Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26452

Rapporto di lavoro, Attività di assistente di studio,
Pluralità di contratti di lavoro autonomo a tempo determinato, Accertamento
della natura subordinata

 

Rilevato che

 

Il Tribunale di Milano rigettava le domande proposte
da U.L.G. nei confronti di S.I. s.p.a. volte a conseguire l’accertamento della
natura subordinata e a tempo indeterminato del rapporto intercorso fra le parti
dal 21/4/2011 al 30/6/2014 in relazione alla attività di assistente di studio
formalmente sussunta nella forma di una pluralità di contratti di lavoro
autonomo a tempo determinato, l’accertamento della illegittima interruzione del
rapporto e la condanna della convenuta alla riammissione in servizio ed al risarcimento
del danno;

detta pronuncia veniva riformata dalla Corte
distrettuale che accertava l’intercorrenza fra le parti di un rapporto di
lavoro subordinato a far tempo dall’aprile 2011 con inquadramento nel IV
livello c.c.n.I. emittenti radiotelevisive; ordinava alla società di
ripristinare il rapporto conferendo al ricorrente le medesime mansioni in
precedenza espletate o altre equivalenti; condannava l’appellata al pagamento
della indennità di cui all’art.32 c.45 I. 183/2010 nella misura di otto mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto;

avverso tale decisione la S.I. s.p.a. interpone
ricorso per cassazione sostenuto da unico motivo al quale l’intimato oppone
difese con controricorso;

 

Considerato che

 

1. con unico motivo si denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt.2697, 2727, 2728 c.c. art.14 preleggi, art. 69 d. Igs.
276/2003;

si deduce che gli approdi ai quali è pervenuta la
Corte territoriale confliggono con i principi in tema di ripartizione dell’onus
probandi e di applicazione delle presunzioni, oltre che con i dettami di cui
all’art.69 d.Igs. n.276/2003; in particolare si stigmatizza l’applicazione da
parte del giudice del gravame, della presunzione legale sancita dalla
disposizione in rubrica, oltre il caso in essa considerato;

“dando ingresso ad una valutazione di merito
sulla correttezza o meno del nomen juris” la Corte d’Appello avrebbe
espresso un giudizio che si collocava al di là della ipotesi normativa
disciplinata dalla summenzionata disposizione, giacché il rapporto di lavoro
scrutinato non era in alcun modo riconducibile alla fattispecie della
collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art.409 c.p.c. e 61 d. Igs.
n.276/2003.

2. il motivo è privo di fondamento;

nel proprio iter argomentativo il giudice di seconda
istanza ha scrutinato la fattispecie non trascurando il nomen juris del
contratto – che rappresenta solo uno degli elementi di valutazione per
qualificarne la natura – ma formulando il proprio giudizio all’esito di
un’ampia ricognizione delle testimonianze raccolte, così pervenendo alla
qualificazione del rapporto in termini di collaborazione coordinata e
continuativa disciplinata dagli artt. 61-69 dlgs 2003;

nel procedere al giuridico inquadramento del
rapporto sulla base delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, la
Corte di merito si è conformata all’orientamento espresso dalla giurisprudenza
di legittimità in base al quale “ai fini della qualificazione del rapporto
di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l’iniziale contratto dà vita ad
un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il nomen
iuris non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il
comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento
necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile
per l’accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel
corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole
contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente
prevista”;

tale principio si applica anche nel caso in cui il
rapporto trovi la sua origine in una legge che ne abbia previsto o favorito
l’instaurarsi, dovendosi anche in tale ipotesi accertare se il rapporto, pur
sorto in base ad una volontà che, dando attuazione alla legge, ne abbia
recepito anche la qualificazione, abbia poi avuto una esecuzione che, per la
sua diversità dalla previsione normativa, esprima una nuova sopravvenuta
volontà negoziale, la quale conferisca nuovo contenuto al rapporto” (vedi
Cass. 27/10/2003 n. 16119, Cass. 21/10/2014 n.22289); in tal senso, il
procedimento ermeneutico cui rimandano i ricordati dieta, è stato ritenuto
applicabile anche alla ipotesi di contratto di lavoro a progetto,
normativamente delineato come forma particolare di lavoro autonomo, ai sensi
dell’art. 61 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (cfr. Cass. cit. n.22289/2014
Cass. 25/6/2013 n. 15922);

di tutto ciò ha tenuto conto la Corte d’appello la
quale, all’esito dello scrutinio delle acquisizioni probatorie, è pervenuta al
convincimento che le caratteristiche del rapporto di lavoro erano maggiormente
confacenti alla , nozione della parasubordinazione, avendo l’appellante svolto
prestazioni lavorative inserite in un’ampia organizzazione “caratterizzata
nel caso in esame da una chiara continuità nel tempo e nella messa a
disposizione delle energie lavorative”;

nel riferirsi al progetto di lavoro, ha evidenziato
che esso non appariva enunciato nel contratto sottoscritto dalle parti, onde
rinveniva applicazione la sanzione della conversione automatica in rapporto di
lavoro subordinato ex art.69 d.l d.lgs. n.276/2003;

in tal senso si è conformata all’orientamento di
questa Corte secondo cui ammettere la conversione di una mera collaborazione in
lavoro subordinato a tempo indeterminato, in mancanza di progetto, non
contraddice principi superiori né costituzionali; si tratta di realizzare una
parificazione di disciplina, di garantire uno standard di trattamento minimo
per rapporti continuativi (in mancanza di progetto) e connotati da una comune
subordinazione di tipo economico; e ciò rientra nella potestà del legislatore
oltre ad apparire giustificato, in ragione della comune appartenenza all’area
della “dipendenza economica” e della connessione funzionale delle stesse
prestazioni lavorative continuative con l’impresa altrui (in ragione cioè della
esistenza della para-subordinazione in capo al co.co.co );

l’assenza del progetto prevista dal primo comma
dell’art.69 (da interpretare, in base all’art. 24 della legge 92/2012, nel
senso che “l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento
essenziale di validità” del rapporto di collaborazione coordinata e
continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato), concretizza il venir meno
dell’elemento costitutivo della fattispecie legale, che si caratterizza proprio
in virtù dell’esistènza di uno specifico progetto con i requisiti e le
caratteristiche dettati dalla legge;

e tale ipotesi ricorre sia quando non sia stata
provata mediante la produzione del contatto o l’espletamento delle prove
ammissibili la pattuizione di alcun progetto (così come nella specie), sia
quando il progetto effettivamente pattuito non sia conforme alle sue
caratteristiche, difettando gli elementi di specificità ed autonomia che sono
ritenuti necessari (vedi sul punto Cass. 29/3/2017 n.8142);

al cospetto di tale strutturato iter motivazionale,
conforme a diritto per quanto sinora detto, la articolata censura, sotto
l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge,
degrada in parte verso la richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei
fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34476,
Cass., Sez. Un., 17/12/2019, n. 33373);

la complessiva censura traligna, in parte qua, dal
modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc.
civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli
accadimenti, senza autenticamente confrontarsi con la ratio decidendi) ma
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di
legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito;

il giudizio di cassazione è infatti un giudizio a
critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare
collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di
cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un
controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di
riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa;

ne consegue che la parte non può limitarsi – come
nella specie – a censurare la complessiva valutazione delle risultanze
processuali contenuta nella sentenza impugnata con riferimento alla reale
natura del rapporto, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al
fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (vedi Cass.
6/3/2019 n.6519);

in tale prospettiva deve ritenersi che il Collegio
del merito, all’esito del vaglio del complessivo quadro istruttorio, abbia
congruamente sussunto la fattispecie scrutinata nella disposizione normativa di
riferimento e che la formulata critica con la quale ci si duole della
applicazione “dell’art.69 comma primo oltre il caso in esso
considerato”, sia destituita di fondamento;

in definitiva, alla luce delle sinora esposte
considerazioni, il ricorso è respinto;

le spese seguono la soccombenza, liquidate come da
dispositivo;

trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso
a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, ove dovuto.

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