Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2021, n. 32964

Sicurezza, Omessa formazione dei lavoratori, Infortunio,
Responsabilità, Requisito della causalità della colpa

 

Ritenuto in fatto

 

1. V.A. ricorre per cassazione avverso la sentenza
in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna
emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all’art. 590 cod. pen.,
perché, in qualità di titolare dell’impresa esecutrice dei lavori di
installazione dell’impianto fotovoltaico sulla copertura di un capannone, non
predisponendo alcuna misura di protezione per le cadute (sistemi per
l’agganciamento delle imbracatura di sicurezza dei lavoratori; parapetti o
sbarramenti); predisponendo un piano operativo di sicurezza generico e non
pertinente alla natura dei lavori da effettuare; non verificando, prima di
procedere all’esecuzione dei lavori, che le coperture avessero resistenza
sufficiente per sostenere il peso degli operai; non provvedendo alla formazione
dei lavoratori in ordine ai rischi inerenti all’attività lavorativa, cagionava
a S.F., che stava operando sulla copertura del capannone industriale e che
precipitava da un’altezza di circa 8 metri in conseguenza della rottura dei
pannelli di copertura della parte attigua a quella sulla quale stava lavorando,
lesioni personali dalle quali derivava una malattia e un’incapacità di
attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni. In
Termini Imerese, il 18 giugno 2012.

2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio
dì motivazione, poiché non è ravvisabile il requisito della causalità della
colpa, non essendovi alcun nesso tra la presunta violazione della regola
cautelare e il verificarsi dell’evento. I dispositivi di sicurezza, infatti,
come funi o parapetti, erano presenti sul capannone nei giorni precedenti ed
erano stati rimossi, ad insaputa del V., prima dell’evento, poiché si erano
conclusi i lavori sulla sommità dell’immobile. Comunque i dispositivi di
sicurezza, anche se fossero stati presenti il 18 giugno 2012, non avrebbero
evitato la caduta del lavoratore, che decise autonomamente e senza alcuna
valida motivazione tecnica di uscire dal carrello elevatore, attraversare il
tetto del capannone interessato ai lavori e scavalcare il muretto, di quasi un
metro, che divideva tale edificio da quello attiguo, su cui non si doveva
effettuare alcun lavoro, precipitando, dopo aver percorso alcuni metri, e
sfondando la copertura di fibrocemento. Al momento dell’evento il lavoratore
non stava affatto svolgendo i compiti assegnatigli dal V., poiché come da
cronoprogramma e come affermato dal teste F., il dipendente avrebbe dovuto
soltanto, in tutta sicurezza, rimanendo all’interno del carrello elevatore,
connettere i cavi che pendevano sul prospetto del capannone alle cassette di
derivazione ivi presenti anziché passeggiare, senza alcuna necessità tecnica,
sul tetto dell’altro capannone, distante dal luogo di lavoro e non interessato
da alcuna attività lavorativa. Dunque il lavoratore, al quale erano stati messi
a disposizione tutti i dispositivi di sicurezza, ha tenuto un comportamento
abnorme, che ha innescato un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto a
quello originario, che era stato valutato correttamente in ordine all’attività
da compiere sul solo capannone oggetto dei lavori appaltati e non sull’altro,
che era estraneo ad ogni attività. Non è neanche vero che il piano operativo di
sicurezza presentasse macroscopiche inadeguatezze, tant’è che i coimputati sono
stati tutti assolti.

Si chiede pertanto annullamento della sentenza
impugnata.

3. Con nota del 14-5-2021, la parte civile INAIL, ha
chiesto il rigetto del ricorso.

4. Con requisitoria scritta, in data 13-5-2021, il
Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto declaratoria di inammissibilità
del ricorso.

5. Con memoria del 24-5-2021, la Difesa ha
ulteriormente illustrato le proprie argomentazioni, insistendo per
l’accoglimento del ricorso.

 

Considerato in diritto

 

1. Le doglianze formulate non possono trovare
ingresso in questa sede.

Costituisce infatti ius receptum, nella
giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla
luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi
della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione,
di cui saggia l’oggettiva “tenuta”, sotto il profilo
logico-argomentativo, e quindi l’accettabilità razionale, restando preclusa la
rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o
l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione
dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6 ,
n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di
legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se
la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve
condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa
giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una
plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l’art. 606, comma 1, lett.
e), cod. proc. pen. Non consente alla Corte di cassazione una diversa
interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è
giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire
giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul
significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è
riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente
l’apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass.,
Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer. , n. 36227 del 3-9-2004,
Rinaldi; Sez . 5, n. 32688 del 5- 7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del
15-4-2004, Antonelli).

2. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha
evidenziato come i tecnici del servizio di prevenzione e sicurezza negli
ambienti di lavoro avessero appurato che mancavano parapetti destinati a
interdire il transito e dispositivi di ancoraggio.

D’altronde il teste F., elettricista presente in
cantiere nel giorno del sinistro e che coadiuvava S.. nell’esecuzione dei
lavori, aveva dichiarato che, pur dovendo lavorare sulla facciata, a volte era
necessario andare sul tetto per prendere i cavi. E la persona offesa aveva
precisato che non era possibile operare rimanendo sul carrello elevatore perché
“bisognava andare dentro per prendere i cavi che uscivano fuori e metà
restavano dentro “. In ogni caso il motivo di spostarsi avrebbe potuto
essere correlato ad un’anomalia nei cavi. Ciò dunque smentiva l’asserto secondo
cui nel giorno dell’incidente era prevista un’attività che avrebbe potuto
essere svolta dagli operai rimanendo a bordo della piattaforma aerea, come
risultava anche dalle fotografie. S.F., quindi, come evidenziato dal giudice di
primo grado, si trovava, nel contesto di un’operazione rientrante appieno nelle
sue mansioni, sul tetto dell’edificio per raccordare i cavi e portarli fino
all’estremità per poi collegarli ai quadri elettrici, onde l’aver camminato
sulla copertura attigua rappresentava 
comportamento, anche se negligente, non certo imprevedibile. Di qui la
conclusione dei giudici di merito secondo la quale non può ravvisarsi abnormità
del comportamento del lavoratore.

L’impianto argomentativo a sostegno del decisum è
dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a
rendere intelligibile l’iter logicogiuridico seguito dai giudici e perciò a
superare lo scrutinio di legittimità, avendo la Corte d’appello preso in esame
tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuta alle proprie conclusioni
attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il
profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non
qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e
perciò insindacabili in questa sede.

3. D’altronde, le conclusioni alle quali sono
pervenuti i giudici di merito sono del tutto conformi al consolidato
orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui compito del
titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi
dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune
attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano
conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori
subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il
garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di
affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile,
poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione
di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante,
dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l’evento,
non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla
legittima aspettativa in ordine all’assenza di condotte imprudenti, negligenti
o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa
antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai
rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi
errori, purché connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa (Cass., Sez.
4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della
posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua
condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e
perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622
del 29-4-2008, Rv. 240161).

4. A tali considerazioni si correla il rilievo
secondo cui il comportamento del lavoratore può essere ritenuto abnorme solo
allorquando sia consistito in una condotta radicalmente, ontologicamente,
lontana dalle ipotizzabili, e quindi prevedibili, scelte, anche imprudenti, del
lavoratore, nell’esecuzione del lavoro (Cass., Sez. 4, n. 7267 del 10-11-2009,
Rv. 246695). È dunque abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per
la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di
controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di
prevenzione contro gli infortuni sul lavoro. Tale non è il comportamento del
lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle
sue attribuzioni, nel segmento di lavoro assegnatogli ( Cass., Sez. 4, n. 23292
del 28-4-2011, Rv. 250710) o che abbia espletato un incombente che, anche se
inutile ed imprudente, non risulti eccentrico rispetto alle mansioni a lui
specificamente assegnate, nell’ambito del ciclo produttivo ( Cass., Sez. 4, n.
7985 del 10-10- 2013, Rv. 259313). Da ciò consegue che non può essere
ravvisata, nel caso di specie, interruzione del nesso causale. L’operatività
dell’art. 41, comma 2, cod. pen. è infatti circoscritta ai casi in cui la causa
sopravvenuta inneschi un rischio  nuovo e
del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima
condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493
del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può,
pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare
l’evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il
lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa altrui, nella specie a
quella del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255;
n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). L’interruzione
del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore
ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative
alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non
osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è
configurabile la colpa dell’infortunato nella produzione dell’evento, con
esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia
(Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv.
188202) . Ma abbiamo visto come, nel caso in disamina, l’operazione che stava
effettuando il lavoratore rientrasse appieno nelle sue attribuzioni. Si esula
pertanto dall’ambito applicativo dell’art. 41, comma 2 , cod. pen.

5. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile,
con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro tremila, determinata secondo equità, in favore della Cassa
delle ammende. Il ricorrente va inoltre condannato alla rifusione delle spese
sostenute dalla parte civile INAIL, che si liquidano in euro tremila.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute
dalla parte civile INAII, che liquida in euro tremila.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 settembre 2021, n. 32964
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