Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 settembre 2021, n. 24160
Tributi, IRPEF, Fondo di previdenza complementare aziendale
a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, Dirigenti
“vecchi” iscritti, Prestazioni erogate in forma di capitale, Regime
tributario
Ritenuto in fatto
1. M.P., vedova di F.F., presentava istanza di
rimborso alla Agenzia delle entrate, precisando che quest’ultimo era un
dipendente E., dirigente in quiescenza, che era una (“vecchio”)
iscritta al fondo pensione già prima del 1993, che aveva ricevuto la
liquidazione delle somme nell’anno 2000, che su tali somme era stata applicata
la ritenuta Irpef dal Fondo pensione con l’aliquota del 33,38 %, come
tassazione separata ai sensi dell’art. 16 comma 1 lettera a del d.p.r.
917/1986, che, invece, le somme dovevano essere gravate da una ritenuta del
12,5 % sulla differenza tra il capitale corrisposto e l’importo dei premi
riscossi e ridotta del 2 % per ogni anno successivo al decimo (art. 42 comma 4
del d.p.r. 917/1986), che le spettava la somma di € 36.457,71, ove trattavasi
solo di reddito da capitale, o, in subordine, la somma di € 11.421,22, nel caso
in cui la ritenuta del 12,5 % fosse ritenuta applicabile solo sulla
“parte” relativa al “rendimento”.
2. A fronte del diniego espresso di rimborso la
contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale,
che lo rigettava.
3. La Commissione tributaria regionale accoglieva
l’appello della contribuente evidenziando che l’appellante era iscritta, prima
della entrata in vigore del d.lgs. 124/1983, quindi alla data del 28-4-1993, e
che, prima di tale riforma, per la sentenza della sezioni unite 13642 del 2011,
occorreva distinguere: per gli importi maturati fino al 31-12-2000, la prestazione
era assoggettata al regime di tassazione separata solo per quanto riguardava la
“sorte capitale” corrispondente all’attribuzione patrimoniale
conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro; mentre alle somme
provenienti dalla liquidazione del c.d. “rendimento” si applicava la
ritenuta del 12,5 %, prevista dall’art. 6 della legge n. 482/1985.
Pertanto, la Commissione regionale non accoglieva la
domanda principale del contribuente, che mirava ad ottenere l’applicazione
della aliquota del 12,5 % su tutta la somma erogata, ma quella
“subordinata”, volta a conseguire l’applicazione del 12,5 %, quindi
ridotta, solo per la parte delle somme che derivavano dal
“rendimento” (“dichiarando il diritto …al rimborso per gli
importi maturati sino al 31-12-2000 della differenza tra quanto versato
all’erario dal sostituto di imposta e quanto dovuto a seguito dell’applicazione
dell’aliquota del 12,5 % ai sensi dell’art. 6 della legge n. 482 del 1985 alle
sole somme liquidate per il rendimento”).
4. Avverso tale sentenza propone ricorso per
cassazione l’Agenzia delle entrate.
5. Resiste con controricorso la contribuente.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia
delle entrate deduce “Violazione e falsa applicazione dell’art. 111 Cost.
e degli articoli 36 del decreto legislativo numero 546 del 1992, e 132 c.p.c.,
in relazione all’art. 360, primo comma, numero 4, c.p.c. ed all’art. 62, primo
comma, decreto legislativo numero 546 del 1992”, in quanto la Commissione
regionale si è limitata a fare riferimento ai “conteggi proveniente
dall’E. e dalla contribuente, non contestati dall’ufficio” senza però
specificare a quale dei due conteggi, entrambi prodotti dalla contribuente, si
facesse riferimento. In realtà, solo il secondo prospetto, prodotto nel secondo
grado di giudizio, in allegato all’appello, si faceva applicazione dei principi
di diritto accolti dal giudice di appello. Inoltre, l’Agenzia delle entrate ha
contestato la correttezza dei criteri cui erano basati i conteggi, negando
fermamente che si potesse configurare un qualunque “rendimento”.
1.1. Tale motivo è infondato.
Invero, la contribuente ha proposto una domanda
principale, volta al rimborso della somma di € 36.457,71, ove le somme
liquidate dal datore di lavoro fossero state considerate tutte con la
tassazione più favorevole del 12,5 %, e quindi come reddito di capitale,
oppure, in via subordinata, la richiesta di € 11. 421,22, ove la tassazione al
12,5 % fosse stata applicata solo alla “parte” del
“rendimento” maturato, come da prospetto allegato.
In realtà, la motivazione della sentenza del giudice
d’appello è presente, non solo graficamente, ma anche nel suo contenuto,
facendo applicazione, perlomeno in astratto, dei criteri elaborati da questa
Corte, a sezioni unite, nella sentenza n.13642/2011.
A prescindere dalla correttezza della soluzione
adottata dalla Commissione regionale, di certo la stessa ha fornito una
sufficiente, seppur non condivisibile, motivazione, accogliendo non la domanda
principale, ma quella subordinata.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la
ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 9,
d.lg.s. 124/1993, dell’art. 1, comma 5, del d.l. 669/96, convertito in legge
30/97, nonché degli artt. 16, 17 e 42 d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917, in
relazione all’art. 360, primo comma n. 3 c.p.c. ed all’art. 62, primo comma,
d.lgs. 546/1992”, in quanto la Commissione regionale non ha esaminato la
natura del rapporto previdenziale fruito dalla ricorrente, che non ha
dimostrato la sussistenza di rendimenti da investimenti nel mercato
finanziario. La ricorrente si è limitata a chiedere la differenza ( €
72.012,76) tra il valore della posizione previdenziale maturato in base
all’originario rapporto di previdenza integrativa aziendale (€ 224.586,45) e la
somma tra la dotazione iniziale e l’ammontare dei contributi versati (€
129.651,00 + € 5.093,93 per contributi a carico del dirigente ed € 17.828,76
per contributi a carico dell’azienda). In realtà, il “rendimento” che
comporta l’applicazione dell’aliquota di tassazione più favorevole (12,5 %) è
il rendimento del capitale accantonato, investito “nei mercati di
riferimento”, ossia il “rendimento di polizza” Nessun rendimento
spetta in caso di somme liquidate in base alla posizione acquisita per l’originario
rapporto previdenziale a “prestazioni definite”.
La Commissione regionale avrebbe dovuto distinguere
ia somma liquidata in base alla posizione maturata nel pregresso rapporto con
la PIA e quella derivante dall’investimento del capitale nei mercati di
riferimento. La configurazione di un “rendimento” presuppone che il
rapporto previdenziale sia gestito con il metodo della capitalizzazione dei
contributi versati e con l’attribuzione di una posizione individuale destinata
ad incrementarsi per effetto degli utili di gestione direttamente imputabili
alla quota del beneficiario della polizza.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente
deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione
all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. ed all’art. 62, primo comma, d.lgs.
546/1992”, in quanto spettava alla contribuente fornire la prova che la
somma per cui si richiedeva l’applicazione dell’aliquota del 12,5% derivava
dall’investimento del capitale accantonato nei mercati di riferimento. Nel
prospetto allegato, a firma del sig. P.B., non v’è la prova dell’investimento
del capitale accantonato nei mercati di riferimento, ma solo la qualificazione
come “rendimento” della differenza tra la posizione maturata nella
PIA e trasferita nel FONDE. e la somma tra la dotazione iniziale ed i
contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore.
4. Con il quarto motivo di impugnazione la
ricorrente lamenta “omesso esame di fatti controversi e decisivi della
causa che hanno costituito […] di discussione tra le parti, in relazione
all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. ed all’art. 62, primo comma, d.lgs.
546/1992”, in quanto la Commissione regionale avrebbe dovuto verificare
quale fosse la natura del rapporto previdenziale intercorso tra le parti, quali
fossero i criteri di liquidazione della prestazione e se fosse o meno prevista
la costituzione di una “posizione individuale”, da incrementare
progressivamente in base ai “rendimenti del capitale investito sui mercati
di riferimento”.
5. I motivi secondo, terzo e quarto, che vanno
trattati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, sono fondati.
5.1. Invero, deve partirsi dalla premessa che la
ricorrente è la vedova di un “vecchio iscritto” al fondo, quindi
prima del 1993, ed ha conseguito la liquidazione della prestazione entro l’anno
2000, sicché a lei non può applicarsi la normativa successiva al 1 gennaio
2001.
5.2. Occorre dunque anzitutto rammentare che, a
decorrere dal 1 gennaio 1986 (in base all’art. 12, comma 4 del CCNL del 16
maggio 1985, recepito dall’E.), venne prevista a favore dei dirigenti E. la
stipula di un’assicurazione sulla vita con la previsione contrattuale
dell’erogazione di una prestazione al momento del collocamento a riposo.
Successivamente, sempre nel 1986 (16 aprile 1986), a
seguito di apposita richiesta delle rappresentanze sindacali dei dirigenti,
tale previsione venne modificata con l’accordo tra l’E. e la Federazione
nazionale dirigenti di aziende industriali (Fndai), in virtù del quale venne
sostituito il trattamento assicurativo di cui sopra con un rapporto di
previdenza pensionistica integrativa (c.d. P.I.A., ovvero Previdenza
Integrativa Aziendale) con prestazioni da erogare in forma di trattamento
periodico (ciò peraltro con efficacia retroattiva al 1 gennaio 1986, da ciò
potendosi desumere che la disposizione che prevedeva la stipula di polizze vita
di fatto non venne mai applicata).
Tale forma di previdenza venne però dismessa nel
1998 e i fondi accumulati trasferiti a FondE., Fondo di Previdenza integrativa
esterno, chiamato a gestire una forma di previdenza complementare a
capitalizzazione individuale, con diritto degli aderenti alla liquidazione
dell’intero capitale in luogo della rendita vitalizia.
5.3. Questa Corte, a sezioni unite (22 giugno 2011,
n. 13642), ha poi ritenuto che, in tema di fondi previdenziali integrativi, le
prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto,
in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124,
ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di
versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente
trattamento tributario: a) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000,
la prestazione è assoggettata al regime di tassazione separata di cui agli
artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, solo per
quanto riguarda la “sorte capitale”, corrispondente all’attribuzione
patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre alle
somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento si applica la ritenuta
del 12,50%, prevista dall’art. 6 della I. 26 settembre 1985, n. 482; b) per gli
importi maturati a decorrere dall’1 gennaio 2001 si applica interamente il
regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a) e 17 del
d.P.R. n. 917 cit.
Il trattamento tributario dei “vecchi”
iscritti, quindi prima del 21 aprile 1993, dipende dalla “composizione
strutturale delle prestazioni”, che sono appunto composte da una
“sorte capitale”, costituita dagli accantonamenti imputabili ai
contributi versati dal datore di lavoro ( e in notevole misura dal lavoratore)
e da un “rendimento netto”, imputabile alla gestione sul mercato da
parte del Fondo del capitale accantonato.
6. Sul punto la successiva giurisprudenza di questa
Corte (Cass.Civ., 26 aprile 2017 n. 10285 e Cass.Civ., 18 ottobre 2017, n.
24525; Cass.Civ., 7 marzo 2018, n. 5436; Cass., 4941/2018) si è già attestata,
con numerosi arresti, di gran lunga prevalenti su quelli di segno diverso, su una
lettura del principio affermato dalle Sezioni Unite secondo la quale il
predetto più favorevole criterio impositivo può trovare applicazione
limitatamente alle somme rivenienti dall’effettivo investimento, da parte del
fondo, sul mercato finanziario ( o comunque di riferimento), del capitale
accantonato e che ne costituiscono il rendimento.
Pertanto, l’applicazione del più favorevole
meccanismo impositivo di cui all’art. 6 della legge n. 482 del 1985 (con
aliquota del 12,5%), si giustifica in ragione della “equiparazione”
tra i capitali corrisposti in dipendenza di contratti di assicurazione sulla
vita e (quelli corrisposti in dipendenza di contratti) di capitalizzazione
posta dall’art. 41 (ora 44), comma 1, lett. g-quater), e art. 42 (ora 45),
comma 4, t.u.i.r., con applicazione analogica dell’art. 6 suddetto ai capitali
corrisposti in dipendenza di contratti di capitalizzazione.
Solo se e in quanto, dunque, nei capitali
corrisposti possano identificarsi “redditi di capitali derivanti da
contratti di capitalizzazione” può giustificarsi l’applicazione del
meccanismo impositivo di cui all’art. 6 della legge n. 482 del 1985, senza
possibilità di operare alcuna distinzione tra PIA e FondE.
7.1. Resta dunque confermato che sono tassabili con
l’aliquota del 12,5% ai sensi dell’art. 6 della legge n. 482 del 1985 i
capitali maturati anteriormente al 1 gennaio 2001 dai soggetti iscritti al
fondo di previdenza integrativa di che trattasi (P.I.A., poi FondE.) prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 124 del 1993, limitatamente a quella parte
di essi costituita dal rendimento netto, derivante dalla gestione sul mercato
da parte del fondo del capitale accantonato, con la realizzazione di un
rendimento.
La Commissione regionale si è limitata ad affermare,
dopo aver riportato il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite di
questa Corte (Cass., sez.un., 13642 del 2011), senza alcuna indicazione degli
elementi di fatto esaminati, che “la sentenza impugnata deve essere
riformata, con l’accoglimento parziale del ricorso del contribuente,
dichiarando il diritto di quest’ultimo al rimborso per gli importi maturati
fino al 31 dicembre 2000 della differenza tra quanto versato all’erario dal
sostituto d’imposta e quanto dovuto a seguito dell’applicazione dell’aliquota del
12,50 %, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 482 del 1985 alle sole somme
liquidate per il rendimento”. In tal modo la Commissione ha ritenuto che
parte dell’importo corrisposto al contribuente avesse natura di
“rendimento”, senza però specificare le ragioni per cui vi sarebbe
stata la prova che parte del capitale accantonato era stato investito nel
“mercato di riferimento”.
Se, da un lato, per quanto detto, tale requisito
andrà ricercato anche per i capitali maturati e gli accantonamenti effettuati
anteriormente alla trasformazione del fondo da P.I.A. a FondE., dall’altro,
però, non v’è ragione di ulteriormente circoscrivere tale requisito ai soli
(eventuali) investimenti nel mercato finanziario (strumenti finanziari, valori
immobiliari), potendo assumere rilievo in tal senso anche altri tipi di mercato
(es. mercato mobiliare).
7.2. E’ però certo da escludere che tale requisito
possa considerarsi soddisfatto dall’essere il rendimento ottenuto
corrispondente alla redditività ottenuta sul mercato dell’intero patrimonio
dell’E., poiché tale coerenza costituisce il risultato di una mera operazione
matematica e non effettivamente il frutto dell’investimento di quegli
accantonamenti nel libero mercato.
8. La Commissione tributaria, quindi, non solo non
ha applicato in modo corretto le norme richiamate nei motivi di ricorso per
cassazione, ma non ha tenuto conto, nella sua motivazione, che dunque si palesa
insufficiente, della circostanza che, pur essendo il contribuente già iscritto
al fondo prima del 21 aprile del 1993 (circostanza in atti pacifica) e che
aveva ricevuto la liquidazione delle somme nell’anno 2000, prima del 1 gennaio
2001, tuttavia doveva valutarsi se le somme corrisposte provenissero o meno da
un effettivo investimento “nel mercato di riferimento” da parte del
fondo del capitale accantonato, con la realizzazione di un rendimento.
In particolare, deve anche rilevarsi che il
prospetto in atti non rappresenta un elemento probatorio idoneo a dimostrare
che il capitale accantonato della contribuente ha costituito una
“posizione individuale” ed è stato investito nel mercato di
riferimento (immobiliare o finanziario), con l’assoggettabilità all’aliquota
più favore del 12,5 %.
Al contrario, si certifica soltanto che il capitale
lordo da liquidare è di € 224.586,45, che la dotazione iniziale al 1 gennaio
1986 era di € 129.651,00, che i contributi a carico del dirigente per il
periodo 1-1-1986/31-8-1990 erano di € 5.093,93 , che i contributi a carico
dell’azienda, nello stesso periodo, erano di € 17.828,76, e che il rendimento
conseguito nel periodo di riferimento era di € 72.012,76, ossia la differenza
tra il totale del capitale lordo da liquidare e la somma di dotazione iniziale,
contributi del lavoratore e contributi del datore di lavoro.
Questo è, però, il rendimento ottenuto
corrispondente alla redditività conseguita sul mercato dell’intero patrimonio
dell’E., quindi il rapporto tra il margine operativo lordo e il capitale investito.
Tale rendimento non può considerarsi frutto
dell’investimento di quell’accantonamento nel libero mercato, essendo, al
contrario, dipeso da un predeterminato calcolo di matematica attuariale.
Da tale prospetto non emerge, invece, in alcun modo
se tale rendimento, per la posizione individuale della contribuente, deriva
dall’investimento del capitale accantonato ad essa relativo, nel mercato di
riferimento.
Grava, però, sulla contribuente che impugna una
istanza di rimborso l’onere di provare quale sia la parte dell’indennità
ricevuta ascrivibile a rendimenti frutto d’investimento sui mercati di
riferimento, senza che detto onere probatorio possa ritenersi sufficientemente
assolto tramite il mero rinvio al conteggio proveniente dall’E., prodotto dalla
contribuente, che non contiene alcuna specificazione sui criteri utilizzati per
la quantificazione della voce rendimento, così da chiarire se si tratta
effettivamente di incremento della quota individuale del Fondo attribuita al
dipendente in forza di investimenti effettuati dal gestore sul mercato (Cass.,
16116/2018).
9. La sentenza impugnata deve essere cassata e, non
essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa
nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso
introduttivo della contribuente, dichiarando che le somme rinvenienti dal fondo
PIA sono assoggettate a tassazione separata ai sensi degli artt. 16 e 17 del
d.p.r. 917/1986 (in adesione a numerosi precedenti conformi: Cass., 16116/2018;
Cass., 16117/2018; Cass. 161118/2018; Cass., 16123/2018).
E’, infatti, pacifico che si controverta solo su
capitali rinvenienti dall’accantonamento in PIA (il periodo dei versamenti è
dal 1986 al gennaio 1990, quindi prima del trasferimento dei fondi da PIA in
FONDE. nel 1998) e dalla certificazione in atti si desume che in nessuna misura
il rendimento ottenuto sulle somme accantonate nel fondo descritto di
previdenza integrativa sia stato ricavato dal loro investimento sul mercato
(Cass., 10285/2017; Cass., 4941/2018), con la conseguenza che non risulta per
esso applicabile in concreto il regime fiscale dettato dall’art. 6 della legge
26 settembre 1985, n. 482 (aliquota del 12,5 % sulla differenza tra l’ammontare
del capitale corrisposto e quello dei premi riscossi, ridotta del 2 % per ogni
anno successivo al decimo).
Tali considerazioni sono confermate dalla relazione
n. 32/1999 della Corte dei conti – sezione del controllo sugli enti – proprio
sul bilancio consuntivo dell’E. relativo all’esercizio finanziario 1997 (Cass.,
16116/2018).
10. La complessità della questione trattata impone
la compensazione integrale delle spese dell’intero processo.
P.Q.M.
Accoglie i motivi secondo, terzo e quarto di
ricorso; rigetta il primo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi
accolti, e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della
contribuente, dichiarando che le somme rinvenienti dal Fondo PIA sono
assoggettate a tassazione separata ai sensi degli artt. 16 e 17 del d.p.r. 22
dicembre 1986, n. 917.
Dichiara compensate per intero tra le parti le spese
dell’intero processo.