Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 ottobre 2021, n. 27321

Rapporto di lavoro, Sospensione dal servizio e dalla
retribuzione, Sanzione disciplinare, Revoca dell’incarico di responsabile,
Risarcimento danni

Fatti di causa

 

1. La Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto
l’appello di G.L. avverso la sentenza del Tribunale di Rossano che aveva
rigettato tutte le domande proposte nei confronti dell’Inps, con separati
ricorsi poi riuniti, volte ad ottenere: l’annullamento della sanzione disciplinare
della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per la durata di mesi
quattro, inflitta con determinazione n. 584/2009; la declaratoria di
illegittimità della revoca dell’incarico di responsabile di Unità di Processo;
il risarcimento dei danni derivati dai provvedimenti adottati dall’ente.

2. La Corte territoriale, per quel che ancora rileva
in questa sede, ha premesso in punto di fatto che al L. era stato contestato di
non essersi attenuto alle disposizioni di servizio impartite dal direttore di
sede e di avere provveduto alla liquidazione di prestazioni in favore di
lavoratori agricoli sebbene fossero in corso verifiche ispettive sulla
genuinità dei rapporti di lavoro denunciati.

3. Il giudice d’appello, ripercorse le fasi del
procedimento disciplinare, ha escluso l’eccepita tardività della contestazione;
ha evidenziato che quest’ultima conteneva la descrizione puntuale delle
condotte, con precisi riferimenti temporali, spaziali e normativi; ha ritenuto
provata l’inottemperanza alle direttive impartite dal superiore gerarchico e,
tenuto conto della gravità della negligenza e dei criteri indicati dal
regolamento di disciplina, ha respinto anche il motivo di appello con il quale
il L. aveva denunciato il difetto di proporzionalità fra illecito e sanzione.

4. Per la cassazione della sentenza G. L. ha
proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali
l’INPS ha opposto difese con tempestivo controricorso.

5. La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma
8 bis del d.l. n. 137/2020, convertito in legge n. 176/2020, per il rigetto del
ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ex
art. 360 n. 5 cod. proc. civ. omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
che è stato oggetto di discussione fra le parti e sostiene, in sintesi, che la
Corte territoriale non ha correttamente valutato la corrispondenza intercorsa
fra le parti né ha considerato che la variazione degli elenchi dei lavoratori
agricoli non rientrava tra le competenze del L., il quale non aveva modo di
verificare se fossero stati effettivamente eliminati i nominativi sospetti.

2. Con la seconda censura G. L. denuncia, ex art.
360 n. 3 cod. proc. civ., , <violazione o falsa applicazione delle norme di
diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro» e sostiene
che ha errato il giudice di appello nell’escludere la tardività del
procedimento disciplinare, la genericità della contestazione, l’assenza di
proporzionalità della sanzione. Evidenzia che le condotte contestate risalivano
al periodo 15/29 giugno 2009 e pertanto l’intervallo temporale di oltre 50
giorni intercorso fra il fatto e l’avvio del procedimento, a prescindere dalla
perentorietà o meno dei termini fissati dal regolamento di disciplina, viola il
principio di tempestività della contestazione. Aggiunge che quest’ultima era
priva della necessaria specificità ed infine rileva che la sanzione irrogata
non poteva essere ritenuta proporzionata all’illecito contestato posto che il
regolamento di disciplina prevede per l’inottemperanza a disposizione di
servizio il rimprovero verbale o la multa.

3. Preliminarmente occorre dichiarare
l’inammissibilità del deposito, unitamente alla memoria ex art. 378 cod. proc.
civ., della sentenza di non luogo a procedere emessa dal G.U.P presso il
Tribunale di Castrovillari il 4 marzo 2016 nel procedimento instaurato a carico
del L. e di altri coimputati per il delitto p. e p. dagli artt. 81, 110, 56 e
323 cod. pen..

Questa Corte ha già affermato che il principio
secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è,
al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora
emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi
in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della
sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art.
372 cod. proc. civ., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata
in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 cod. proc. civ., unicamente
al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In
tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della regula iuris
alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto,
mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione
all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di
stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Ne consegue che in
questi casi deve essere dichiarata l’inammissibilità della produzione della
sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 cod.
proc. civ., che consente il deposito successivo allo spirare del termine di cui
all’art. 369 cod. proc. civ. dei soli atti che riguardano la nullità della
sentenza impugnata nonchè l’ammissibilità del ricorso e del controricorso
(Cass. n. 22376/2017; Cass. n. 10136/2018; Cass. n. 24326/2020; Cass. n.
27304/2020).

4. Entrambi i motivi di ricorso sono inammissibili.

L’appello avverso la sentenza del Tribunale di
Rossano è stato proposto con ricorso depositato il 5 febbraio 2013, sicché, ai
sensi dell’art. 54, 2° comma, del d.l. n. 83/2012, convertito dalla legge n.
134/2012, è applicabile alla fattispecie l’art. 348 ter, 5° comma, cod. proc. civ.
che, in caso di sentenza d’appello confermativa di quella di primo grado,
consente la proposizione del ricorso per cassazione esclusivamente per i motivi
di cui ai numeri da 1 a 4 dell’art. 360 cod. proc. civ..

E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte
il principio secondo cui « nell’ipotesi di “doppia conforme”,
prevista dall’art. 348-ter, comma 5, c.p.c. il ricorrente in cassazione per
evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. deve
indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di
primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono
tra loro diverse.» (Cass. n.
5528/2014; Cass. n.26774/2016; Cass. n. 20994/2019).

A tanto il ricorrente non ha provveduto e pertanto
detta ragione di inammissibilità, per il suo carattere assorbente, esime il
Collegio dal valutare se la censura sia riconducibile al vizio tipizzato
dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e se la stessa sia stata dedotta nei termini
indicati da Cass. S.U. n. 8053/2014 e, fra le più recenti, da Cass. S.U. n.
34476/2019.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo,
innanzitutto perché formulato senza il necessario rispetto dell’onere di
specifica indicazione imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ..

La censura, infatti, è tutta incentrata su documenti
(contestazione e regolamento di disciplina approvato con delibera n. 151/2007)
non trascritti nel ricorso, quantomeno nelle parti rilevanti, ed in relazione
ai quali l’atto non fornisce indicazioni quanto ai tempi ed ai modi della
produzione nel giudizio di merito.

Nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed
essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la
possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti di completezza e
di specificità imposti dal richiamato art. 366 cod. proc. civ. perseguono la
finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa
cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e,
pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti è necessario che di
quegli atti il ricorrente riporti il contenuto, mediante la trascrizione delle
parti rilevanti, precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli
stessi siano stati acquisiti al processo. Occorre, poi, che la parte assolva al
distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 n. 4 cod.
proc. civ., perché l’art. 366 cod. proc. civ., come modificato dall’art. 5 del
d.lgs. n. 40 del 2006, riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso
mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del
documento, sempre che lo stesso sia stato specificamente indicato
nell’impugnazione (Cass. n. 19048/2016).

I richiamati principi sono stati ribaditi dalle
Sezioni Unite in recente decisione con la quale si è affermato che «in tema di
ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366, comma
1, n. 6, c.p.c., le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito
qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza
riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali
indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza
dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta
presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero
ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di
parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità» (
Cass. S.U. n. 34469/2019).

5.1. A detta ragione di inammissibilità va, poi,
aggiunto che nella deduzione del vizio di violazione di legge è onere del
ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e
soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti,
intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in
diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con
le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle
stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla
corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il
fondamento della lamentata violazione ( Cass. n. 17570/2020; Cass. n.
16700/2020).

Il motivo che neppure indica le norme di legge e le
disposizioni del CCNL che si assumono violate ( si fa solo un generico
riferimento al CCNL 1.10.2007 per il personale del comparto enti pubblici non
economici e per il resto la censura si incentra sul regolamento interno di
disciplina, ossia sul codice disciplinare adottato dal datore di lavoro che non
ha valore normativo, né primario né secondario), in realtà finisce per
sollecitare un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie quanto alla
tempestività e specificità della contestazione nonché alla proporzionalità
della sanzione.

6. In via conclusiva il ricorso deve essere
dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, si deve dare atto, ai fini
e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle
condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo
unificato, se dovuto dal ricorrente.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in €
200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per competenze professionali, oltre al
rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit.
art. 13, comma 1- bis, se dovuto.

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