Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 ottobre 2021, n. 27565

Rapporto di lavoro, Attività di portierato, Accertamento del
diritto all’intera retribuzione

Rilevato

 

che la Corte di Appello di Napoli, cori sentenza
pubblicata in data 8.3.2017, ha rigettato il gravame interposto da G.R., nei
confronti di M.G., C.S., P.B. e M.G., avverso la sentenza del Tribunale della
stessa sede n. 20308, resa il 26.11.2013, con la quale era stato respinto il
ricorso proposto dal lavoratore al fine di ottenere <<l’accertamento del
diritto all’intera retribuzione per l’attività di portierato svolta
dall’1.9.1978 in favore di tutti i condomini del Condominio via B., n. (..) –
Parti Comuni – Marano “Parco M.M.R.” (composto da sette fabbricati e
quattromila metri quadrati di spazi destinati a verde ) di cui facevano parte
gli appellati, in quanto comproprietari delle unità immobiliari presenti nel
suddetto Parco M., con conseguente obbligazione prò quota degli stessi nella
misura indicata nelle tabelle allegate al ricorso e la condanna dei convenuti
al pagamento in proprio favore, a titolo di arretrati per retribuzioni maturate
e non percepite dal mese di settembre 2007 al mese di marzo 2012 dell’importo
di Euro 707,00>>;

che per la cassazione della sentenza ricorre G.R.
articolando tre motivi, cui M.G., C.S., P.B. e M.G. resistono con
controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste

 

Considerato

 

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento
all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la
violazione e falsa applicazione degli artt. 36
Cost.; 1173, 1175,
1375, 2239, 2094 e 2099 c.c.; 112 e 115 c.p.c.
ed in particolare, si deduce che la decisione impugnata incorrerebbe nei vizi
denunziati, peraltro con motivazione priva di un solido legame logico con la
fattispecie sottoposta al suo vaglio, avendo i giudici di merito erroneamente
ritenuto che gli intimati non dovessero corrispondere al ricorrente la somma
richiesta <<per la mancanza della loro qualità di condomini, ma non certo
perché non avessero ricevuto la prestazione lavorativa del R.>>; 2) in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione degli artt. 36
Cost.; 1324, 1363,
1366 e 2099 c.c.,
<<anche in relazione agli artt. 2697 e 2729 c.c.; 112, 115, 116 c.p.c.>>,
per avere la Corte di merito <<male interpretato la delibera condominiale
del 14.6.2012>> ed avere, pertanto, ritenuto che <<tra il R. e gli
appellati non è intercorso alcun rapporto di lavoro subordinato>>; 3) in
riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.,
<<l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, la cui
esistenza risulta dalla sentenza, che ha costituito oggetto di discussione tra
le parti, anche in relazione agli artt. 2094, 2099 e 2697 c.c.; 112, 115, 116 c.p.c.>>, per avere i giudici di secondo
grado erroneamente ritenuto che con il ricorso introduttivo del giudizio il R.
avesse chiesto <<l’accertamento del diritto all’intera retribuzione per
l’attività di portierato svolta dall’1.9.1978 in favore di tutti i condomini
del Condominio via B. n. (..)>>, con conseguente omessa valutazione e
motivazione delle ragioni esposte a sostegno della domanda e che porterebbero,
a parere del ricorrente, ad una ricostruzione del fatto storico (mancata
retribuzione della prestazione da parte di ciascun utilizzatore) diversa da
quella ritenuta ed argomentata dal Tribunale, unicamente focalizzata sul non essere
i condomini gli appellanti; che i primi due motivi – che possono essere
trattati congiuntamente per ragioni di connessione – sono inammissibili sotto
diversi e concorrenti profili. Al riguardo, è da premettere che il ricorso è
stato redatto senza il rispetto dei canoni di specificità normativamente
prescritti a pena di inammissibilità, poiché, innanzitutto, viola il disposto
dell’art. 366, primo comma, n. 3, c.p.c.,
mancando l’esposizione che garantisca a questa Corte di avere una chiara e
completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia,
senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso>> (v. Cass.,
SS.UU., n. 11653/2006; Cass. nn. 8035/2020; 16103/2016, cit.); prescrizione, questa,
che risponde <<non ad una esigenza di mero formalismo, ma alla conoscenza
chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e/o processuali, che permetta
di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al
provvedimento impugnato>> (v., ancora, Cass. n. 8035/2020);

che, inoltre, la parte ricorrente neppure ha
specificato sotto quale profilo le norme che si assumono violate sarebbero
state incise, né ha precisato, per ciascuna delle ragioni esposte nella
sentenza sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni, di fatto e
di diritto, idonee a giustificare le censure, in spregio alla prescrizione di
specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4,
c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito,
debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale
indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche
argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate
affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in
contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di
legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015;
Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009). Per la qual cosa, le doglianze mosse al
procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono
in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi
delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011), anche in considerazione del fatto che
nella sentenza impugnata la decisione è supportata dalla verifica analitica
degli elementi delibatori, nonché dal richiamo pertinente della giurisprudenza
di legittimità (v., in particolare, pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata);

che, infine, le censure sollevate sono direttamente
ancorate all’esame di documentazione – quale la delibera condominiale del
14.6.2012 – non prodotta, né indicata tra i documenti offerti in comunicazione
con il ricorso di legittimità, né trascritta, in violazione del disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c. ed in spregio
del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere
della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si
riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare
ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito
della questione (tra le molte, con arresti costanti, Cass. n. 14541/2014),
poiché il ricorso per cassazione deve contenere tutti gli elementi necessari a
costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito
ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia
necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti
concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013); per la qual cosa, questa Corte non è
stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle doglianze svolte
dal ricorrente, le quali appaiono dirette, nella sostanza, a sollecitare un
ulteriore esame del merito, non consentito in questa sede;

che altresì inammissibile è il terzo motivo, in cui
non è possibile la verifica di quanto dedotto dal R., non avendo egli
riportato, né trascritto, il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado,
né l’atto di gravame, ancora una volta in violazione del disposto dell’art. 366, primo comma, n. 6, del codice di rito;
che per le considerazioni che precedono, il ricorso va dichiarato
inammissibile;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono
la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla
data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui
all’art. 13, comma 1 -quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in
Euro 1.800,00 per compenso professionale ed Euro 200,00 per esborsi, oltre
spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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