Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 settembre 2021, n. 23726

Licenziamento, Accertamento dell’epoca di inizio del rapporto
di lavoro, TFR, Onere probatorio

 

Rilevato che

 

– con sentenza in data 28 novembre 2017, la Corte
d’Appello di Catania, parzialmente riformando la decisione di primo grado
quanto alla data di inizio del rapporto di lavoro ed all’orario del medesimo,
ha condannato M.I. al pagamento in favore di D.D.G. della somma di euro
21.449,10, a titolo di differenze retributive per effetto dell’attività
lavorativa svolta dal dicembre 2006 al 14 giugno 2008;

– in particolare, la Corte, condividendo l’assunto
del primo giudice riguardo l’illegittimità del licenziamento, ha poi ritenuto
adeguatamente dimostrato, sulla base di un riesame delle risultanze probatorie,
lo svolgimento di attività lavorativa in data anteriore al settembre 2007,
nonché l’orario di lavoro, per le prestazioni semplici riconducibili al IV
livello, non reputando, invece, riconoscibile il superiore inquadramento richiesto;

– per la cassazione della pronunzia propone ricorso
M.I., affidandolo a sette motivi;

– resiste, con controricorso, D.D.G..

 

Considerato che

 

– con il primo motivo di ricorso, si censura la
decisione impugnata deducendosi la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2909 cod.
civ. nonché dell’art. 324 cod. proc. civ.
per violazione del giudicato;

– con il secondo motivo, si deduce la violazione e
falsa applicazione degli artt. 11, 414, 416, 420, 421, 426 e 437 cod. proc.
civ., con riguardo all’asserita tardività di produzione documentale;

– con il terzo motivo si allega la violazione e
falsa applicazione degli artt. 2697 e 2094 cod. civ., 115,
116, 11, 414, 416, 420, 421, 426, e 437 cod. proc.
civ. con riguardo alla data di inizio del rapporto di lavoro;

– con il quarto si deduce ancora la violazione degli
artt. 115 e 116
cod. proc. civ., nonché 2108 cod. civ., 3 d. Igs. n. 66 del 2003 e 2099 cod. civ. nonché 36
Cost. e si allega la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. relativamente
all’orario di lavoro;

– con il quinto motivo si allega l’omesso esame di
un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ.;

– con il sesto motivo si deduce la violazione degli artt. 2109 e 2697 cod.
civ., con riguardo alle ferie;

– con il settimo motivo si allega la violazione
degli artt. 91 e 92
cod. proc. civ.;

– il primo motivo, con cui si deduce la violazione
del giudicato è infondato e, quindi, non merita accoglimento;

– correttamente, infatti, la Corte territoriale ha
ritenuto non implicante alcuna violazione del giudicato l’intervenuto giudizio
circa la richiesta di TFR in ordine all’accertamento dell’epoca di inizio del
rapporto di lavoro nonché dell’orario dello stesso, trattandosi di giudizio che
trae origine da ricorso per decreto ingiuntivo concernente il periodo da
settembre 2007 a marzo 2008 quale provato dai documenti emessi dal datore di
lavoro ed avendo il lavoratore fatto espressa riserva di agire in altro
giudizio per chiedere il maggior credito in relazione al maggiore periodo di
lavoro e maggior numero di ore lavorative;

– non può applicarsi alla fattispecie, infatti, il
principio secondo cui, qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano fatto
riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito
con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla
situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto
relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la
premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo
della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso
punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio
abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il
“petitum” del primo (fra le altre, Cass. n. 1134 del 10/05/2018);

– d’altro canto, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4090 del 16/02/2017, hanno affermato
che domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, benché
relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere
proposte in separati processi, ma, ove le suddette pretese creditorie, oltre a
far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in
proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile
giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, – sì da non
poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di
attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza
dell’identica vicenda sostanziale – le relative domande possono essere
formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse
oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata;

– nel caso di specie, l’interesse ad una tutela
frazionata risulta evidente ove si consideri che il primo giudizio ha preso le
mosse da un ricorso per decreto ingiuntivo, con tutte le conseguenze in termini
di rapidità dell’accertamento che ne derivano e, d’altro canto, ben potendo
essere effettuato l’accertamento circa la mancata corresponsione del TFR
prescindendo dall’ulteriore esame concernente la subordinazione nel periodo
antecedente richiesto nel secondo giudizio;

– infondato deve ritenersi anche il secondo motivo
di ricorso, afferente alla tardiva produzione da parte del ricorrente della
patente di guida onde dimostrare che la stessa era stata conseguita agli inizi
del gennaio 2007: la piana lettura della motivazione della Corte territoriale
induce a ritenere del tutto irrilevante tale produzione nell’iter decisionale
del giudice di secondo grado, talchè deve reputarsi la parte come carente di
interesse in merito;

– il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo,
da esaminarsi congiuntamente per l’intima connessione, sono inammissibili;

– occorre preliminarmente evidenziare che, in
seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1,
n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 col, lett. b), del DL 22
giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la
impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di
motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per
il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la
conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di
legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del
requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale”
richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed
individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della
Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note
ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento
giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile
contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono
nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4),
c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del
prescritto requisito di validità ( fra le più tante, Cass. n. 23940 del 2017) e
nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di specie;

– quanto alla dedotta violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., va rilevato che, secondo
quanto statuito recentissimamente dalle Sezioni Unite, per dedurre tale
violazione, occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o
implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della
decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori
dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti
non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è
inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte
dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune
piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020), mentre, con riguardo
alla dedotta violazione dell’art. 116 cod. proc.
civ., va rilevato che una questione di violazione e falsa applicazione di
tale norma non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio
compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo
abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero
disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso,
valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero
abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento
critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass.
27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960);

– relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ., va rilevato che, per
consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Sez. III, n.
15107/2013) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da
quella norma e che tale ipotesi non ricorre senza dubbio nel caso di specie,
nel quale entrambi i giudici di merito hanno applicato correttamente la
ripartizione dell’onere probatorio;

– nel caso di specie, appare del tutto evidente come
parte ricorrente, pur veicolando le proprie censure con il richiamo a violazioni
di legge, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto ed in
particolare degli elementi probatori raccolti in tema di inizio dell’attività
lavorativa, orario di lavoro e ferie, giudizio del tutto inammissibile in sede
di legittimità;

– il settimo motivo è infondato e, pertanto, non può
essere accolto;

– parte ricorrente muove, infatti, le proprie
doglianze esclusivamente allo scopo di ottenere una diversa regolamentazione
delle spese, formulando istanze inammissibili in sede di legittimità, atteso
che, in tema di spese processuali, salvo il rispetto dei parametri minimi e
massimi – perfettamente attuato nella specie – la determinazione in concreto
del compenso per le prestazioni professionali di avvocato è rimessa
esclusivamente al prudente apprezzamento del giudice di merito (sul punto, V.
fra le più recenti, Cass. n. 4782 del 20 febbraio 2020);

– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi,
il ricorso deve essere respinto;

– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate
come in dispositivo;

– sussistono i presupposti processuali per il
versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 -bis dell’articolo 13 comma 1
quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente
alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite,
che liquida in complessivi euro 3000,00 per compensi e 200,00 per esborsi,
oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n.
115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.
1 – bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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