Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 agosto 2021, n. 23531

Ripetizione di somme pagate al dipendente a seguito di riforma
della sentenza, Restituzione delle somme effettivamente percepite dal
lavoratore, al netto delle ritenute fiscali, Legittimità

 

Rilevato che

 

1. la Corte d’Appello di Roma ha parzialmente
accolto l’appello di C.I. e, in parziale riforma della pronuncia di primo
grado, ha condannato il predetto a restituire a R.F.I. spa la somma di euro
48.162,01, detratte le ritenute fiscali, oltre accessori come per legge.

2. La Corte territoriale, uniformandosi ai
precedenti di legittimità richiamati (Cass. n.
19735 del 2018; n. 2135 del 2018), ha
ritenuto che, in caso di riforma della sentenza di condanna del datore di
lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore ha diritto di
ripetere solo le somme effettivamente percepite dal lavoratore e non può
pretendere la restituzione di importi al lordo, mai entrati nella sfera
patrimoniale del dipendente.

3. Avverso tale sentenza R.F.I.na spa ha proposto
ricorso per cassazione, affidato a due motivi, illustrati da memoria; in
subordine, ha chiesto che fosse sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 38,
comma 1, DPR 602/1973 e che il ricorso fosse trasmesso al Primo Presidente
per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., sul rilievo del
contrasto esistente tra le pronunce delle Sezioni semplici sulla questione di
diritto oggetto di causa; C.I. ha resistito con controricorso.

4. La proposta del relatore è stata comunicata alle
parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi
dell’art. 380 bis c.p.c..

 

Considerato che

 

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.,
violazione o falsa applicazione dell’art. 2033 cod.
civ. e dell’art. 336 cod. proc. civ..

6. Si sostiene che la fattispecie della restituzione
di somme pagate in esecuzione di una sentenza successivamente riformata o
cassata sia disciplinata dall’art. 336 cod. proc.
civ. e non possa essere ricondotta all’istituto della condictio indebiti di
cui all’art. 2033 cod. civ., come affermato con
orientamento consolidato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 16559
del 2005; n. 21992 del 2007; n. 8829 del 2007; n.
25589 del 2010); con la conseguenza che deve riconoscersi all’interessato
il diritto di essere reintegrato dall’accipiens dell’intera diminuzione
patrimoniale subita, con computo degli interessi dal giorno del pagamento, e
non della domanda (così Cass. 25589 del 2010
cit: n. 9171 del 2018); e quindi anche della somma erogata al lordo, a
prescindere dalla circostanza che una quota del relativo importo sia stata
materialmente versata all’Erario, in adempimento di un obbligo di legge (così Cass. n. 23989 del 2014).

7. Si rileva come siano non pertinenti i richiami
fatti nella sentenza della S.C. n. 19735 del 2018, posta a base della decisione
impugnata, ai precedenti Cass. n. 1464 del 2012 e Cons.
St. n. 1164 del 2009, in quanto relativi al differente caso del datore di
lavoro che, per suo errore, corrisponda al dipendente una retribuzione maggiore
del dovuto, operando quindi una trattenuta fiscale in eccesso.

8. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia
violazione o falsa applicazione dell’art. 38, comma 1, d.P.R. n.
602/73 e dell’art. 10, comma 1,
lett. d -bis del d.P.R. n. 917/86, per avere la sentenza d’appello
falsamente ritenuto applicabile alla fattispecie oggetto di causa l’art. 38 cit. anziché l’art. 10 cit..

9. Ciò sul rilievo che l’art. 38 cit. disciplini
l’ipotesi in cui un soggetto abbia eseguito per errore un versamento diretto
all’Amministrazione finanziaria, riconoscendo al predetto di presentare istanza
di rimborso, entro un termine di decadenza (48 mesi dal pagamento); laddove nel
caso di specie non vi è alcun errore imputabile alla parte datoriale che aveva
l’obbligo di versamento quale sostituto d’imposta.

10. Si evidenzia che il citato art. 10, comma 1, lett. d-bis del
d.P.R. n. 917/86 ha stabilito per il contribuente lavoratore la possibilità
di dedurre fiscalmente dal proprio reddito le somme restituite al soggetto
erogatore e che, in alternativa, il contribuente può chiedere il rimborso
dell’imposta corrispondente all’importo non dedotto, secondo modalità definite
con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.

11. Si sottolinea che, secondo un orientamento della
Sezione tributaria di questa Corte (Cass. n. 23886
del 2007), il debitore principale verso il fisco è il percettore del
reddito imponibile e non il sostituto che esegua la ritenuta ed il successivo
versamento, onde è al medesimo debitore principale che compete il diritto di
ripetere quanto eventualmente pagato in eccesso.

12. I motivi di ricorso, da trattare congiuntamente
in quanto logicamente connessi, sono infondati.

13. Numerosi precedenti di questa Corte (Cass. n. 19735 del 2018; n. 2135 del 2018; 12933 del 2018; 31503 del 2018;
n. 440 del 2019; n. 13530 del 2019; n. 5890
del 2020; n. 10533 del 2020; Sez. VI n. 8614 del 2019; n. 17271 del 2020; n.
18996 del 2020; n. 21622 del 2020), con argomentazioni che questo Collegio
condivide pienamente, hanno affermato che, in caso di riforma, totale o
parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme
in favore del lavoratore, il datore ha diritto di ripetere quanto il lavoratore
abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di
importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del
dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto ex tunc del l’obbligo
fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade nel raggio
di applicazione dell’art. 38,
comma 1, del D.P.R, n. 602 del 1973, secondo cui il diritto al rimborso
fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale
a colui che ha eseguito il versamento non solo nelle ipotesi di errore
materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale
dell’obbligo.

14. E’ vero, infatti, che il versamento eseguito dal
datore di lavoro quale sostituto d’imposta, in base ad una sentenza
provvisoriamente esecutiva, non è frutto di errore ma è anzi atto dovuto. Tale
versamento, tuttavia, diviene erroneo in conseguenza e a causa della riforma o
della cassazione di quella sentenza, venendo meno ex lune e definitivamente il
titolo in base al quale il pagamento era stato effettuato. Ne consegue che quel
versamento risulta ex tunc privo di titolo, quindi eseguito a fronte di un
obbligo inesistente (rectius, non più esistente), secondo quanto previsto dall’art. 38 cit..

15. L’interpretazione data da questa S.C., oltre che
compatibile col disposto dell’art.
38 cit., è quella più aderente alle peculiarità del rapporto di lavoro
subordinato, dovendosi ribadire che, a prescindere dai rimedi esperibili dal
lavoratore contribuente nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il
solvens (datore) non può ripetere dal lavoratore accipiens più di quanto
quest’ultimo abbia effettivamente percepito e, in particolare, non può esigere
dal lavoratore quanto versato nella veste di sostituto di imposta all’erario,
sia pure in esecuzione di sentenza provvisoriamente esecutiva come tale
suscettibile di riforma o cassazione nell’ambito degli ordinari mezzi di
impugnazione.

16. La lettura condivisa da questo Collegio non si
pone in contrasto con l’art. 336 cod.poc.civ.
(secondo cui “la riforma o la cassazione estende i suoi effetti ai
provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”)
in quanto non è in discussione il diritto del datore di lavoro alla restitutio
in integrum, ma unicamente la procedura da seguire al fine di porre la parte
adempiente nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza, e ciò in
ragione della divaricazione del versamento eseguito in favore del lavoratore e
in favore del fisco.

17. Argomenti contrari alla tesi qui esposta non
possono ricavarsi neanche dalla modifica dell’art. 10 del D.P.R. n. 917 del 1986,
ad opera dell’art. 150, comma 1,
del d.l. n. 34 del 2020, conv. in I. 77 del
2020, invocato dalla società ricorrente nella memoria depositata ai sensi
dell’art. 380 bis cod. proc. civ.. L’art. 150 cit. ha aggiunto il
comma 2 bis all’art. 10 del D.P.R.
n. 917 del 1986 stabilendo: “le somme di cui alla lettera d-bis del
comma 1, se assoggettate a ritenuta, sono restituite al netto della ritenuta
subita e non costituiscono oneri deducibili”.

18. A prescindere dalla inapplicabilita di tale
modifica alla fattispecie oggetto di causa (in quanto, in base al comma 3 dell’art. 150 cit. “le
disposizioni di cui al comma 1 si applicano alle somme restituite dal 1 gennaio
2020”), la previsione dell’obbligo di restituzione al netto delle somme
ricevute dal lavoratore positivizza l’indirizzo giurisprudenziale assolutamente
prevalente e non consente di inferire la correttezza della diversa
interpretazione patrocinata dall’attuale parte ricorrente.

19. Deve poi sottolinearsi come le pronunce invocate
dalla ricorrente (Cass. n. 9171 del 2018; n. 25589
del 2010; n. 14178 del 2009; n. 8829 del 2007; n. 21992 del 2007; n. 16559
del 2005) a sostegno di un contrasto tra le decisioni delle diverse Sezioni di
questa Corte, non affrontano la specifica questione di diritto oggetto di
causa, bensì unicamente il tema della decorrenza degli interessi legali (dal
giorno del pagamento e non da quello della domanda) in caso di azione di
ripetizione di somme pagate in esecuzione della sentenza provvisoriamente
esecutiva, successivamente riformata o cassata.

20. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, D.P.R. n. 602 del 1973,
prospettata in relazione al dies a quo del termine decadenziale di 48 mesi, ove
ritenuto decorrente dalla data del versamento anziché dalla data della riforma
della sentenza che con effetto ex tunc sancisce l’inesistenza dell’obbligo di
versamento (in tal senso v. Cass. n. 15427 del
2015, in motiv.), non appare rilevante ai fini della decisione di questa
causa, potendo se mai assumere rilievo ove alla richiesta di rimborso avanzata
dal datore di lavoro all’erario sia opposta la citata decadenza.

21. Per le considerazioni svolte, il ricorso deve
essere respinto.

22. Le spese del giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

23. Si dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13,
comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24
dicembre 2012 n. 228.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di legittimità che liquida in euro 3.500,00 per compensi
professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella
misura del 15% ed accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. R.L.,
antistatario.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il
ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13, se dovuto.

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