Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2021, n. 26272

Procedimento di licenziamento collettivo, Licenziamento
illegittimo, Reintegra, Disciplina applicabile, Art. 18, co. 4, della Legge
n. 300 del 1970, Indennità risarcitoria, Limiti

 

Svolgimento del processo

 

1. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n.
1064 del 2018 del 30 ottobre 2018, accogliendo il reclamo proposto dal
lavoratore avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di Palermo, ha
annullato il licenziamento intimato da E.F. il 12 maggio 2017 nei confronti di
B.E. e, per l’effetto, ha condannato l’Ente all’immediata reintegrazione del
lavoratore nel di lui posto di lavoro, nonché al pagamento in favore dello
stesso di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale
di fatto dal dì del licenziamento fino all’effettiva reintegra, oltre al
pagamento dei contributi previdenziali.

La procedura espulsiva era stata adottata a
conclusione di procedimento collettivo attivato dal datore di lavoro.

2. Per la cassazione della sentenza emessa in sede
di reclamo ricorre E.F. prospettando tre motivi di impugnazione.

3. Resiste il lavoratore con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memorie in
prossimità dell’udienza.

4. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni
scritte.

 

Ragioni della decisione

 

1. Occorre premettere che la Corte di Appello di
Palermo ha esaminato la censura relativa all’interpretazione e all’applicazione
del criterio di scelta comunicato dall’Ente alle OO.SS.

Ha rilevato che, in occasione della comunicazione di
chiusura della procedura di mobilità, l’Ente esplicitava il criterio
tecnico-produttivo ed organizzativo alla stregua del quale aveva compiuto la
scelta dei lavoratori in esubero ed il loro inserimento all’interno di
graduatorie ordinate sulla base dei “requisiti di appartenenza al profilo
professionale e nell’abitualità correntemente esercitata con prevalenza di
copertura del profilo (…).”

Ha affermato la Corte d’Appello che dalle tabelle
allegate si evinceva che, nell’operare la selezione dei lavoratori, l’Ente
aveva individuato il profilo professionale di appartenenza sulla scorta della
tipologia dei corsi assegnati, includendovi i singoli lavoratori secondo un
criterio di abitualità e di prevalenza nell’esercizio della funzione docente
nell’uno e nell’altro settore.

Al B. era toccato l’inserimento nel settore dei
formatori ceramisti, al cui interno si era registratola totalità degli esuberi.

Nella specie, tuttavia, come aveva esposto dal
reclamante, non ricorreva il fattore di esperienza quanto meno pluriennale nel
profilo attribuito di formatore ceramista, allo scopo di soddisfare il concetto
di abitualità e prevalenza di copertura del profilo. Ciò, in quanto
pacificamente il B. aveva ricoperto tale ruolo soltanto nell’annualità
2014-2015 per poi tornare a svolgere le mansioni proprie di progettista,
corrispondenti peraltro, alla qualifica di assunzione di “progettista VI
livello”, la quale secondo la ricostruzione compiuta dal reclamante, non
opposta dall’ente, sarebbe stata quella “abitualmente” e
prevalentemente svolta dal lavoratore nell’arco del proprio rapporto di
servizio con l’Ente.

Dal momento che nella categoria dei progettisti non
risultava essersi verificato alcun esubero, a ragione il reclamante lamentava
l’illegittima estromissione dall’organico dell’Ente.

Alla stregua della circostanza accertata, risultava
esaustivamente soddisfatto l’onere probatorio ricadente a carico del lavoratore
ricorrente.

Nella specie, la categoria dei progettisti era stata
esclusa per intero dal novero degli esuberi con conseguente salvezza di ogni
lavoratore alla stessa appartenente, tra cui andava annoverato il B.

2. Tanto premesso, in via preliminare va esaminata
l’eccezione di inammissibilità del ricorso per mancanza di sottoscrizione dei
difensori.

Tale eccezione deve essere disattesa in ragione dei
principi affermati da questa Corte (si v., ex multis, Cass., n. 1981 del 2018,
n. 5932 del 2010), atteso che l’originale del ricorso è sottoscritto da
entrambi i difensori dell’E.F..

3. Può passarsi ad esaminare i motivi del ricorso.

4. Con il primo motivo è dedotta la violazione e
falsa applicazione dell’art. 115, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360,
n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

Assume il ricorrente che la sentenza muove da un
presupposto erroneo costituito dal pacifico e non contestato svolgimento da
parte del B. delle mansioni di progettista. Tale affermazione si poneva in
contrasto con il principio di non contestazione di cui all’art. 115, cod. proc.
civ., secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

La Corte d’Appello, quindi, aveva ritenuto non
contestato un fatto che invece era contestato, atteso che E.F. aveva opposto
una ricostruzione dei fatti dai quali emergeva che il B. era e rimaneva un
formatore e non un progettista, e aveva contestato lo svolgimento della
attività di progettista.

5. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116, cod. proc. civ., in
relazione all’art. 360, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.

Deduce il ricorrente che non era provata la
circostanza che il B., terminato l’incarico di cui alla lettera datata 18
febbraio 2015, era tornato a fare il progettista, in quanto non si rilevava da
tale lettera che l’incarico di formatore ceramista era di durata annuale.

Vi era dunque un travisamento delle prove. Dalla
lettera 18 febbraio 2015, di cui alcuni stralci sono riportati in ricorso, si
rilevava che il B. rimaneva nella qualifica di progettista e che l’incarico di
formatore era a termine; concluso lo stesso sarebbe tornato a svolgere
l’attività di progettista.

6. I suddetti primo e secondo motivo di ricorso
devono essere esaminati congiuntamente, in ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

Come questa Corte (Cass., S.U., n. 20867 del 2020)
ha già affermato, in tema di ricorso per cassazione, per proporre la violazione
dell’art. 115, cod. proc. civ. è necessario dedurre che il giudice non abbia
posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia
giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa
che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo
espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla
osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di
prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di
fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione
del mezzo probatorio, fermo restando il dovere di considerare i fatti non
contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art.
115 cod. proc. civ., mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera
circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti
attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre,
essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 cod. proc. civ.,
che non a caso è dedicato alla valutazione delle prove.

D’altra parte, la violazione dell’art. 116, cod.
proc. civ., è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare
una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in
assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente
apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il
valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria
(come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia
soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di
valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca
che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della
prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.
proc. civ., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi
motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass., S.U. nn. 8053 e 8054
del 2014, che nel caso in esame non sono prospettatti.

Nella specie, con riguardo ad entrambe le censure,
non sono ravvisabili deduzioni riferibili ai suddetti paradigmi, atteso che le
stesse tendono ad ottenere una rivisitazione del fatto e contestano la
ricostruzione effettuata dalla Corte d’Appello senza argomentare a quali
mansioni sarebbe stato adibito il lavoratore dopo l’incarico di formatore
ceramista, che veniva conferito per l’annualità 2014/2015, come peraltro
riportato nello stralcio della lettera riprodotto nel ricorso dall’Ente.

Va infatti considerato che che grava sul datore di
lavoro l’onere della prova delle mansioni cui è adibito il lavoratore (Cass.,
n. 27165 del 2009), e di tale principio la Corte d’Appello ha fatto corretta
applicazione.

7. Con il terzo motivo di ricorso è prospettata la
violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del
1970, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.

Assume il ricorrente che tale disposizione
stabilisce che l’indennità risarcitoria in caso di reintegra non può essere
superiore a dieci mensilità, mentre la Corte d’Appello aveva stabilito, oltre
alla reintegra, il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata
all’ultima retribuzione globale di fatto dal dì del licenziamento fino
all’effettiva reintegra.

8. Il motivo è fondato e va accolto. Ed infatti, il
licenziamento interveniva il 12 maggio 2017, trova quindi applicazione il testo
dell’art. 18 della legge n.300 del 1970, come novellato dalla legge n. 92 del
2012.

La norma in questione, art. 18, comma 4, della legge
n. 300 del 1970, nel testo successivo alle modifiche introdotte dalla legge n.
92 del 2012, prevede, per quanto qui rileva, in relazione al motivo di ricorso
in esame: la condanna del “datore di lavoro alla reintegrazione nel posto
di lavoro (…) e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello
dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel
periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative,
nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca
di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria
non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di
fatto”.

La Corte d’Appello nel condannare il datore di
lavoro E.F. all’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione
globale di fatto, dal giorno del licenziamento sin a quello dell’effettiva
reintegra, non ha tenuto conto della più articolata previsione normativa sopra
riportata e pertanto il terzo motivo di ricorso va accolto dovendo la Corte
d’Appello fare corretta applicazione della suddetta disposizione.

9. Pertanto, il primo e il secondo motivo di ricorso
devono essere rigettati.

Il terzo motivo di ricorso va accolto e la sentenza
va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese del
presente giudizio, alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il primo e il secondo motivo, accoglie il
terzo motivo di ricorso.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello
di Palermo in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 settembre 2021, n. 26272
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