Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 agosto 2021, n. 22880

Rapporto di lavoro, Accordo di risoluzione consensuale,
Anzianità di servizio, Posizione contributiva

 

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Potenza, in riforma della
sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto il ricorso, ha
rigettato la domanda di risarcimento del danno proposta da F.R. nei confronti
dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, quale successore a titolo
universale dell’IPOST.

2. La Corte territoriale ha premesso che
l’appellato, dipendente di P.I. s.p.a., aveva sottoscritto il 23 marzo 2009 un
accordo per l’esodo volontario anticipato con decorrenza dal 1° gennaio 2010.
Successivamente, con nota dell’8 luglio 2010, l’IPOST gli aveva comunicato di essere
incorso in errore nei conteggi e gli aveva richiesto il pagamento di un
ulteriore importo a titolo di contribuzione volontaria, rappresentando,
altresì, che l’erogazione del trattamento pensionistico sarebbe avvenuta solo a
partire dal 1° gennaio 2011.

3. Il giudice d’appello, per quel che rileva in
questa sede, non ha condiviso le conclusioni alle quali era pervenuto il primo
giudice quanto al nesso causale fra l’inadempimento dell’ente previdenziale ed
il pregiudizio asseritamente subito ed ha rilevato che nell’accordo di
risoluzione consensuale il R., pur dichiarando di aver assunto informazioni
presso l’IPOST quanto alla complessiva anzianità di servizio maturata, aveva
aggiunto che la posizione contributiva non assumeva alcuna rilevanza ai fini della
risoluzione e non costituiva una condizione essenziale per quest’ultima.

4. La Corte territoriale ha evidenziato che il
lavoratore non aveva provato di avere ricevuto dall’ente previdenziale una
comunicazione attestante i dati poi rivelatisi errati, sicché l’INPS non poteva
essere chiamato a rispondere del danno asseritamente derivato dalla violazione
dell’obbligo di corretta informazione previsto dall’art. 54 della legge n. 88/1989.

In ogni caso la dichiarazione contenuta nell’accordo
portava ad escludere che l’adesione all’esodo incentivato fosse avvenuta a
prescindere dal monte contributivo sino ad allora raggiunto.

5. Per la cassazione della sentenza F.R. ha proposto
ricorso sulla base di quattro motivi, ai quali l’Inps ha replicato con
tempestivo controricorso. È rimasta intimata P.I. s.p.a., alla quale il ricorso
è stato notificato sebbene la stessa non fosse stata parte del giudizio
d’appello.

La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma 8 bis del d.l. n.
137/2020, convertito in legge n. 176/2020,
per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 342 cod. proc. civ. e sostiene che l’appello
dell’Istituto previdenziale doveva essere dichiarato inammissibile perché privo
dei requisiti richiesti dalla disposizione processuale richiamata in rubrica,
come modificata dall’art. 54 del
d.l. n. 83/2012.

2. La seconda censura, formulata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla
sentenza gravata la violazione degli artt. 101
e 115 cod. proc. civ. perché, contrariamente a
quanto ritenuto dalla Corte territoriale, il documento con il quale l’IPOST, in
data antecedente la conclusione dell’accordo, aveva certificato la complessiva
anzianità contributiva era stato prodotto nel giudizio di primo grado e non era
stato contestato dall’Inps che, anzi, quel documento aveva richiamato nella
memoria difensiva e nell’atto d’appello.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 101 cod. proc. civ. e sostiene che il giudice
d’appello avrebbe dovuto provocare il contraddittorio sull’asserita mancanza
della comunicazione inoltrata dall’Istituto previdenziale.

4. Analoga rubrica è anteposta alla quarta censura
con la quale si addebita alla Corte territoriale di non avere sollecitato le
parti a discutere sull’interpretazione dell’accordo di risoluzione consensuale,
accordo che, tra l’altro, non poteva essere valorizzato per respingere la
domanda di risarcimento del danno formulata nei confronti dell’Inps, che era
rimasto estraneo allo stesso.

5. Il primo motivo è inammissibile perché formulato
senza il necessario rispetto dell’onere di specifica indicazione di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ..

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo,
rispetto al quale la Corte è giudice del «fatto processuale», l’esercizio del
potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole
di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla
derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice
di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).

La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di
indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato
e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il
rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perché la Corte di
Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in
condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere
solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. S.U. n.
20181/2019; Cass. n. 20924/2019; Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010).

Dal principio di diritto discende che, qualora, come
nella fattispecie, il ricorrente assuma che l’appello doveva essere dichiarato
inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di
impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano
riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di
primo grado e l’atto di appello (Cass. n. 29495/2020).

Non è, invece, sufficiente che il ricorrente assolva
al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod. proc. civ., indicando la sede
nella quale l’atto processuale è reperibile, perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del d.lgs. n. 40 del 2006,
richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi
necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità
di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere
l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai
fini dell’accoglimento del ricorso (Cass. 28.9.2016 n. 19048).

6. Parimenti inammissibile è il secondo motivo, che
si incentra sulla comunicazione IPOST del 14 giugno 2007, richiamata ma non
trascritta nelle parti essenziali, perché i principi ribaditi nel punto che
precede a maggior ragione valgono per la produzione documentale, in relazione
alla quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno osservato che «sono
inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma
1, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di
merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti,
senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali
indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza
dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta
presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero
ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di
parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità»
(Cass. S.U. n. 34469/2019).

6.1. Si aggiunga che la censura, sotto l’apparente
deduzione del vizio di violazione degli artt. 101
e 115 cod. proc. civ., sollecita una
valutazione sul contenuto delle prove offerte dall’originario ricorrente e
sulla condotta processuale tenuta dall’ente convenuto, valutazione che esula
dai limiti e dalla funzione del giudizio di legittimità.

Occorre qui ribadire che «spetta al giudice del
merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato,
l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti
rilevanti, allegati dalla controparte» (Cass. n. 3680/2019 e negli stessi
termini Cass. n. 27490/2019). Va, poi, rimarcato che l’omesso esame di un
documento, ossia di una risultanza istruttoria, non può essere denunciato nel
giudizio di legittimità ove sul fatto storico il giudice abbia comunque
pronunciato, perché in tal caso la censura si risolve nella denuncia di un
errato esercizio di apprezzamento delle prove non legali, che «non dà luogo ad
alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo
inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1,
n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico,
principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o
dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e
presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4,
disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n.
4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta
in violazione di legge costituzionalmente rilevante» (Cass. n. 11892/2016 e
negli stessi termini Cass. n. 23153/2018).

7. Il terzo ed il quarto motivo, che denunciano la
violazione dell’art. 101, comma 2, cod. proc. civ.,
sono infondati perché l’obbligo di provocare il contraddittorio sulla questione
rilevata d’ufficio si riferisce solo alle questioni di fatto, o di diritto
misto a fatto, suscettibili di dar luogo ad uno sviluppo processuale in quanto
richiedono prove dal contenuto diverso rispetto a quelle richieste dalle parti,
sicché detto obbligo non può certo essere ravvisato in relazione alla
valutazione del materiale probatorio già acquisito, espressa con riferimento al
thema decidendum indicato dalle parti (Cass. n. 10353/2016; Cass. n.
16504/2017).

L’assunto del ricorrente, secondo cui il giudice
sarebbe tenuto a provocare il contraddittorio ogniqualvolta intendesse fondare
la decisione su un’argomentazione diversa da quella prospettata dalle parti,
non considera che il principio di cui all’art. 101
cod. proc. civ. va coordinato con le disposizioni del codice di rito che
disciplinano i poteri del giudice e che riservano a quest’ultimo, nel rispetto
del limite posto dall’art. 112 cod. proc. civ.,
la qualificazione giuridica dei fatti e la valutazione delle prove addotte
dalle parti.

8. Il quarto motivo, lì dove sostiene che l’accordo
del 23 marzo 2009 non poteva produrre alcun effetto nei confronti dell’INPS,
rimasto estraneo allo stesso, è inammissibile perché non coglie la ratio
decidendi della pronuncia gravata.

La Corte territoriale, infatti, non ha preteso di
estendere all’INPS l’efficacia di un contratto intercorso fra altri soggetti,
bensì ha valutato il contenuto dell’accordo in questione al solo fine di
escludere il necessario nesso causale fra l’errore commesso dall’Istituto ed il
pregiudizio che il ricorrente assumeva di avere sofferto in conseguenza di
quell’errore.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata
nell’affermare che nel giudizio di cassazione, a critica vincolata, i motivi
devono avere i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla
decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di
pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo
intelligibile ed esauriente le ragioni per le quali quel capo è affetto dal
vizio denunciato. Se ne è tratta la conseguenza che la proposizione di censure
prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile
alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art.
366 n. 4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità, in tutto o in
parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n.
20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n.
14385/2007).

8. In via conclusiva il ricorso deve essere
rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n.
228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U.
n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge
per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in € 200,00 per
esborsi ed € 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese
generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 agosto 2021, n. 22880
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