Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 settembre 2021, n. 25826

Lavoro, Cessazione dell’attività, Affitto parziale di
azienda, Decadenza della società da un finanziamento agevolato

 

Fatti di causa

 

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 4944/2015,
depositata in data 4/9/2015, – in controversia promossa dalla A. spa (poi
incorporata nella P.H. spa), nei confronti del Ministero dell’Industria, del
Commercio e dell’Artigianato (poi divenuto Ministero dello Sviluppo Economico),
al fine di sentire dichiarare l’illegittimità del provvedimento in data
13/2/1998 di decadenza della società da un finanziamento agevolato concesso ai
sensi della 1.517/1975, in conseguenza della cessazione dell’attività in data
29/1/1993, per effetto di affitto parziale di azienda, – ha confermato la
decisione di primo grado, che aveva respinto la domanda attrice.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto
che, ai sensi dell’art. 9 della l.del 1975, essendo scopo della disposizione
quello di garantire la realizzazione del programma di investimenti per cui il
beneficio è stato concesso da parte dello stesso soggetto ammesso
all’agevolazione, le espressioni «alienazione» e «cessione» dovevano essere
intese come riferite a tutti i casi di trasferimento, anche parziale o
temporaneo, dei beni acquistati con i contributi concessi, non quindi
necessariamente e solo dell’intera azienda, risultando comunque pregiudicata la
realizzazione del programma di investimenti da parte del soggetto beneficiario
delle agevolazioni.

Avverso la suddetta pronuncia, P.H. spa propone
ricorso per cassazione, notificato il 3/3/2016, affidato ad un motivo, nei
confronti di Ministero dello Sviluppo Economico (che resiste con controricorso,
notificato il 21/3/2016). Con ordinanza interlocutoria n. 15499 del 21/6/2017,
la causa è stata rimessa dalla Sesta Sezione civile alla Prima Sezione civile.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Ragioni della decisione

 

1. La ricorrente lamenta, con unico motivo, la
violazione, in relazione all’art.360 nn. 3 e 5 c.p.c., degli artt.9 e 10
1.517/1975, denunciando che, richiamando i termini «alienazione e cessione»
utilizzati dal legislatore del 1975 il concetto di trasferimento della
proprietà dei beni, detta ipotesi non poteva essere interpretata in senso
estensivo ricomprendendovi, ai fini della decadenza dell’agevolazione, anche
quella dell’affitto parziale di una delle aziende con continuazione
dell’attività da parte di A. nella parte di azienda non affittata.

2. La censura è, in parte, infondata, in parte,
inammissibile.

Le legge n. 517/1975 (Credito agevolato al
commercio, abrogata con DPR 438/2000) prevede all’art. 9 (Inalienabilità e
incedibilità) che«/e opere realizzate ed i beni acquisiti, ad eccezione delle
scorte, con le agevolazioni previste dalla presente legge non possono essere
alienati o ceduti prima che sia trascorso il periodo di ammortamento dei
finanziamenti; salvo che il subentrante abbia titolo alla concessione dei mutui
secondo i criteri e con le procedure stabilite dal precedente articolo 6». Il
successivo art. 10 (Estinzione anticipata del mutuo, scioglimento o cessazione
dell’impresa) stabilisce che «in caso di anticipata estinzione del mutuo
concesso, di scioglimento o di cessazione dell’impresa mutuatala, l’erogazione
del contributo viene interrotta con effetto immediato e l’eventuale residuo
debito dovrà essere versato, in unica soluzione, al momento dello scioglimento
o della cessazione dell’ attività commerciale.

In caso di fallimento dell’impresa, l’erogazione del
contributo viene interrotta all’atto della dichiarazione giudiziale di
insolvenza».

I finanziamenti a tasso agevolato erano subordinati
alla presentazione, da parte degli aventi diritto, di programmi di investimento
che dessero concreto affidamento di contribuire all’aumento della produttività
e funzionalità del servizio distributivo (art.2).

Ora, con riferimento ad altra forma di agevolazione
(L. 14 maggio 1981, n. 219, art. 21, Conversione in legge del D.L. 19 marzo
1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite
dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981, che disciplinava la
«ricostruzione e riparazione degli stabilimenti industriali»), questa Corte
(Cass. 20506/2010) ha affermato, in motivazione, che «l’imprenditore beneficiario
del contributo, che conceda in affitto l’azienda, perde per ciò stesso la
qualità di imprenditore divenendo mero percettore del reddito costituito dai
canoni d’affitto, i quali dunque non possono considerarsi come conseguiti
nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, cessata appunto con il subentro
dell’affittuario (arg., ex plurimis, dalla sentenza n. 7292 del 2006), con
l’ulteriore conseguenza che, venuta meno in radice la possibilità di
realizzazione delle predette finalità, il mantenimento del contributo
comporterebbe, in contrasto con le stesse finalità e con il conseguente vincolo
di destinazione del contributo alla loro effettiva realizzazione, una
illegittima distrazione dello stesso contributo da tale vincolo», cosicché
doveva ritenersi che il mantenimento del beneficio comportava il divieto di
affitto d’azienda, in quanto l’adempimento degli obblighi di mantenimento dei
livelli occupazionali, di ripresa dell’attività produttiva dopo la
ricostruzione o la riparazione degli impianti, di osservanza delle norme che
disciplinano il rapporto e lo svolgimento del lavoro presupponeva il diretto
esercizio dell’impresa.

Con riguardo, invece, a credito d’imposta di cui
all’art. 8, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, questa Corte (Cass.
3114/2014) ha invece affermato che «La concessione a terzi, mediante contratto
di affitto di azienda o di ramo d’azienda, del diritto di utilizzare beni – per
il cui acquisto al concedente spetti il credito d’imposta – per lo svolgimento
della medesima attività d’impresa, non determina la decadenza
dall’agevolazione, in quanto non rientra in alcuna delle ipotesi descritte
dalla norma antielusiva contenuta nel settimo comma del predetto articolo, che
prevede il recupero del credito “se, entro il quinto periodo d’imposta
successivo a quello nel quale sono entrati in funzione, i beni sono dismessi,
ceduti a terzi, destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ovvero
destinati a strutture produttive diverse da quelle che hanno diritto
all’agevolazione”, e la cui “ratio” è di evitare l’immissione
temporanea dei beni nell’impresa al solo fine di fruire dell’agevolazione».
Peraltro, nella specie si era dato atto dell’intervento del D.L. n. 203 del
2005, art. 7, comma 1 bis, convertito nella L. n. 248 del 2005, secondo il
quale la norma citata «si interpreta nel senso che gli immobili strumentali per
natura, ai sensi del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917, art. 43, comma 2, secondo periodo, i quali costituiscono
un complesso immobiliare unitario polifunzionale destinato allo svolgimento di
attività commerciale, qualora siano locati a terzi, non si intendono destinati
a struttura produttiva diversa, a condizione che gli stessi vengano destinati
allo svolgimento di attività d’impresa ai sensi dell’art. 55 del citato testo
unico».

Orbene, deve ritenersi che, trattandosi di
finanziamento a tasso agevolato riferito ad una impresa specifica, per la
realizzazione di precisi obiettivi, ciò che l’art.9 1.517/1975 ha inteso
assicurare è il divieto di trasferimento dell’azienda, che si verifica tutte le
volte in cui, ferma restando l’organizzazione del complesso dei beni destinati
all’esercizio dell’impresa, e quindi immutato il suo oggetto e la sua attività,
vi sia una perdita della qualità di imprenditore, per cessazione della relativa
attività, in quanto l’attività di impresa sia esercitata da un altro soggetto.
Il che avviene non solo nei casi di alienazione, ma anche di affitto di
azienda.

Ora il ricorso è anche, in parte, inammissibile, in
quanto, a fronte dell’accertamento della cessazione dell’attività di impresa,
per effetto dell’affitto a terzi dell’azienda, con contratto del gennaio 1993,
la ricorrente si limita a dedurre, del tutto genericamente, che l’affitto
avrebbe riguardato, in realtà, solo una delle aziende con continuazione
dell’attività da parte di A. nella parte di azienda non affittata.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il
ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la
soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Respinge il ricorso; condanna la ricorrente al
rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate
in complessivi € 7.000,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese
prenotate a debito.

Ai sensi dell’art.13, comma 1 quater del DPR
115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1
bis dello stesso art.13.

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