Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2021, n. 20394

Rapporto di lavoro, Riconoscimento dell’anzianità di servizio
maturata alle dipendenze dell’amministrazione provinciale, Differenze
retributive, Spettanza

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Roma, adita con appello
principale dal Ministero dell’Interno e con impugnazione incidentale da C.C. in
riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva parzialmente
accolto il ricorso della C., ha respinto tutte le domande formulate dalla
dipendente, la quale aveva agito in giudizio per ottenere il riconoscimento, a
fini giuridici ed economici, dell’anzianità di servizio maturata alle
dipendenze dell’amministrazione provinciale di Roma dal 5 luglio 1976 al 24
gennaio 1983 e la condanna del Ministero al pagamento delle conseguenti
differenze retributive;

2. la Corte territoriale ha premesso che la C. era
transitata nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco e con d.m. 10 maggio 1993
il Ministero le aveva riconosciuto un incremento della RIA – Retribuzione
Individuale di Anzianità – che, però, non teneva conto del servizio prestato
alle dipendenze dell’amministrazione provinciale;

3. il giudice d’appello ha ritenuto parzialmente
fondata l’eccezione di prescrizione ed ha rilevato che con il decreto
ministeriale del 24 gennaio 1983 era stato precisato quale fosse lo status
giuridico ed economico dell’appellante incidentale, la quale, pur potendo
contestare già all’epoca il mancato riconoscimento dell’anzianità maturata
presso l’ente di provenienza, aveva esercitato il suo preteso diritto in via
stragiudiziale solo con la missiva dell’8 agosto 2000 e, pertanto, le
differenze retributive, ove spettanti, potevano essere riconosciute, al più,
con decorrenza dal quinquennio antecedente la data di compimento del primo atto
interruttivo;

4. la Corte, peraltro, ha ritenuto assorbente
l’infondatezza della pretesa ed ha rilevato, da un lato, la genericità della
domanda con la quale il riconoscimento era stato domandato «a fini giuridici» e
dall’altro, quanto ai riflessi economici, che l’art. 25 del d.P.R. n. 335/1990
ai fini del calcolo della RIA ha valorizzato solo il servizio effettivo
continuativo prestato alle dipendenze della medesima amministrazione;

5. infine il giudice d’appello ha ritenuto
inammissibile la domanda di risarcimento del danno perché proposta solo con il
ricorso in riassunzione, depositato a seguito della riforma della sentenza del
Tribunale di Roma n. 14801/2004 che aveva dichiarato il difetto di
giurisdizione del giudice ordinario;

5. per la cassazione della sentenza ha proposto
ricorso Caterina C. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria, ai quali
il Ministero dell’Interno ha opposto difese con controricorso.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art.
360 n. 3 cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 2935,2946,2948 cod. civ., degli artt. 21 e 22 della
legge n. 930/1980, dell’art. 7, comma 1, del dl. n. 384/1992, convertito dalla
legge n. 438/1992, come autenticamente interpretato dall’art. 51, comma 3,
della legge n. 388/2000 e sostiene che non poteva essere accolta l’eccezione di
prescrizione in quanto solo con il d.m. n. 533/2001 l’amministrazione aveva
respinto l’istanza formulata l’8 agosto 2000;

1.1. precisa che l’anzianità di servizio configura
un mero fatto giuridico che non ricade sotto il regime della prescrizione ed
aggiunge che quanto alle pretese retributive il dies a quo deve essere
individuato nella data in cui l’interessato attiva il proprio credito
presentando la relativa istanza perché sino a quando quest’ultima non viene
depositata non è configurabile un inadempimento dell’amministrazione;

1.2. ribadisce che il legislatore con l’art. 22
della legge n. 930/1980 aveva attribuito specifico valore all’anzianità di
servizio maturata presso l’amministrazione di provenienza ai fini
dell’inquadramento in ruolo e, pertanto, della richiamata anzianità occorreva
poi tenere conto ad ogni altro effetto;

1.3. aggiunge che quanto al riconoscimento a fini
giuridici ha errato la Corte territoriale nell’escludere l’interesse ad agire
perché la ricorrente aveva domandato la ricostruzione dell’intera carriera, che
incide anche sulla successiva progressione professionale;

2. la seconda censura denuncia, ex art. 360 n. 3
cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 25, commi 4 e 5,
del d.P.R. n. 335/1990, come modificato dal d.l. n. 384/1992, della
dichiarazione congiunta n. 2 del CCNL 5.4.1996 e dell’art. 49, comma 7, del
CCNL 1998/2001 per il personale del comparto aziende ed amministrazioni
autonome perché la Corte territoriale, nell’escludere che ai fini della
quantificazione della RIA potesse rilevare il servizio prestato alle dipendenze
di altre amministrazioni, ha violato le disposizioni contrattuali richiamate
nella rubrica e non ha tenuto in alcun conto i principi affermati dalla
giurisprudenza amministrativa, secondo cui la continuità può aversi anche in
relazione all’attività prestata presso enti locali;

3. infine con il terzo motivo è denunciata la
violazione degli artt. 50 e 353 cod. proc. civ. perché l’atto di riassunzione
può contenere anche una nuova domanda in aggiunta a quella originaria ed in tal
caso il ricorso, oltre a svolgere la funzione propria della riassunzione, equivale
all’atto introduttivo di un nuovo giudizio che, altrimenti, dovrebbe essere
proposto separatamente con inutile dispendio di attività processuale;

4. il primo motivo è infondato nella parte in cui
contesta il capo della sentenza impugnata con il quale la Corte territoriale ha
ritenuto maturata la prescrizione quinquennale in relazione alle pretese
retributive fatte valere per il periodo antecedente al quinquennio, calcolato a
ritroso a far tempo dal primo atto interruttivo risalente all’8 agosto 2000;

4.1. la pronuncia è conforme all’orientamento
consolidato di questa Corte secondo cui l’anzianità di servizio non è uno
status o un distinto bene della vita oggetto di un autonomo diritto, perché
rappresenta solo la dimensione temporale del rapporto di lavoro di cui integra
il presupposto di fatto di specifici diritti, con la conseguenza che, se da un
lato, l’anzianità non è suscettibile di autonoma prescrizione, dall’altro le
pretese di carattere patrimoniale che sull’anzianità medesima si fondano possono
essere fatte valere in giudizio solo nel rispetto del termine quinquennale di
prescrizione al quale soggiace il diritto alla retribuzione ( cfr. Cass. n.
2232/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

4.2. il termine previsto dall’art. 2948 cod. civ. (a
seguito della contrattualizzazione non è più applicabile all’impiego pubblico
contrattualizzato l’art. 2 del R.d.l. n. 295/1939, nel testo modificato
dall’art. 2 della legge n. 428/1985, cfr. Cass. n. 10219/2020) decorre ex art.
2935 cod. civ. dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, quindi,
per le pretese retributive dal momento in cui l’obbligazione patrimoniale non è
stata correttamente adempiuta dal datore con la corresponsione di quanto
effettivamente dovuto, posto che un fatto impeditivo della decorrenza della
prescrizione può essere ravvisato solo in presenza di cause giuridiche che
ostacolino l’esercizio del diritto mentre non rilevano né l’ignoranza da parte
del titolare né il dubbio soggettivo sull’esistenza del diritto stesso né, infine,
il ritardo indotto dalla necessità di accertamenti ( Cass. n. 3584/2012; Cass.
n. 10828/2015; Cass. n. 19193/2018);

4.3. il motivo è, pertanto, infondato nella parte in
cui pretende di valorizzare, ai fini dell’individuazione del dies a quo della
prescrizione, il d.M. n. 533/2001 con il quale l’istanza di riconoscimento
dell’anzianità è stata formalmente rigettata dall’amministrazione, atteso che
la ricostruzione della carriera, con i conseguenti riflessi sul piano
economico, poteva essere domandata sin dal momento in cui il riconoscimento
dell’anzianità pregressa avrebbe consentito, secondo l’assunto della
ricorrente, l’invocata applicazione dell’art. 25, comma 4, del d.P.R. n.
335/1990; 

4.4. il motivo è, poi, inammissibile nella parte in
cui si duole della ritenuta genericità della domanda con la quale il
riconoscimento dell’anzianità era stato richiesto anche a fini giuridici,
perché la ricorrente non individua né denuncia l’error in procedendo nel quale
la  Corte territoriale sarebbe incorsa e
si limita ad argomentare sull’interesse ad agire, al quale non fa cenno la
pronuncia gravata;

4.5. questa Corte ha precisato che l’errata
interpretazione della domanda che abbia indotto una pronuncia di
inammissibilità della stessa, si risolve nella violazione del principio di
corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (Cass. 21421/2014) e, pertanto,
deve essere denunciata nei modi indicati da Cass. S.U. n. 17931/2013 mediante
specifica deduzione della nullità della pronuncia gravata, alla quale non fa cenno
il motivo di ricorso, tra l’altro formulato senza il necessario rispetto
dell’onere di specifica indicazione di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.
perché la ricorrente non dimostra che la questione della riqualificazione
professionale, connessa al riconoscimento dell’anzianità, fosse stata
prospettata nel ricorso di primo grado e nell’atto di appello incidentale;

5. parimenti infondato è il secondo motivo con il
quale si prospetta un’interpretazione dell’art. 25 del d.P.R. n. 335/1995 (di
recepimento dell’accordo del 10 febbraio 1990 concernente il personale del
comparto delle aziende e delle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento
autonomo) che contrasta con il tenore letterale e con la ratio della
disposizione invocata nella parte in cui prevede, al quarto comma, che «A
decorrere dal 1° ottobre 1990, al personale che nel triennio contrattuale abbia
maturato 5 anni di effettivo servizio continuativo nella stessa amministrazione
competono i seguenti importi annui, da inserire nella retribuzione individuale
di anzianità» ed aggiunge, al comma successivo, che « I suddetti importi al
compimento del decimo anno si raddoppiano, al compimento del quindicesimo anno
si triplicano, al compimento del ventesimo anno si quadruplicano e si aggiunge
a tale ultimo valore lo 0,50 per cento del tabellare iniziale riportato al
comma 1 dell’articolo 24»;

5.1. questa Corte, nell’interpretare l’art. 9 del
d.P.R. n. 44 del 1990, relativo al personale del comparto Ministeri, ha già
affermato che «la retribuzione individuale di anzianità è istituto retributivo
commisurato all’anzianità di servizio e preordinato a premiare l’esperienza
professionale maturata nello specifico settore nel quale è effettuata la
prestazione; ne consegue che la maggiorazione della RIA prevista dall’art. 9,
comma 5, del d.P.R. n. 44 del 1990, in favore del personale statale che abbia
maturato dieci o venti anni di servizio, spetta soltanto a coloro che possano
vantare detta anzianità di servizio nello specifico settore lavorativo nel
quale vige la maggiorazione stessa» ( Cass. n. 756/2012 e negli stessi termini
Cass. 11836/2009);

5.2. il principio, condiviso dal Collegio e qui
ribadito, a maggior ragione vale per l’art. 25 del d.P.R. n. 335/1995 che fa
specifico riferimento al servizio continuativo prestato «nella stessa
amministrazione», inciso, questo, sul quale ha fatto leva anche la più recente
giurisprudenza amministrativa (C.d.S. n. 7610/2019) che, pronunciando in
fattispecie analoga a quella oggetto di causa, ha condivisibilmente osservato
come nell’impiego pubblico, in cui sin dagli anni 80 la strutturazione della
contrattazione collettiva si basa sulla nozione di comparto, non si può
«accedere ad una nozione unitaria di amministrazione dello Stato che si fondi
sulla pretesa sovrapponibilità ontologica delle sue distinte articolazioni
soggettive» e, pertanto, deve essere valorizzato a fini interpretativi il
riferimento alla «stessa amministrazione», coerente con la ratio della
disposizione, che è evidentemente quella di riconoscere il beneficio economico
in ragione non della sola anzianità di servizio, bensì della professionalità
acquisita attraverso la prestazione di attività nel medesimo contesto
lavorativo e organizzativo;

5.3. il CCNL 5.4.1996 per il personale del comparto
aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo (che comprendeva
anche il personale del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco) ha inserito nella
struttura della retribuzione la  R.I.A.
solo «ove percepita» (art. 46) e, pertanto, non ne ha innovato la disciplina,
che resta quella dettata dal richiamato art. 25, sicché non può essere ritenuta
vincolante a fini interpretativi la dichiarazione congiunta n. 2 inserita in
calce allo stesso contratto;

5.4. nell’impiego pubblico contrattualizzato il
legislatore ha, eccezionalmente, attribuito alle parti collettive un potere di
interpretazione autentica delle disposizioni contrattuali con l’art. 68 bis del
d.lgs. n. 29 del 1993, inserito dall’art. 30 del d.lgs. n. 80/1998 e poi
trasfuso nell’art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, e con l’art. 53 del d.lgs. n.
29/1993, il cui testo, modificato dall’art. 43 del d.lgs. n. 80/1998, è
riprodotto nell’art. 49 del d.lgs. n. 165/2001;

5.5. peraltro l’esercizio di detto potere è
subordinato a specifiche condizioni, prima fra tutte la compatibilità
dell’esegesi fornita con gli strumenti di programmazione e bilancio, sicché in
difetto delle stesse l’accordo interpretativo non si sostituisce alla
disposizione originaria né acquista la particolare efficacia prevista dalle
norme sopra richiamate;

5.6. dette condizioni non ricorrono nella
fattispecie, sia perché la dichiarazione congiunta non contiene alcun
riferimento al potere di interpretazione autentica, sia in quanto la
compatibilità della stessa con le risorse complessive a disposizione delle
parti collettive è smentita dall’art. 49, comma 7, del successivo CCNL per il
quadriennio 1998/2001, con il quale si impegna l’Amministrazione, in presenza
di decisioni giurisdizionali inerenti il riconoscimento della retribuzione
individuale di anzianità, ad attivare la procedura prevista dall’art. 66 del
d.lgs. n. 29/1993 ( poi trasfuso nell’art. 61 del d.lgs. n. 165/2001);

5.7. la procedura alla quale l’art. 49 rinvia si
riferisce, appunto, alle decisioni «che comportino oneri a carico del bilancio»
non considerati al momento della sottoscrizione del contratto, il che
smentisce, non conferma, l’assunto secondo cui le parti collettive avrebbero
inteso attribuire la maggiorazione anche ai dipendenti che avevano prestato
servizio presso amministrazioni diverse, perché, ove così fosse stato,
l’accordo ed i successivi CCNL avrebbero dovuto avere la necessaria copertura
finanziaria;

5.8. in via conclusiva gli argomenti prospettati
dalla ricorrente, non coerenti con la finalità e con il tenore letterale della
clausola contrattuale, non giustificano un ripensamento dell’orientamento già
espresso, al quale va data continuità;

6. non sono fondate neppure le considerazioni
espresse nella memoria ex art. 380 bis 1 cod. proc. civ., circa la necessità di
interpretare l’art. 25 del d.P.R. n. 335/1995 alla luce della direttiva
77/187/CE in tema di trasferimento di azienda;

6.1. la Corte di Giustizia con la pronuncia del 6
aprile 2017 in causa C – 336/15, ha ribadito che lo scopo della direttiva è
solo quello di assicurare il mantenimento dei diritti già acquisiti dai
lavoratori trasferiti e che l’anzianità maturata presso il cedente non
costituisce di per sé «un diritto di cui i lavoratori possano avvalersi nei
confronti del cessionario, ciò nondimeno essa serve, se del caso, a determinare
taluni diritti pecuniari dei lavoratori, che pertanto devono essere
salvaguardati, in linea di principio dal cessionario allo stesso modo del
cedente» ( punti 21 e 22 nei quali la Corte richiama le sentenze 6.9.2011,
Scattolon, C- 108/10 e 14.9.2000, Collino e Chiappero, C-343/98);

6.2. è coerente con il principio affermato dalla
Corte di Lussemburgo l’orientamento formatosi sull’interpretazione degli artt.
31 d.lgs. n. 165/2001 e 2112 cod. civ. secondo cui le disposizioni normative e contrattuali
finalizzate a garantire il mantenimento del trattamento economico e normativo
acquisito, non implicano la totale parificazione del lavoratore trasferito ai
dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione, in
quanto la prosecuzione giuridica del rapporto se, da un lato, rende operante il
divieto di reformatio in peius, dall’altro non fa venir meno la diversità fra
le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere
valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato
non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;

6.3. muovendo da detta premessa si è evidenziato che
l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il
lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere
salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino
benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità
comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto
dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n.
22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n.
17081/2007);

 6.4.
l’anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest’ultimo per
rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina
applicabile al cessionario (Cass. S.U. n. 22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), né
può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione
giuridica ed economica, perché l’ordinamento garantisce solo la conservazione
dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione
del contratto, non delle mere aspettative ( cfr. fra le più recenti Cass. n.
4389/2020 e quanto agli scatti di anzianità Cass. n. 32070/2019);

7. infondato è anche il terzo motivo perché
l’inammissibilità della domanda di risarcimento del danno, formulata solo in
sede di riassunzione del giudizio di primo grado (conseguita alla riforma della
sentenza con la quale il Tribunale aveva declinato la giurisdizione), è stata
dichiarata dalla Corte d’appello nel rispetto del principio di diritto, già
enunciato da questa Corte, secondo cui nelle controversie in materia di lavoro
e previdenza la riassunzione del giudizio in primo grado, dopo che il giudice
di appello ne abbia disposto la rimessione al primo giudice, in applicazione
degli artt. 353 e 354 cod. proc. civ., comporta la continuazione del giudizio
precedentemente instaurato e non l’instaurazione di un nuovo giudizio, con
conseguente inammissibilità della proposizione di domande nuove ( Cass. n.
12719/2013);

7. il ricorso va, pertanto, rigettato con
conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, liquidate come da dispositivo;

8. ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R.
n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai
fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza
delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del
contributo unificato, se dovuto dalla ricorrente.

 

P.Q.M.

 

 rigetta il ricorso e condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in C
5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate
a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 luglio 2021, n. 20394
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