Non è sufficiente, al fine di giustificare la dequalificazione di una lavoratrice, la generica deduzione di una riorganizzazione aziendale.

Nota a Cass. (ord.) 15 luglio 2021, n. 20253

Alfonso Tagliamonte

La generica deduzione di una ragione riorganizzativa non basta a giustificare il demansionamento del prestatore, in quanto, qualora “il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provarne l’esatto adempimento o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova della sua giustificazione: a) per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari …, dimostrando l’inesistenza, all’interno del compendio aziendale, di altro posto di lavoro disponibile, equiparabile al grado di professionalità in precedenza raggiunto dal lavoratore” – v. Cass. n. 26477/2018; b) ovvero, per l’impossibilità della prestazione derivante da una causa a sé non imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. (v. Cass. n. 4211/2016).

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (ord.) 15 luglio 2021, n, 20253 (conforme ad App. Venezia 24 giugno 2017), secondo la quale la Corte di merito ha correttamente accertato la natura delle mansioni concretamente svolte dalla dipendente prima e dopo la sua assenza per maternità (demansionamento tratto “in via presuntiva dalla privazione dei compiti di responsabilità e coordinamento del personale di cui la ricorrente era titolare prima dell’assenza dal servizio per maternità”) ai fini del suo inquadramento nella superiore qualifica richiesta, sulla base del necessario procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato attraverso le tre necessarie fasi successive. E cioè: a) accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte; b) individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria; c) raffronto tra i risultati di tali due indagini (v. Cass. n. 18943/2016).

Secondo la Cassazione, inoltre, non si configura una violazione del divieto di dequalificazione nell’ipotesi di un nuovo assetto organizzativo disposto dal datore di lavoro, che comporti una riclassificazione del personale concordata con i sindacati, se le mansioni del lavoratore, a seguito del riclassamento, non mutano rispetto al precedente inquadramento. Si realizza invece una violazione dell’art. 2013 c.c. laddove il dipendente venga “adibito a differenti mansioni (quand’anche compatibili con la nuova classificazione, ma) incompatibili con la sua storia professionale” (Cass. n. 19037/2015).

Quanto al diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale derivante dal demansionamento, i giudici precisano che: 1) è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che siano oggetto di tutela costituzionale, da accertare in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti (Cass. S.U. 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. 20 aprile 2018, n. 9901); 2) per costante giurisprudenza, il riconoscimento non ricorre “automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale (cosiddetto danno in re ipsa), non potendo prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo” (v. Cass. S.U. n. 6572/2006; Cass. n. 29047/2017); 3) “la prova del danno spetta al lavoratore, che tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione” (Cass. n. 21/2019 e Cass., n. 25743/2018).

Demansionamento e onere della prova
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