Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 luglio 2021, n. 21356

Licenziamento, Comportamento violento ai danni di un collega
– Gravi lesioni fisiche, Ingiustificatezza del recesso datoriale,
Accertamento

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’appello di Catania, con sentenza n.
371/2019, decidendo sul reclamo proposto da M.B. nei confronti degli Stati
Uniti d’America, confermava la pronuncia del locale Tribunale che aveva
respinto l’opposizione del B., dipendente della Base Aeronavale M.M. USA,
Defence Commissary Agency, Store Operation, Europan Area, con sede in
Sigonella, intesa ad ottenere la declaratoria dell’illegittimità del
licenziamento intimatogli con lettera del 12.10.2012.

Il B. era stato licenziato per aver tenuto un
comportamento violento ai danni di un collega, nei confronti del quale aveva
rivolto insulti e minacce, causando seria turbativa alle attività operative, e
gravi lesioni fisiche.

In sede giudiziale il dipendente aveva lamentato
l’illegittimità del licenziamento in quanto irrogato per motivi discriminatori
ed aveva chiesto che fosse ordinata la sua reintegrazione nel posto di lavoro,
con tutte le conseguenze risarcitone; in via subordinata, aveva chiesto che ne
fosse dichiarata l’illegittimità per sproporzione e assenza di giusta causa.

Il giudice di prime cure, nel contraddittorio con
gli Stati Uniti d’America, respingeva il ricorso escludendo la natura
discriminatoria del licenziamento e ritenendo inammissibile la subordinata
domanda di tutela obbligatoria in quanto domanda non fondata sul “medesimo
fatto costitutivo” rispetto alla domanda proposta in via principale volta
alla declaratoria di nullità del licenziamento perché discriminatorio.

Tale pronuncia era confermata in sede di
opposizione.

La Corte d’appello di Catania respingeva il reclamo
del B..

2. Riteneva la Corte territoriale ammissibile la
proposizione in via subordinata alla domanda volta a denunciare la
discriminatorietà del licenziamento,quella volta alla declaratoria del difetto
di giusta causa ovvero di ingiustificatezza del recesso datoriale, in quanto
fondate sul comune presupposto della vicenda estintiva del rapporto.

Tuttavia, in ossequio alla ragione più liquida,
considerava risolutiva ai fini dell’infondatezza delle pretese la piena
legittimità dell’adottato provvedimento sia sotto il profilo della
discriminatorietà, già esaminato dal primo giudice, sia sotto quello della
sussistenza della giusta causa.

Quanto al primo aspetto, rilevava che, a fronte di
una specifica e argomentata motivazione sul punto del licenziamento
discriminatorio svolta dal primo giudice, il reclamante non avesse formulato
alcuna critica che potesse confutare e contrastare le ragioni addotte dal
Tribunale, limitandosi a riproporre i medesimi argomenti, motivatamente
disattesi dal primo.

In ogni caso, evidenziava l’errore del reclamante
nell’aver ritenuto che la pretesa disparità di trattamento consumata ai suoi
danni dal datore di lavoro (che non aveva adottato analogo provvedimento nei
confronti di altro collega, D.S., pure coinvolto nel medesimo episodio) potesse
ricondursi al principio di discriminazione.

Quanto al secondo aspetto, riteneva che dalle
acquisizioni processuali fossero emersi elementi ampiamente idonei a dimostrare
che la condotta posta in essere dal reclamante fosse così grave da ledere
irreparabilmente il vincolo fiduciario e da giustificare ai sensi dell’art.
2119 cod. civ. il recesso intimatogli.

Precisava che la dinamica di verificazione del fatto
come oggetto di contestazione avesse trovato ampio supporto probatorio oltre
che nella linea difensiva tenuta dal reclamato – sostanzialmente improntata
alla non contestazione – anche nelle acquisizioni processuali e in particolare
nell’accertamento dei fatti contenuto nella sentenza del Giudice di Pace di
Catania, emessa all’esito del procedimento penale istaurato a carico del B.,
sentenza avverso la quale non era stata proposta impugnazione.

In particolare, assumeva che dal detto accertamento
fosse emerso che il B., dopo la animata discussione svoltasi all’interno del
posto di lavoro, si era messo alla guida della propria autovettura
all’inseguimento dell’altro dipendente (D.S.), che era già su strada a bordo
della propria auto; lo aveva costretto a fermarsi e quindi lo aveva ingiuriato
e minacciato colpendolo ripetutamente con pugni al torace e al viso.

Riteneva che il comportamento posto in essere dal
reclamante fosse palesemente inadempiente agli obblighi fondamentali che
accedono al rapporto di lavoro e si rivelasse indiscutibilmente contrario agli
interessi del datore di lavoro per il ‘disvalore ambientale’ che lo stesso
aveva causato così da ledere gravemente e irreparabilmente, il vincolo
fiduciario e da configurare il licenziamento come sanzione adeguata ai sensi
dell’art. 2106 cod. civ., giudìzio questo che permane in capo al giudice anche
nel caso di sanzioni disciplinare previste dagli accordi collettivi o da atti
equiparati (e così, nello specifico, dalle Conditions of Employment for local
Na. Employes of thè U.S. Armed
Forces in Italy).

Aggiungeva che non si sarebbe potuti pervenire ad
una diversa valutazione in ordine alla gravità della condotta ascritta al B.
considerando che l’episodio (aggressione) era avvenuto al di fuori del luogo,
delle mansioni e dell’orario di lavoro.

Escludeva che potesse aver avuto efficacia discriminante,
in ordine al giudizio di gravità ai sensi dell’art. 2119 cod. civ. della
condotta,l’assunto difensivo del B. secondo il quale la modalità di esecuzione
della prestazione lavorativa seguita dal dipendente coinvolto nell’episodio e
oggetto della reazione comportamentale del primo che “avrebbe causato
empasse sull’inventario e importante danno alla produttività”, trattandosi
di fatto non riscontrato dal datore di lavoro.

3. Per la cassazione della sentenza M.B. ha proposto
ricorso con cinque motivi.

4. Gli Stati Uniti d’America hanno resistito con
controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia
violazione degli artt. 342 e 434 cod. proc. civ. (art. 360, n. 4, cod. proc. civ.).

Censura la sentenza impugnata laddove ha dichiarato
inammissibile il secondo motivo di reclamo con riferimento alla dedotta natura
discriminatoria del licenziamento per violazione del principio di specificità
di cui alle norme denunciate.

2. Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale ha riportato testualmente la
censura del reclamante ed ha evidenziato che quest’ultimo si era limitato
genericamente a dedurre di “aver esposto con dovizia di particolari gli
elementi di fatto e le indicazioni probatorie sulla base dei quali il giudice
avrebbe dovuto compiere l’attività istruttoria per accertare la natura
discriminatoria del licenziamento” senza supportare tale argomentazione
con alcun riferimento specifico nel grado di gravame ed ha ritenuto che tale
modo di procedere go| fosse in palese violazione del principio di specificità
posto in via generale dall’art. 342 cod. proc. civ. e nel rito del lavoro
dall’art. 434 c.p.c. la cui osservanza si impone tenuto conto della permanente
natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello.

Le suddette affermazioni, corrette in diritto (v.
Cass., Sez. Un. 16 novembre 2017, n. 27199; Cass. 30 maggio 2018, n. 13535),
non sono idoneamente contrastate dal ricorrente che non ha offerto alcun
concreto elemento per ritenere che già il giudice di prime cure avesse ignorato
le argomentazioni fattuali e giuridiche poste a sostegno della natura
discriminatoria del licenziamento dovendosi, al contrario evidenziare, che, per
quanto si evince dalla sentenza impugnata, il Tribunale aveva fornito una
‘specifica e argomentata motivazione sul punto del licenziamento
discriminatorio’ e che il reclamante si era limitato a ‘riproporre i medesimi
argomenti motivatamente disattesi dal primo’.

Il ricorrente, invero, trascrive solo una parte
della motivazione della decisione del Tribunale (v. pag. 8 del ricorso) ma già
da questa si evince che il nucleo centrale di tale decisione era stato che la
deduzione relativa al carattere discriminatorio del licenziamento fosse del
tutto generica, basata solo sul trattamento differente riservato all’altro
collega coinvolto nella medesima vicenda. Rispetto a tale passaggio
argomentativo (valorizzato anche dai giudici del reclamo) il B. oppone di aver
articolato mezzi istruttori non presi in considerazione tanto dal primo giudice
quanto dalla Corte territoriale ma ciò non scardina l’affermata genericità
della deduzione, in quanto non supportata da circostanze specifiche da cui
desumere la lamentata natura discriminatoria dell’adottato provvedimento.

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia
nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ..

Censura la sentenza impugnata per l’omessa pronuncia
in ordine alle istanze istruttorie.

4. Il motivo è inammissibile.

Il vizio di omessa pronuncia che determina la
nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., rilevante
ai fini di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., si configura
esclusivamente con riferimento a domande attinenti al merito e non anche in
relazione ad istanze istruttorie per le quali l’omissione è denunciabile
soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione ove ne siano prospettati
ritualmente gli estremi (v. Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2001, n. 15982; Cass.
18 marzo 2013, n. 6715; Cass. 5 luglio 2016, n. 13716; Cass. 20 ottobre 2017,
n. 24830).

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omesso
esame di un fatto decisivo.

Critica la sentenza impugnata per aver ritenuto di
dover preliminarmente accertare la legittimità del licenziamento senza svolgere
alcuna attività istruttoria come invece richiesto dal B..

6. Il motivo è inammissibile.

La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai
consolidata (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass., Sez. Un., 18
aprile 2018, n. 9558; Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679)
nell’affermare che: il novellato testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. ha
introdotto nell’ordmamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un
fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di
elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto
decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in
considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le
risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento
delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio
rilevante ai sensi della predetta norma; nel giudizio di legittimità è
denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 10 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione
in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a
prescindere dal confronto con le risultanze processuali: tale anomalia si
esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e
grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
sufficienza della motivazione.

Orbene, un vizio di tal fatta non è rinvenibile
nella sentenza impugnata che, come evidenziato nello storico di lite, ha dato
conto, in modo chiaro e logico, dell’esito dell’esame della questione della
legittimità del licenziamento “secondo il reclamante non assistito da
giusta causa e comunque censurabile sotto il profilo della
proporzionalità”.

Né rileva che la suddetta questione non sia stata
affrontata dal giudice di prime cure risultando, come detto, posta in sede di
reclamo dallo stesso B..

Quanto alla omessa valutazione di circostanze
allegate dal lavoratore già in primo grado e reiterate in sede di reclamo, il
motivo, come detto, è fuori del perimetro dell’attuale art. 360, n. 5, cod.
proc. civ..

7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la
nullità sentenza in relazione agli artt. 116 e 132, comma 2, cod. proc. civ. ed
all’art. 118, comma 1, disp. att. cod. proc. civ..

Censura la sentenza impugnata per non aver descritto
il processo cognitivo attraverso il quale è giunta alle conclusioni finali, per
aver erroneamente ritenuto la fondatezza della prospettata sussistenza dei
fatti sulla scorta di ‘dichiarazioni di impegno’ rese da soggetti in assenza di
qualsiasi forma di contraddittorio, senza fornire congrua motivazione in merito
alla non idoneità della prova testimoniale proposta dal lavoratore.

8. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha offerto una congrua
spiegazione delle ragioni che l’hanno portata al giudizio finale circa la
legittimità dell’adottato provvedimento espulsivo e ciò ha fatto traendo spunto
sia dalle stesse argomentazioni difensive del B. da cui ha valutato di evincere
che la condotta contestata non era mai stata contestata dallo stesso nella sua
oggettività (avendo egli sempre affermato che il diverbio con colluttazione
fisica avuto con l’altro dipendente era comunque avvenuto fuori dal luogo di
lavoro, con ciò implicitamente ammettendo di aver posto in essere la condotta
offensiva ascrittagli) sia dalla circostanza che la dinamica di verificazione
del fatto aveva trova ampio supporto probatorio nelle acquisizioni processuali
e in particolare nella sentenza del Giudice di Pace di Catania emessa il 3
agosto 2016 all’esito del procedimento penale istaurato a carico del B. per il
reato di cui all’art. 594 cod. pen. – nel frattempo depenalizzato – e quello di
lesioni di cui all’art. 582 cod. pen. per il quale era stato condannato anche
al risarcimento danni nei confronti della parte civile, ovverosia nei confronti
dell’altro dipendente coinvolto nella vicenda, sentenza avverso la quale non
era stata proposta impugnazione.

Inoltre i giudici del reclamo hanno valorizzato le
dichiarazioni rese dalla persona offesa ed hanno ritenuto che le stesse fossero
risultate riscontrate dalle deposizioni rese in sede di sommarie informazioni
da altri colleghi di lavoro che le avevano reiterate in giudizio seppur
mediante ‘dichiarazioni di impegno’, ritenute utilizzabili ai sensi dell ‘art.
116 cod. proc. civ. in quanto del tutto coincidenti con quelle dagli stessi già
riscontrate dal Giudice di pace nella richiamata decisione di condanna.

E’, del resto, principio da tempo consolidato quello
secondo il quale la valutazione delle prove, e con essa il controllo sulla loro
attendibilità e concludenza, e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie,
di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, sono
rimesse al giudice del merito e sono sindacabili in cassazione solo sotto il
profilo della adeguata e congrua motivazione che sostiene la scelta
nell’attribuire valore probatorio ad un elemento emergente dall’istruttoria
piuttosto che ad un altro. In particolare, ai fini di una corretta decisione
adeguatamente motivata, il giudice non è tenuto a dare conto in motivazione del
fatto di aver valutato analiticamente tutte le risultanze processuali, né a
confutare ogni singola argomentazione prospettata dalle parti, essendo, invece,
sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli
elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter logico seguito
nella valutazione degli stessi per giungere alle proprie conclusioni,
implicitamente disattendendo quelli morfologicamente incompatibili con la
decisione adottata. In tema di valutazione delle prove, difatti, nel nostro
ordinamento, fondato sul principio del libero convincimento del giudice, non
esiste una gerarchia delle prove stesse, nel senso che (fuori dai casi di prova
legale) esse, anche se a carattere indiziario, sono tutte liberamente
valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo
convincimento (v. ex multis Cass. 28 giugno 2006, n. 14972; Cass. 18 aprile
2007, n. 9245; Cass. 12 settembre 2011, n. 18644).

9. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia
omesso esame circa un fatto decisivo in relazione alla violazione di commi
secondo e terzo dell’art. 7 della I. 300/1970.

Critica la sentenza impugnata per aver omesso di
motivare sulla contestata violazione di talune norme poste a presidio del
diritto di difesa in ambito di licenziamento (e così, oltre che delle
specifiche norme dello Statuto dei lavoratori anche di quelle delle Condizioni
di impiego per il personale civile non statunitense delle Forze Armate U.S.A.
in Italia del 2006: art. 30, comma 3, dell’Allegato 6, punto 9, art. 33 lett.
A).

10. Il motivo è inammissibile per plurime
concorrenti ragioni.

Non è trascritto il testo delle Condizioni di
impiego cui si fa riferimento, in violazione del principio di specificità del
ricorso né è indicato ove tali Condizioni siano rinvenibili nei fascicoli
d’ufficio o di parte.

Neppure è evidenziato quando ed in quali termini la
relativa questione sia stata sottoposta, ab initio, al giudice del merito, in
violazione dell’art. 366 n. 3 cod. proc. civ. né si evince se sulla stessa vi
sia stata una qualche pronuncia da parte del Tribunale in prime cure.

Il motivo, poi, non si confronta con il passaggio
argomentativo della sentenza impugnata secondo il quale “deve quindi
ritenersi senz’altro legittimamente irrogato l’impugnato licenziamento per giusta
causa, non essendo ravvisabili altri vizi di legittimità in riferimento alla
procedura che ha condotto all’applicazione della contestata sanzione, non
foss’altro che il lavoratore è stato sempre posto in grado di difendersi
adeguatamente dalla contestazione degli addebiti oppostagli”, risultando
del tutto generico il riferimento ad un iter disciplinare “posto in essere
in violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione”.

11. Il ricorso deve, dunque, essere respinto.

12. La regolamentazione delle spese segue la
soccombenza.

13. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del
d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla I. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto,
ai fini e per gli effetti precisati da Cass., Sez. Un., 20 febbraio 2020, n.
4315, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il
raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di
legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per
compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura
del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma
del comma 1-bis, dello stesso art. 13, ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 luglio 2021, n. 21356
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