Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26484

Rapporto di lavoro dipendente, Amministratore unico,,
Attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di altri, Assenza di
prova

Fatti di causa

 

1. G.I. ricorre per cassazione, affidandosi a
quattro motivi, contro il decreto del Tribunale di Napoli del 21 novembre 2019,
reiettivo dell’opposizione ex art. 98 l.fall. da lui promossa avverso la
mancata ammissione al passivo del fallimento J.A. s.r.l., con il privilegio di cui
all’art. 2751-bis, n. 1, cod. civ., del proprio preteso credito di € 324.689,91
(di cui € 101.635,58 per T.F.R.) asseritamente derivante dal rapporto di lavoro
dipendente, con qualifica di “Quadro”, dal medesimo intrattenuto con la
menzionata società in bonis (di cui era il socio unico al momento della sua
dichiarazione di fallimento, ed era stato amministratore unico in plurimi
periodi della storia imprenditoriale della società) dall’1 giugno 1990 all’1
giugno 2015. La curatela fallimentare resiste con controricorso, ulteriormente
illustrato da memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ., altresì proponendo
ricorso incidentale con un motivo.

1.1. Quel tribunale, ricordato che la richiesta di
insinuazione dello I. era stata rigettata dal Giudice delegato, «in conformità
al parere espresso dalla curatela fallimentare, in ragione di una eccezione di
inadempimento nello svolgimento della sua attività di amministratore e con
riserva di esercitare nei confronti dell’istante l’azione di responsabilità»,
ha preliminarmente osservato che, «a fondamento della propria richiesta,
l’opponente, pur in assenza di un contratto scritto costitutivo del rapporto di
lavoro, produce buste paga, certificazioni uniche ed estratto contributivo che,
nella sua prospettazione, dimostrerebbero l’esistenza del rapporto di lavoro ed
il suo svolgimento», e che, «nel corso del giudizio di opposizione, si è
costituita la procedura fallimentare, che introduce una obiezione ancor più
radicale, in quanto deduce la nullità/inesistenza del rapporto di lavoro ed in
via subordinata l’annullabilità dello stesso per essere stato instaurato in
conflitto di interessi. […]. La curatela opposta produce, infatti, in
giudizio la visura storica della società fallita da cui emerge che G.I. era il
socio unico della J.A. s.r.l. al momento della dichiarazione di fallimento ed è
stato amministratore unico in plurimi periodi della storia imprenditoriale
della società e da ciò desume l’assenza di prova dei fatti costitutivi del
rapporto di lavoro, non essendovi dimostrazione del fatto che l’opponente abbia
prestato la propria attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione di
altri». Successivamente ha così opinato: i) «in accoglimento della
ricostruzione storico-giuridica formulata dalla parte opposta, e con
considerazione assorbente e logicamente precedente rispetto al vaglio
dell’eccezione subordinata di compensazione con il maggiore controcredito che
la curatela afferma di vantare per i danni cagionati nell’esercizio delle
funzioni di amministrazione, la domanda di ammissione veicolata
nell’opposizione deve essere rigettata. La parte opposta ha infatti dimostrato
in giudizio che G.I. è stato socio unico ed amministratore della società
fallita mediante la suddetta visura camerale storica, oltre che in ragione
dello stesso meccanismo istruttorio della non contestazione. […] Inoltre, e a
conferma del fatto che la persona fisica dell’opponente esercitasse
effettivamente l’attività di amministratore, la procedura opposta ha anche
prodotto in giudizio la lettera di licenziamento dell’opponente, quale
lavoratore dipendente con qualifica di quadro, firmata da lui stesso in veste
di amministratore […]. Da ciò si desume che effettivamente non vi è prova
alcuna del fatto che G.I. esercitasse un reale ruolo di lavoratore dipendente
nella fallita J.A. s.r.l. e la documentazione da lui depositata in giudizio, di
formazione della fallita società e quindi riconducibile allo stesso
amministratore, non consente di ritenere provato l’effettivo svolgimento di
attività lavorativa subordinata. Nella stessa prospettazione contenuta nella
citazione in opposizione, e dai successivi verbali ad atti di causa del
giudizio di opposizione, non emerge chi sarebbero le persone sotto la cui
direzione l’opponente avrebbe esercitato le proprie attività di quadro né quali
fossero in concreto le mansioni da lui svolte. L’assenza di indicazione
nell’atto introduttivo anche di quali fossero l’orario di lavoro ed i giorni di
lavoro rende quindi inammissibile la prova testimoniale richiesta dall’opponente
e corrobora la prospettazione di controparte secondo cui, in realtà, G.I. non
ha mai svolto un ruolo di lavoratore dipendente entro la compagine della
società fallita, per essere invece il vertice dell’impresa e quindi colui che
esercitava l’attività di gestione della società. L’opponente, che in veste di
attore è gravato dell’onere della prova dei fatti costitutivi della pretesa
(art. 2697 c.c.), non ha quindi dimostrato l’esistenza di un effettivo e valido
rapporto di lavoro subordinato con la società fallita…».

 

Ragioni della decisione

 

1. Il primo motivo del ricorso dello I., rubricato
«Violazione e falsa applicazione di norma di diritto ed in particolare degli
artt. 95 e 99 del r.d. n. 267/41, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3,
c.p.c.», ascrive al tribunale di aver «accolto l’eccezione di
nullità/inesistenza del rapporto di lavoro sollevata, per la prima volta, dalla
curatela in sede di giudizio di opposizione, non considerando che il fatto
presupposto (id est il rapporto di lavoro subordinato intercorso con la soc.
J.A. s.r.l.) era stato ammesso e non contestato in sede di verifica della
domanda di ammissione al passivo dalla stessa curatela che, di contro, aveva
proposto la esclusione del credito in virtù della eccezione di compensazione
con un presunto controcredito da inadempimento». Assume il ricorrente che «il
riesame a cognizione piena del risultato della cognizione sommaria del rito
della verifica demandato al giudice dell’opposizione, se, da un lato, non
esclude l’immutabilità del thema probandum, aperto a nuove allegazioni
istruttorie, dall’altro esclude la modifica del thema disputandum».

Una siffatta doglianza si rivela infondata.

1.1. Costituisce, infatti, consolidato principio di
questa Corte che, «nel giudizio di opposizione allo stato passivo, il curatore
può introdurre eccezioni nuove, ossia non formulate già in sede di verifica»
(cfr. Cass. n. 27940 del 2020; Cass. n. 27902 del 2020; Cass. n. 22386 del
2019; Cass. n. 22784 del 2018; Cass. n. 8246 del 2013). Si tratta, invero, di
una facoltà che può essere espletata in ogni caso, come ragione di contrasto
nel merito all’altrui opposizione al decreto ex artt. 98-99 l.fall., per cui il
corrispondente giudizio, anche per questa via, declina la sua portata di
riesame a cognizione piena della pretesa avanzata, secondo l’effetto pienamente
devolutivo e sia pure entro i limiti della questione posta con la domanda. Del
resto, il contegno difensivo, ove pure adesivo, eventualmente assunto in sede
di verifica dal curatore non esime il giudice dall’esame della stessa domanda,
senza alcun automatismo.

1.1.1. In altri termini, alla stregua del ruolo e
dei poteri del curatore, come ridisegnati dopo la riforma del 2006-2007, «nel
giudizio di opposizione allo stato passivo non opera, nonostante la sua natura
impugnatoria, la preclusione di cui all’art. 345 cod. proc. civ., in materia di
ius novorum, con riguardo alle nuove eccezioni proponibili dal curatore, in
quanto il riesame, a cognizione piena, del risultato della cognizione sommaria
proprio della verifica, demandato al giudice dell’opposizione, se esclude
l’immutazione del thema disputandum e non ammette l’introduzione di domande
riconvenzionali della curatela, non ne comprime tuttavia il diritto di difesa,
consentendo, quindi, la formulazione di eccezioni non sottoposte all’esame del
giudice delegato» (cfr., ex multis, Cass. n. 27940 del 2020, in motivazione;
Cass. n. 27902 del 2020; Cass. n. 21490 del 2020; Cass. n. 19003 del 2017;
Cass. n. 25728 del 2016).

1.2. Va considerato, poi, che le Sezioni Unite di
questa Corte, componendo il contrasto tra i due orientamenti formatisi nella
giurisprudenza di legittimità in relazione alla natura del rapporto tra società
di capitali e suo amministratore, hanno sancito che l’amministratore unico di una
tale società (nella specie si trattava di una s.p.a., ma, evidentemente,
conclusioni analoghe valgono per la s.r.l.) è legato alla stessa da un rapporto
di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra
persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è
compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c. (cfr. Cass., SU, n.
1545 del 2017). In tale sentenza, peraltro, è stato opportunamente precisato
che non può escludersi che s’instauri, tra la società e la persona fisica che
la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che
assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice di merito, le
caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera (come già
indicato da Cass. n. 1796 del 1996).

1.2.1. Posto, allora, che la richiesta di
insinuazione dello I. si fondava sull’asserita esistenza di un rapporto di
lavoro dipendente da lui intrattenuto con la J.A. s.r.l. in bonis,
evidentemente diverso ed ulteriore rispetto a quello, di tipo societario, da
lui pure pacificamente mantenuto, con la medesima società, in qualità di suo
amministratore unico, sarebbe stato onere del medesimo allegare e provare i
fatti costitutivi dell’invocato rapporto lavorativo, sicché le ulteriori
eccezioni sollevate dalla curatela costituendosi in sede di opposizione
investivano, comunque, quei fatti costitutivi e non certo altri rapporti
giuridici.

1.2.2. In altri termini, il rapporto controverso
dedotto in giudizio con il ricorso in opposizione è rimasto identico e la
curatela, ivi costituendosi, lungi dal dilatarne il perimetro, ha sollevato
eccezioni – la validità del contratto di lavoro sub specie nullità o
annullamento ex artt. 1394 e 1395 cod. civ.; l’esecuzione della prestazione come
elemento costitutivo della pretesa alla retribuzione ovvero l’inadempimento, la
sufficienza e l’opponibilità del materiale istruttorio prodotto – riguardanti i
fatti costitutivi del medesimo rapporto già devoluto alla cognizione del
tribunale, il quale, del resto, ha ben inteso l’identità del thema disputandum
laddove ha osservato che «la curatela opposta (…) da ciò desume l’assenza di
prova dei fatti costitutivi del rapporto di lavoro, non essendovi dimostrazione
del fatto che l’opponente abbia prestato la propria attività lavorativa alle
dipendenze e sotto la direzione di altri» (cfr. pag. 3 del decreto impugnato).
E ciò rimarcandosi, comunque, la rilevabilità di ufficio dell’eccezione di
nullità in ogni stato e grado del giudizio.

2. Il secondo motivo del ricorso principale, recante
«Violazione e falsa applicazione di norma di diritto e, segnatamente, degli
artt. 2709, 2710 e 2735 cod. civ. e dell’art. 115 c.p.c., nonché del d.l. n.
112/2008 e della legge n. 4/1953 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3,
c.p.c.», censura le argomentazioni con cui il tribunale ha ritenuto
insussistente la prova del dedotto rapporto di lavoro. Assume il ricorrente che
«le buste paga – prodotte in giudizio […] – rappresentando la copia di
competenza del lavoratore del libro unico del lavoro, fanno piena prova nei
confronti del datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2709 e 2710 c.c., e
costituiscono una confessione stragiudiziale di cui il giudice doveva
necessariamente tenere conto. E’ pertanto incorso in errore di diritto il
tribunale nell’aver escluso il credito del ricorrente risultante dalle busta
paga, in quanto le stesse dimostravano di per sé la sussistenza del rapporto e
dei diritti vantati dal dipendente, i relativi fatti costitutivi e l’adesione
ai contratti collettivi di categoria mediante la loro diretta applicazione».
Anche questa doglianza non merita accoglimento.

2.1. Invero, giova premettere che «al curatore …
che agisca non in via di successione in un rapporto precedentemente facente
capo al fallito ma nella sua funzione di gestione del patrimonio di costui, non
è opponibile l’efficacia probatoria tra imprenditori, di cui agli artt. 2709 e
2710 cod. civ., delle scritture contabili regolarmente tenute, senza che tale
inopponibilità, in sede di accertamento del passivo, resti preclusa ove non
eccepita, trattandosi di eccezione in senso lato – e, dunque, rilevabile
d’ufficio in caso di inerzia del curatore – poiché non si riconnette ad una
azione necessaria dell’organo ma al regime dell’accertamento del passivo in sé,
nel cui ambito il curatore, quale rappresentante della massa dei creditori, si
pone in posizione di terzietà rispetto all’imprenditore fallito» (cfr. Cass. n.
27902 del 2020; Cass. n. 22053 del 2019; Cass. n. 15947 del 2017; Cass. n.
14054 del 2015).

2.2. E’ sicuramente vero, poi, che, come questa
Corte ha già più volte statuito, in sede di accertamento del passivo
fallimentare, le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di
lavoro, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di
quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del rapporto di lavoro esistente
e del credito insinuato, alla stregua del loro contenuto, obbligatorio e
penalmente sanzionato dall’art. 5 legge 25 gennaio 1953 n. 4 (cfr. Cass. n.
32395 del 2019; Cass. n. 18169 del 2019; Cass. n. 17413 del 2015), ma è
altrettanto vero che, come puntualizzato proprio dalle testé citate Cass. n.
32395 del 2019 e Cass. n. 18169 del 2019, resta ferma la facoltà della
controparte di contestarne le risultanze con mezzi contrari di difesa o,
semplicemente, con specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrarne
l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del
giudice.

2.2.1. Nella specie, il tribunale partenopeo ha
adeguatamente motivato («…a conferma del fatto che la persona fisica
dell’opponente esercitasse effettivamente l’attività di amministratore, la
procedura opposta ha anche prodotto in giudizio la lettera di licenziamento
dell’opponente, quale lavoratore dipendente con qualifica di quadro firmata da
lui stesso in veste di amministratore […]. Da ciò si desume che
effettivamente non vi è prova alcuna del fatto che G.I. esercitasse un reale
ruolo di lavoratore dipendente della fallita J.A. s.r.l. e la documentazione da
lui depositata in giudizio, di formazione della fallita società e quindi
riconducibile allo stesso amministratore, non consente di ritenere provato
l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa subordinata. Nella stessa
prospettazione contenuta nella citazione in opposizione, e dai successivi
verbali ed atti di causa del giudizio di opposizione non emerge chi sarebbero
le persone sotto la cui direzione l’opponente avrebbe esercitato la propria
attività di quadro, né quale fossero, in concreto, le sue mansioni». Cfr. pag.
4 del decreto impugnato) la ragione della ritenuta insufficienza delle buste
paga allegate dall’odierno ricorrente a fondare la sua pretesa creditoria.

2.2.2. La doglianza, dunque, si risolve,
sostanzialmente, nel tentativo dello I. di opporre alla ricostruzione fattuale
definitivamente sancita dal decreto impugnato una propria alternativa sua
interpretazione, sebbene sotto la formale rubrica di vizio di violazione di
legge, mirando ad ottenerne una rivisitazione (e differente ricostruzione), in
contrasto con il granitico orientamento di questa Corte per cui la denuncia di
violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., non può essere
mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195
del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del
2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi
surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non
consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti
istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo,
censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle
proprie aspettative (cfr. Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. n. 21381 del
2006, nonché la più recente Cass. n. 8758 del 2017).

3. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso dello
I., entrambi formulati con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc.
civ., denunciano l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono
stati oggetto di discussione tra le parti. I fatti il cui esame sarebbe stato
omesso sarebbero, rispettivamente: i) «la sussistenza del rapporto di lavoro
alla luce della documentazione prodotta», ascrivendosi al tribunale di avere
del tutto omesso di valutare le buste paga prodotte dall’opponente; ii) «la
sussistenza del rapporto di lavoro subordinato nel periodo in cui l’odierno
ricorrente era sottoposto al potere di controllo del consiglio di
amministrazione», non rivestendo la carica di amministratore unico.

3.1. Tali doglianze sono scrutinabili congiuntamente
perché affette dalla medesima ragione di inammissibilità.

3.1.1. Le stesse, infatti, obliterano completamente,
da un lato, che l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (ivi formalmente
invocato dallo I.), – nel testo, introdotto dall’art. 54 del d.l. n. 83 del
2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, qui
applicabile ratione temporis, risultando impugnato un decreto decisorio reso il
21 novembre 2019 – riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione
relativo all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio,
da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in
senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o
argomentazioni, sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente,
estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass.
n. 395 del 2021, in motivazione, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del
2018; Cass. n. 14802 del 2017); dall’altro, che non costituiscono “fatti”, il
cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod.
proc. civ. gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da
essi rappresentato (nella specie, l’asserito svolgimento di attività lavorativa
dipendente con mansioni di “quadro”) sia stato comunque preso in considerazione
dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze
probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014).

3.1.2. Nella specie, peraltro, si è già detto,
disattendendosi il secondo motivo del ricorso dello I., che il tribunale ha
espressamente valutato le buste paga da quest’ultimo prodotte, ritenendole
inidonee, alla stregua dell’effettuata complessiva ponderazione delle
risultanze istruttorie, a dimostrare il preteso rapporto lavorativo.

3.1.3. A tanto deve solo aggiungersi che, in ogni
caso, come condivisibilmente affermato dalla difesa della curatela
controricorrente, quando vi è un consiglio di amministrazione, l’amministratore
che intenda chiedere il riconoscimento del proprio diritto di lavoratore
subordinato deve dimostrare che le deleghe conferite non integrino la
situazione di identità soggettiva tra le funzioni di datore di lavoro (titolare
del potere di direzione e sanzionatorio) e la posizione di lavoratore
(soggezione al potere del datore). Alteris verbis, lo I. avrebbe dovuto
dimostrare di aver svolto mansioni lavorative tali da non interferire con le
deleghe conferitegli quale amministratore. Tale prova, però, non è stata
fornita.

4. Venendo, ora, all’unico motivo di ricorso
incidentale del Fallimento J.A. s.r.l., lo stesso – in relazione al quale solo
nella memoria depositata ex art. 380-bis cod. proc. civ. il controricorrente ne
invoca la formulazione in via condizionata, smentita, invece, dal tenore delle
argomentazioni del suo originario controricorso – rubricato «Violazione
dell’art. 112 cod. proc. civ., nonché degli artt. 2094, 2380-bis, 1418, 1325 e
1395 cod. civ. con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, cod. proc.
civ.», ascrive al tribunale di avere «omesso di decidere […] sulle eccezioni
di nullità del contratto di lavoro per mancanza e/o impossibilità della causa
[…] e di annullabilità del contratto per conflitto di interessi del
procuratore nell’autocontrattazione, pur avendo il Fallimento attribuito un
preciso ordine di priorità alle proprie eccezioni cui ha corrisposto una
gerarchia di interessi». Una siffatta doglianza si rivela, però, infondata.

4.1. Si è già detto, infatti, che il decreto
impugnato ha respinto l’opposizione ex art. 98 l.fall. dello I. perché,
sostanzialmente, quest’ultimo «gravato dell’onere della prova dei fatti
costitutivi della pretesa (art. 2697 c.c.), non ha […] dimostrato l’esistenza
di un effettivo e valido rapporto di lavoro subordinato con la società
fallita…» (cfr. pag. 4 del decreto impugnato).

4.2. Non è ipotizzabile, dunque, il vizio di mancata
pronuncia sulle suddette eccezione di merito sollevate dalla curatela
costituendosi in sede di opposizione ex art. 98 l.fall., perché queste ultime,
benché non espressamente esaminate, si rivelano comunque incompatibili con la
statuizione di rigetto della pretesa dello I. per carenza di prova proprio di
quello stesso rapporto di cui era stata eccepita la nullità o l’annullabilità,
così deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima
(arg. da Cass. n. 24593 del 2020; Cass. n. 20718 del 2018).

4.3. Va precisato, inoltre, in merito a quanto
dedotto dalla curatela, nel suo controricorso, circa il proprio interesse ad
ottenere una pronuncia sulle menzionate eccezioni (al fine di esercitare
successivamente, nei confronti dello I., un’eventuale azione di indebito
oggettivo), che i limiti del cd. giudicato endofallimentare, previsti dall’art.
96, comma 6, l.fall. – secondo cui «Il decreto che rende esecutivo lo stato
passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di cui
all’art. 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso» – implicano una
precisa individuazione e limitazione dell’oggetto del processo fallimentare:
che è nel senso secondo cui gli effetti della decisione non vanno oltre il
concorso, perché quella decisione non fa stato fra le parti fuori dal
fallimento (cfr. Cass. n. 27709 del 2020).

Ne deriva il principio della natura endofallimentare
dell’accertamento del credito nell’ambito del procedimento di ammissione al
passivo e delle sue impugnazioni, con effetti dunque limitati al concorso allo
stato passivo (cfr., ex multis, Cass. n. 27709 del 2020; Cass. n. 3957 del
2018; Cass. n. 1646 del 2018; Cass. n. 6524 del 2017; Cass. n. 21201 del 2017;
Cass. n. 525 del 2016; Cass. n. 19960 del 2015; Cass. n. 5095 del 2012; Cass.
n. 18832 del 2008). In altri termini, una cosa è la conclusione del procedimento
volto all’insinuazione al passivo fallimentare, altra sarebbe il giudizio di
ripetizione di indebito, eventualmente intrapreso, innanzi al giudice
competente, con l’ordinario processo di cognizione dal fallimento, nel quale
non potrebbe avere effetti di giudicato l’esito della questione
sull’ammissione, o non, al passivo del credito oggi (vanamente) invocato dallo
I. come risolta in sede fallimentare: dovendosi in sede ordinaria di
cognizione, al contrario, valutare ex novo, in definitiva, la configurabilità,
o meno, ancor prima della sua nullità e/o annullabilità con i conseguenti
effetti restitutori, del rapporto di lavoro dipendente oggi dedotto da
quest’ultimo.

5. In conclusione, sia il ricorso principale dello
I. che quello incidentale del Fallimento J.A. s.r.l. vanno respinti, potendosi
procedere, pertanto, stante la reciproca soccombenza, alla integrale
compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

5.1. Infine, deve darsi atto – in assenza di ogni
discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245
del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente
precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della
pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R.
n. 115/02, i presupposti processuali per il versamento, da parte dello I. e del
Fallimento J.A. s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso principale e
quello incidentale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto,
mentre «spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in
concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute
di esenzione dal suo pagamento».

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale dello I. e quello
incidentale del Fallimento J.A. s.r.l.

Compensa interamente tra le parti le spese di questo
giudizio di legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà
atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte
dello I. e del Fallimento J.A. s.r.l., di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto, rispettivamente, per il ricorso
principale e quello incidentale, giusta il comma 1-bis dello stesso articolo
13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26484
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