
parte dell’autore dell’impugnazione incidentale stessa: ha piuttosto affermato
che nella specifica fattispecie che era portata alla sua cognizione, in cui
effettivamente ad aver proposto l’impugnazione incidentale della sentenza non
definitiva era la parte che nei suoi confronti aveva formulato riserva
d’impugnazione, non si poteva dubitare della ammissibilità dell’impugnazione
incidentale tardiva, sebbene concernesse la sentenza non definitiva, che non
aveva invece formato oggetto del gravame principale. Ma tale affermazione
s’inserisce in una ricostruzione del sistema delineato dal combinato disposto
degli artt. 340 e 334 c.p.c. che non sorregge affatto l’approdo secondo cui la
riserva d’appello deve considerarsi condicio sine qua non dell’impugnazione
incidentale della sentenza non definitiva e, piuttosto, legittima la
conclusione opposta.

I capisaldi di tale ricostruzione possono, ai fini
che qui interessano, essere sintetizzati come segue. A partire da Cass. S.U. n.
4640 del 1989, questa Corte ha consolidato il principio secondo cui l’art. 334
c.p.c., che consente alla parte contro cui è stata proposta impugnazione (o che
è chiamata ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331 c.p.c.) di
esperire impugnazione incidentale tardiva, senza subire le conseguenze dello
spirare del termine ordinario o della propria acquiescenza, è rivolto a rendere
possibile l’accettazione della sentenza, in situazione di reciproca
soccombenza, solo quando anche l’avversario tenga analogo comportamento, e
pertanto, in difetto di limitazioni oggettive, trova applicazione con riguardo
a qualsiasi capo della sentenza medesima, ancorché autonomo rispetto a quello
investito dall’impugnazione principale (tra le numerose successive conformi si
vedano Cass. S.U. nn. 652 del 1998 e 10977 del 2001).

È vero che una cospicua parte della giurisprudenza
successiva, pur tenendo fermo il principio dell’impugnabilità in via
incidentale di capi autonomi della sentenza rispetto a quelli oggetto dell’impugnazione
in via principale, ha affermato – sulla scorta di una testuale precisazione di
Cass. S.U. n. 4640 del 1989 – che opererebbe pur sempre il limite dell’unicità
formale della sentenza oggetto d’impugnazione (così, ad es., Cass. nn. 9022 del
1993, 5711 del 1996 e numerose altre); ma non è meno vero che tale assunto, di
cui a ben vedere costituisce espressione anche l’indirizzo consapevolmente
inaugurato da Cass. n. 6515 del 1997, cit., mal si concilia con l’evidenza
normativa che vuole l’osservanza del termine stabilito dall’art. 325 c.p.c.
soltanto per l’impugnazione principale e non già per l’impugnazione
incidentale: che appunto, a termini dell’art. 334 c.p.c., è proponibile anche
quando sia decorso il termine e perfino quando sia intervenuta acquiescenza.

Né appare decisivo che il legislatore, nel delineare
nella disposizione ult. cit. i presupposti dell’impugnazione incidentale
tardiva, abbia impiegato il termine “sentenza” al singolare, come
pure nel successivo art. 335 c.p.c., quando disciplina la riunione preposta ad
assicurare l’unità del processo d’impugnazione: come convincentemente

osservato da Cass. n. 1452 del 1991, cit., l’uso del
singolare “sentenza” si spiega agevolmente sol che si pensi che i
testi degli artt. 334 e 335 c.p.c. furono redatti per far parte di un contesto
normativo in cui, prima delle modificazioni introdotte dall’art. 35, I. n. 581/1950, l’art. 339, comma 2°,
c.p.c., prevedeva che le sentenze parziali potessero essere impugnate soltanto
con la sentenza definitiva, onde era logico identificare in quest’ultima quella
“stessa sentenza” le cui separate impugnazioni dovevano essere
riunite, anche d’ufficio, per essere decise in un solo processo. E sebbene
nella nuova formulazione degli artt. 339 e 340 c.p.c. non si faccia cenno alla
possibilità di esperire un’impugnazione differita della sentenza non definitiva
che avvenga nelle forme e nei termini stabiliti per l’impugnazione incidentale
tardiva, tale possibilità deve logicamente ammettersi proprio in relazione alla
ratio che ispira l’art. 334 c.p.c.: e ciò indipendentemente da una preventiva
riserva d’impugnazione, la cui necessità può giustificarsi, come emerge
chiaramente dalle previsioni dell’art. 340 c.p.c., solo nell’ottica di una sua
impugnazione successiva in via principale.

In effetti, come opportunamente rimarcato da Cass.
n. 1452 del 1991, cit., una volta che si ammetta che sull’unità
“formale” della sentenza deve far premio l’unicità del processo, nel
corso del quale più decisioni possono susseguirsi in progressiva definizione
del disputatimi, risulta agevole concludere che soltanto in riferimento
all’esito conclusivo del singolo grado del giudizio è possibile, per ciascuno
dei litiganti, valutare quale grado di soddisfacimento abbia in concreto
ricevuto il suo interesse e quali siano i vantaggi ed i possibili rischi di
un’eventuale impugnazione. Il che vai quanto dire che, anche rispetto alle
ipotesi previste dall’art. 340 c.p.c. (e, naturalmente, dall’art. 361 c.p.c.,
che disciplina il ricorso per cassazione), ricorre quella medesima ragione
giustificativa dell’impugnazione incidentale tardiva che, a suo tempo, ha
indotto le Sezioni Unite di questa Corte a ripudiare le limitazioni prima
ravvisate rispetto alla sua ammissibilità: ossia lo scopo di favorire l’accettazione
della definizione del giudizio nella sua interezza, anche quando molteplici e
formalmente ascrivibili a più sentenze siano i precetti che hanno composto il
conflitto tra le parti, così da avvertire colui, che con l’impugnazione
principale intende rimettere in discussione a proprio vantaggio
quell’equilibrio, profittando della scadenza dei termini processuali o
dell’acquiescenza dell’avversario, che analoga facoltà permane pur sempre in
capo alla controparte, la quale – ferma l’unitarietà del processo nella fase
impugnatoria – ben potrà a sua volta dolersi delle statuizioni ad essa
sfavorevoli contenute nel complessivo assetto di interessi in cui s’è
concretato il decisum.

Sono queste le ragioni per cui il Collegio reputa di
doversi discostare dall’orientamento inaugurato da Cass. n. 6515 del 1997 e
piuttosto richiamarsi all’indirizzo già affermato dalle meno recenti Cass. nn.
2954 del 1959 e 672 del 1966: ossia che la riserva d’impugnazione contro le
sentenze non definitive deve reputarsi necessaria soltanto per le impugnazioni
principali, non anche per quelle incidentali, che possono essere tardivamente
proposte dalle parti contro le quali è stata proposta l’impugnazione principale
e da quelle chiamate ad integrare il contraddittorio, a norma dell’art. 331
c.p.c., anche quando per esse sia decorso il termine o abbiano prestato
acquiescenza alla sentenza; fermo restando, naturalmente, che il diritto
all’impugnazione incidentale può sorgere concretamente solo con l’avvenuta
proposizione dell’impugnazione principale, di talché se questa ultima viene
dichiarata inammissibile, anche l’impugnazione incidentale nei confronti della
sentenza non definitiva perderà la sua efficacia.

Chiarito dunque che nessun error in procedendo è
imputabile alla Corte di merito per aver dato ingresso all’appello incidentale
tardivo proposto dalle odierne parti controricorrenti nei confronti della
sentenza non definitiva con cui il primo giudice aveva dichiarato la nullità
della cartella, resta da dire, sul punto, che anche il secondo motivo di
censura, con cui parte ricorrente lamenta che i giudici territoriali abbiano
omesso di pronunciarsi sull’eccezione di decadenza dall’iscrizione a ruolo, è
infondato: questa Corte ha infatti chiarito che l’efficacia della previsione di
cui all’art. 25, d.lgs. n. 46/1999, già differita, rispetto all’entrata in
vigore dell’intero procedimento di riscossione, dalla disposizione transitoria
contenuta nell’art. 36, comma 6, del medesimo decreto legislativo e poi più
volte ulteriormente differita dall’art. 38, comma 8, I. n. 289/2002, e
dall’art. 4, comma 25, I. n. 350/2003, sino a prevederne l’applicazione dal 1°
gennaio 2004, è stata ulteriormente oggetto di disciplina da parte dell’art.
38, comma 12, d.l. n. 78/2010 (conv. con I. n. 122/2010), che, stabilendo che
le disposizioni contenute nell’art. 25, d.lgs. n 46/1999, non si applicano,
limitatamente al periodo compreso tra l’1.1.2010 e il 31.12.2012, ai contributi
non versati e agli accertamenti notificati successivamente alla data del
1°.1.2004 dall’ente creditore, si pone in chiave di raccordo temporale con le
precedenti proroghe, di talché, utilizzando il meccanismo della sospensione di
efficacia per un triennio dell’applicazione della regola della decadenza,
consente il recupero coattivo di crediti non compresi nelle proroghe operative
sino alla data suddetta (così Cass. nn. 5963 del 2018, 16307 del 2019 e succ.
conf.); e benché, in effetti, la sentenza impugnata nulla abbia detto al
riguardo, soccorre sul punto il principio secondo cui la mancanza di
motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante,
ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia
comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al
suo esame, giacché in tal caso questa Corte di cassazione, in ragione della
funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento nonché dei principi di
economia processuale e di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111,
comma 2°, Cost., ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata
dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error
in procedendo qual è la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle
ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sempre che – come
nella specie – si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti
in fatto (Cass. S.U. n. 2731 del 2017).

Inammissibili sono invece il terzo e il quarto
motivo: è sufficiente sul punto rilevare che i giudici territoriali, dopo aver
ritenuto che la prova orale richiesta dall’odierna ricorrente vertesse «su
circostanze in parte generiche, in parte valutative, che comunque non
dimostrano che i dipendenti […] godessero di pause durante le quali non
fossero comunque a disposizione per esigenze di servizio», hanno avvalorato le
risultanze del verbale ispettivo nella parte in cui avevano evidenziato «che
nel periodo oggetto dell’accertamento […] le guardie giurate prestavano
costantemente lavoro straordinario, regolarmente retribuito dalla società»,
desumendone che sarebbe «alquanto difficile ipotizzare che il lavoro […]
comportasse supplementi d’orario e, al contempo, consentisse al personale
impiegato pause effettive, senza uno stato di attenzione», e concludendo
pertanto che «tutte le incombenze inerenti le attività affidate all’istituto di
vigilanza esigevano per definizione, e a rischio di vanificare in un solo
istante l’investimento complessivo dispiegato, un ininterrotto allerta», non
compatibile con una prestazione discontinua (così la sentenza impugnata, pag.
14); ed è evidente che, a fronte di tale accertamento presuntivo, condotto
sulla scorta delle risultanze documentali già acquisite in primo grado, affatto
inammissibili appaiono sia la censura di violazione delle regole sulla ripartizione
dell’onere della prova, dal momento che essa non può essere finalizzata a
criticare la valutazione che il giudice di merito abbia effettuato delle prove
proposte dalle parti (così, tra le più recenti, Cass. nn. 13395 del 2018, 18092
del 2020), sia quella di violazione dell’art. 115 c.p.c., che può trovare
ingresso in sede di legittimità non certo per denunciare l’erronea valutazione
del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo per lamentare
che questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o
disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso,
valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero
abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento
critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (così, tra le tante,
Cass. nn. 27000 del 2016 e 1229 del 2019).

Il ricorso, pertanto, va rigettato. Tenuto conto
della complessità e della soluzione delle questioni trattate nell’esame del
primo motivo, si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio
di legittimità. Sussistono invece i presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Compensa le spese.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 – bis dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 luglio 2021, n. 21173
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