Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2021, n. 23824

Accertamento di un rapporto di lavoro subordinato,
Licenziamento, Illegittimità, Pagamento di somme retributive adeguate ai
minimi contrattuali

Rilevato che

 

– con sentenza in data 21 aprile 2017, la Corte
d’Appello di Salerno, respingendo l’appello principale e reputando assorbito
quello incidentale, ha confermato la decisione del locale Tribunale che aveva
rigettato il ricorso proposto da G.G. nei confronti di A.C., titolare della
ditta individuale L. U., volto a conseguire l’accertamento di un rapporto di
lavoro subordinato a decorrere dall’1 febbraio 2005, data in cui era stato
assunto con contratto a progetto, la declaratoria di illegittimità del
licenziamento intimatogli il 24 gennaio 2007 e la conseguente condanna del
resistente alla riassunzione oltre che al pagamento di somme retributive
adeguate ai minimi contrattuali, previo riconoscimento dell’attribuzione di
mansioni corrispondenti al III livello del CCNL di categoria;

– in particolare, dalla lettura della pronunzia di
secondo grado, si evince che la stessa, sulla base delle risultanze probatorie,
ha ritenuto non configurabile un rapporto di lavoro subordinato fra le parti
nel periodo considerato dopo la conclusione del contratto di lavoro a progetto,
e insussistente la qualifica superiore richiesta;

– per la cassazione della pronunzia propone ricorso
G.G., assistito da memoria, affidandolo a quattro motivi;

– resiste, con controricorso, A.C.

 

Considerato che

 

– con il primo motivo di ricorso si deduce la
violazione dell’art. 2094 cod. civ., del d.lgs. n. 276 del 2003, degli artt. 61, 62, 69 e 3 della legge n. 604 del 1966,
allegandosi avere la Corte erroneamente attribuito valore sostanziale al
“nomen juris” del contratto a progetto;

– con il secondo motivo si censura la decisione
impugnata per violazione dell’art. 360 comma 1, n.
5 cod. proc. civ., in relazione alle allegazioni da cui avrebbe potuto
evincersi la natura subordinata del rapporto di lavoro;

– con il terzo motivo si deduce la violazione e
falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ. e
del CCNL del settore terziario distribuzione e servizi per non essere stato
riconosciuto il III livello di inquadramento in relazione alle mansioni svolte;

– con il quarto motivo si allega la violazione degli
artt. 112 e 345
cod. proc. civ., per aver la Corte territoriale erroneamente ritenuto che
non rientrasse nel petitum del ricorso di primo grado il riconoscimento del
rapporto di lavoro subordinato in relazione all’epoca antecedente all’ottobre
2000 (periodo c.d. “in nero”);

– il primo, il secondo e il terzo motivo, da
esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, non possono trovare
accoglimento;

– la lettura della motivazione del giudice di
secondo grado consente di rilevare, infatti, come lo stesso abbia correttamente
ricostruito la vicenda sulla base delle risultanze probatorie acquisite,
attribuendo al nomen juris utilizzato dalle parti esclusivamente il valore di
indizio confermativo; in particolare, la Corte territoriale ha esaminato la
prova testimoniale assunta, in relazione alla modalità di espletamento della
prestazione lavorativa ed ai documenti prodotti oltre che al contenuto del
contratto;

– d’altro canto, secondo quanto statuito
recentissimamente dalle Sezioni Unite, per dedurre la violazione delle
disposizioni normative che presiedono al procedimento probatorio, occorre che
il giudice abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle
parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli
(salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di
ricorrere al notorio) essendo inammissibile la diversa doglianza che egli, nel
valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di
convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del
20/09/2020);

inoltre, non può allegarsi sic et simpliciter una
erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito,
ma solo allegarsi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non
dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali,
o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle
prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli
senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione
(cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014
n. 13960, con riguardo, segnatamente, all’art.
116 cod. proc. civ.);

con riguardo, peraltro, alla denunziata omessa
motivazione su un punto decisivo della controversia, oggetto di discussione fra
le parti, relativamente agli elementi da cui avrebbe potuto evincersi la
sussistenza di una fattispecie di lavoro subordinato (v. c.d.
“rapportini” sulle singole prestazioni, predisposti dallo stesso
ricorrente) in ordine al secondo periodo lavorativo intercorso fra le parti, quello
appunto, formalmente ricondotto al rapporto di lavoro a progetto, va rilevato,
poi, che, in seguito alla riformulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 co 1, lett. b), del DL 22
giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, al di fuori
dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane
circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel
suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in
negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in
materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza
della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale;
motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione
perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano
la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di
validità (fra le altre, Cass. n. 23940 del 2017);

d’altro canto, il travisamento della prova, che
presuppone la constatazione di un errore di percezione o ricezione della prova
da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità
qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, non è
più deducibile a seguito della novella apportata all’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv. dalla l. n. 134 del 2012, che ha reso
inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della
motivazione, sicché “a fortiori” se ne deve escludere la
denunciabllità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la
preclusione di cui all’art. 348- ter, ultimo
comma (sul punto, fra le più recenti, Cass. n. 24395 del 2020);

tenuto conto, quindi, delle argomentazioni del
giudice di secondo grado, va escluso che questa Corte possa procedere ad una
nuova e diversa valutazione del compendio probatorio senza addivenire ad una
rivisitazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità;

il quarto motivo, con cui si censura la decisione
impugnata per violazione degli artt. 112 e 345 cod. proc. civ., non può trovare accoglimento;

è opportuno premettere, al riguardo, che perché
possa parlarsi di omessa pronuncia, secondo la giurisprudenza di legittimità
(Cfr., ex plurimis, fra le più recenti, Cass. n.
5730 del 2020) occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento
indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando
il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente
apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei
confronti di alcune parti; parte ricorrente, nella specie, lamenta la ritenuta
insussistenza, nel petitum dell’originaria domanda, dell’istanza inerente al
riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato anche in epoca antecedente
all’ottobre 2000 con le differenze retributive dal 1999 sino al 2003;

hanno precisato, al riguardo, le Sezioni Unite di
questa Corte (Cass. n. 34469 del 27/12/2019), non solo che sono inammissibili,
per violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c. p.
c., le censure afferenti a domande di cui non vi sia compiuta riproduzione
nel ricorso, ma anche quelle fondate su atti e documenti del giudizio di
merito, qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti,
senza riprodurli nei ricorso, ovvero, laddove riprodotti, senza fornire
puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione, con riferimento alla
sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come
pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame,
ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in
quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di
legittimità;

– d’altra parte, è consolidato il principio secondo
cui i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c. p. c., nn. 3, 4 e 6, devono
essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da
altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il
ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata
indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato,
producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si
dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e
in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone
il contenuto nel ricorso (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 13/11/2018);

– nel caso di specie, a fronte dell’accertamento
contenuto in sentenza, secondo cui nelle conclusioni dell’atto introduttivo
parte ricorrente avrebbe richiesto esclusivamente che venisse dichiarata la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a decorrere dall’1 febbraio
2005, nonché l’illegittimità del licenziamento con conseguente condanna al
pagamento delle differenze retributive, compreso il superiore inquadramento, si
rinviene, nel ricorso per cassazione, esclusivamente un riferimento a
differenze retributive ma nulla si allega con riguardo alle conclusioni
rassegnate, in relazione alle quali, quindi, non può che aversi riguardo a
quanto accertato dalla Corte territoriale;

-alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi,
il ricorso deve essere respinto;

– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come in dispositivo;

– sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 -bis dell’articolo 13 comma 1
quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite,
che liquida in complessivi euro 5250,00 per compensi e 200,00 per esborsi,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 -bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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