Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 ottobre 2021, n. 27784

Compensi professionali, Restituzione delle trattenute
effettuate a titolo di IRAP, Accertamento

Rilevato

 

1. A.E. e T.M., entrambi Avvocati alle dipendenze
dell’INAIL, avevano convenuto in giudizio quest’ultimo, innanzi al giudice del
lavoro del Tribunale di Taranto, per chiedere l’accertamento della
illegittimità delle trattenute operate dall’Istituto, dal primo quadrimestre
dell’anno 2006, sulle quote di retribuzione corrisposte a titolo di compensi
professionali e la condanna dell’Inail alla restituzione delle somme assunte
come trattenute illegittimamente relativamente all’anno 2006 ed ai primi
quadrimestri dell’anno 2007;

2. i ricorrenti, precisato che i compensi
professionali, disciplinati dall’art. 3 del Regolamento interno dell’Inail n.
788 del 2003, sino all’anno 2005 erano stati assoggettati alle ritenute di
legge (IRPEF e contributi previdenziali ed assistenziali per la quota a carico
dei dipendenti), avevano lamentato che, successivamente all’entrata in vigore
dell’art. 1 c. 208 della I. n. 266 del 2005, con decorrenza dal primo
quadrimestre dell’anno 2006, l’Istituto aveva assoggettato i compensi
professionali alla trattenuta corrispondente agli oneri fiscali (IRAP) e contributivi
gravanti sul datore di lavoro;

3. nel contraddittorio instaurato nei confronti
dell’Inail, che aveva contestato la fondatezza delle domande, il giudice di
primo grado dichiarò cessata la materia del contendere con riguardo alla
domanda di restituzione delle trattenute effettuate a titolo di IRAP e rigettò
le ulteriori domande;

4. adita dagli Avvocati, la Corte di Appello di
Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità
delle decurtazioni operate dall’Istituto ed ha condannato quest’ultimo al
pagamento delle differenze retributive e alla integrale ricostituzione delle
trattenute operate a titolo di IRAP, oltre accessori;

5. la Corte territoriale, precisato che la sentenza
della Corte costituzionale n. 33 del 2009, in quanto interpretativa di rigetto,
non era vincolante per il giudice, ha ritenuto che: la disposizione contenuta
nell’art. 1 c. 208 della I. n. 266 del 2005 disciplinava, come desumibile dalla
rubrica e dal testo, gli “oneri del personale” e non il
“contenimento oneri personale avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche”; la disposizione, inserita in un gruppo di norme dedicate al
pubblico impiego, tutte funzionali all’obiettivo di uniformare i criteri di
determinazione e valutazione della spesa pubblica nella miriade degli enti
interessati, aveva introdotto solo criteri contabili omogenei e trasparenti, in
ossequio al principio di buona amministrazione, e non aveva creato tetti di
spesa; le trattenute operate dall’Inail erano illegittime perché fondate su una
interpretazione del citato art. 1 c. 258 erronea, in quanto finiva con
l’addossare sul solo lavoratore la contribuzione previdenziale, introducendo,
per tal via, non una “mera deroga al disposto di cui all’ art. 2115
cod.civ. ma, al contrario, una previsione assolutamente eccezionale perciò
all’evidenza insuscettibile di essere introdotta con lo strumento legislativo
della Finanziaria”;

6. avverso questa sentenza l’INAIL ha proposto
ricorso per cassazione fondato su due motivi al quale A.E. e T.M. hanno
resistito con controricorso. Le parti hanno depositato memorie.

 

Considerato

 

Sintesi dei motivi

L’Inail denuncia:

7. con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c. 1
n. 3 cod.proc.civ., la violazione e/ o falsa applicazione dell’ art. 1 c. 208
della I. n. 266 del 2005, imputando alla Corte territoriale di avere disatteso
l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n.
33/2009, sulla base della quale era stato fondato il giudizio di rigetto della
questione di illegittimità costituzionale;

8. con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.
1 n. 3, n.4, n.5, la violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 1 c. 208
della I. n. 266 del 2005, in relazione all’art. 12 disp. gen.; dell’art. 112
cod.proc.civ., in relazione agli elementi interpretativi dell’art. 1 c. 208
della I. n. 266 del 2005; omesso esame di elementi interpretativi decisivi per
il giudizio e oggetto di discussione tra le parti;

9. il ricorrente addebita alla Corte territoriale di
avere violato il canone interpretativo letterale e di avere liquidato la
complessa questione relativa all’interpretazione del comma 208 sul solo rilievo
che la sua rubrica recava la titolazione “oneri del personale”;
sostiene che, in linea con una tecnica redazionale ormai diffusa, la Legge Finanziaria
è composta da un unico articolo, composto da più commi non contraddistinti, in
sede di approvazione, da una propria rubrica; contesta alla Corte territoriale
di non avere dato rilievo alle ulteriori indicazioni provenienti dalla
Relazione illustrativa e dalla Relazione tecnica al disegno di legge
finanziaria, prodotte dall’Istituto nel corso del giudizio, e di non avere
rispettato i canoni dell’interpretazione teleologica;

 

Esame dei motivi

10. i due motivi del ricorso, da trattarsi
congiuntamente in quanto tutte le censure formulate sono correlate alla
questione dell’interpretazione dell’art. 1 comma 208 della legge 23 dicembre
2005, n. 266, sono fondati;

11. la disposizione innanzi richiamata dispone:
“Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali
comunque dovuti al personale dell’avvocatura interna delle amministrazioni
pubbliche sulla base di specifiche disposizioni contrattuali sono da
considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di
lavoro”;

12. la Corte costituzionale, con la sentenza n.
33/2009, ha rigettato la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale
di Siena (Ordinanza 28 marzo 2008) e ha ritenuto conforme a Costituzione
l’accollo contributivo previsto dall’ art. 1 c. 208 della I. n. 266 del 2005 ad
integrale carico del lavoratore la parte relativa di retribuzione concernente i
compensi professionali;

13. in continuità con l’indirizzo già affermato da
questa Corte (Cass. Sez. Un. n. 22601 del 2004, Cass. Sez. Un. n. 2175 del
1969; Cass. n. 5747/2007, Cass. n. 16838/2017, Cass. n. 29375/2018, le ultime
due pronunciate in fattispecie pressocchè sovrapponibili a quella in esame)
deve affermarsi che l’interpretazione di una norma sottoposta a scrutinio di
costituzionalità, offerta dalla Corte Costituzionale in una sentenza
dichiarativa dell’infondatezza della questione, pur non essendo vincolante per
il giudice, chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta,
per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo
ermeneutico, che non può essere disconosciuto senza valida ragione, soprattutto
quando questa abbia ricevuto obiettiva conferma da parte della successiva
giurisprudenza, costituzionale o ordinaria, come è avvenuto nel caso in esame;

14. questa Corte ha osservato che il fondamento
comune delle due distinte attività, pur finalisticamente diverse, esige infatti
che, al fine dell’utile risultato della certezza del diritto oggettivo, le
interpretazioni non vengano a divergere, se non quando sussistano elementi
sicuri per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza
affermata;

15. nel caso in esame l’interpretazione dell’art. 1
c. 208 cit., offerta dalla Corte costituzionale, risulta confermata dalla
successiva giurisprudenza contabile (deliberazione della Corte dei conti a
Sezioni Riunite n. 33/2010) e dalla univoca giurisprudenza di questa Corte
(Cass. n. 31989/2018, Cass. n. 29375/2018, Cass. n. 16579/2017, Cass. n.
16838/2017, Cass. n. 17356/2017);

16. la Corte costituzionale ha esaminato la
questione di costituzionalità che le era stata prospettata, attribuendo alla L.
n. 266 del 2005, art. 1, comma 208 proprio il significato che la sentenza oggi
impugnata ha inteso negare, e su tale base interpretativa si è svolto il
giudizio di legittimità costituzionale;

17. i primi due motivi sono stati già scrutinati da
questa Corte in recenti pronunce emesse in fattispecie del tutto analoghe a
quella oggetto della presente controversia Cass. nn. 31989 e 29375 del 2018 e
nn. 16579, 16838, 17356 del 2017);

18. in tali decisioni, in fattispecie, come in
quella in esame, disciplinate ratione temporis, dall’art. 1 c. 208 della I. n.
266 del 2005, muovendo dalla sentenza della menzionata sentenza n. 33 del 2009
della Corte Costituzionale, è stato affermato che, in tema di compensi
professionali da liquidare agli avvocati appartenenti al ruolo professionale
degli enti “parastatali”, la misura delle somme da corrispondere per
onorari e diritti giudizialmente liquidati deve essere comprensiva di tutti gli
oneri contributivi al lordo, anche di quelli cd. riflessi di competenza del
datore di lavoro;

19. il Collegio ritiene di dare continuità ai
principi affermati nelle sentenze sopra richiamate, perché ne condivide le
argomentazioni motivazionali, da intendersi qui richiamate ex art. 118 disp.
att. cod.proc.civ.;

20. il testo della disposizione contenuta nell’art.
1 c. 208 della I. n. 266 del 2005 è estremamente chiaro laddove prevede che:
“Le somme finalizzate alla corresponsione di compensi professionali…. sono
da considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di
lavoro”;

21. l’uso delle parole “le somme… sono da
considerare comprensive degli oneri riflessi a carico del datore di
lavoro”, nel comune significato della lingua italiana, vuol dire che le
somme da corrispondersi agli avvocati a titolo di compensi devono considerarsi
comprensive e, cioè al lordo, degli oneri riflessi, mentre in nessun punto del
testo si fa cenno alla imposizione, alle diverse pubbliche amministrazioni
destinatarie, di indicazioni di esclusivo rilievo contabile, né tale
possibilità pare sostenibile proprio alla luce della diversa tipologia di enti
pubblici cui la disposizione si rivolge (parastato, enti locali, etc..) cui si
riconnettono situazioni gestionali e contabili assai diverse;

22. l’art. 12 preleggi impone che debba applicarsi
la legge secondo il significato fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore;

23. il criterio testuale si basa sulla
determinazione del significato dell’espressione legislativa in base al suo
valore semantico secondo l’uso linguistico generale;

24. è stato chiarito (Cass. 11359/1993; SS.UU.
4000/1982; 5128/2001) che, nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di
una norma di legge sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco,
il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve
ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercè
l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, specie se,
attraverso siffatto procedimento, possa pervenirsi al risultato di modificare
la volontà della norma sì come inequivocabilmente espressa dal legislatore e
che soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si
appalesi altresì infruttuoso II ricorso al predetto criterio ermeneutico
sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti
in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al
procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e
funzionale ad ovviare all’equivocità del testo da interpretare, potendo,
infine, assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale
soltanto nel caso, eccezionale, in cui l’effetto giuridico risultante dalla
formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo, non
essendo consentito all’interprete correggere la norma nel significato tecnico
proprio delle espressioni che la compongono nell’ipotesi in cui ritenga che
tale effetto sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma
stessa è intesa;

25. la chiarezza del testo dell’art. 1 c. 208 della
I. n. 266 del 2005 non è affatto attenuata dal fatto che nella rubrica è stato
soppresso l’espresso richiamo alla finalità del risparmio di spesa, all’atto
dell’approvazione del disegno di legge: tutti i 602 commi dell’unico articolo
della legge finanziaria n. 266 del 2005 sono stati approvati eliminando le
rubriche; dalla lettura del gruppo di commi che immediatamente precedono e
seguono il comma 208 si evince che tutti hanno ad oggetto interventi espliciti
sulla spesa derivante dall’impiego pubblico (così ad es. il comma- 213 che
prevede la soppressione di diverse ipotesi di concessione di indennità di
trasferta o il comma 210 che limita i criteri di computo dell’equo indennizzo
per causa di servizio);

26. diversamente da quanto prospettato dai
controricorrenti, nel controricorso e nella memoria, non è dato ricavare alcun
argomento ermeneutico dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 83 del 2013,
la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ articolo 25 della
legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle
università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al governo
per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), che
escludeva l’applicazione a professori e ricercatori universitari dell’art. 16,
comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, precludendo a tale categoria la facoltà, riconosciuta
agli altri dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici,
di permanere in servizio per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di
età per il collocamento a riposo per essi previsto, previa valutazione
favorevole dell’amministrazione di appartenenza, secondo i criteri nel medesimo
art. 16 indicati; il riferimento contenuto nella pronuncia alla
irragionevolezza della disposizione, perché non giustificata da ricadute
significative sulla finanza in ragione della sua operatività nell’ambito di un
settore professionale numericamente ristretto, perciò inidoneo a produrre
significative ricadute sulla finanza pubblica, non può valere infatti ad
attribuire alla disposizione contenuta nel c. 208 un significato diverso da
quello innanzi ricostruito;

27. come già deciso dalla Corte Costituzionale,
nessun dubbio di legittimità costituzionale può sorgere ed all’uopo basta
richiamare la sentenza n. 33/2009, le cui ragioni continuano a dimostrarsi
prevalenti anche rispetto ai dubbi sollevati dai controricorrenti;

28. non risulta suffragata da idonea argomentazione
l’affermazione del collegamento esistente tra l’art. 2 della Costituzione con
il principio della parità degli oneri contributivi enunciato dall’art. 2115
cod. civ. “salvo che la legge disponga diversamente”;

29. la deroga al principio del concorso negli oneri
contributivi è, nel caso di specie, limitata alle sole somme erogate per
compensi professionali che, seppure aventi natura retributiva, assumono un
aspetto accessorio dell’intera retribuzione;

30. se non può negarsi che un diverso assetto,
comunque selettivamente limitato ai soli compensi professionali, del riparto
dell’onere contributivo incide necessariamente sul quantum della erogazione
netta, va pure detto che la possibilità di operare tale deroga da parte della
legge non lede la competenza della contrattazione collettiva perché
l’intervento, come rilevato dalla Corte costituzionale riguarda il regime degli
oneri contributivi che accedono alla prestazione e non la regolamentazione
dell’emolumento in sé considerato;

31. va esclusa, come rilevato dalla Corte
costituzionale, la violazione dell’art. 3 Cost., poiché, quanto alla parità di
trattamento, essendo il personale dell’avvocatura interna delle pubbliche
amministrazioni il solo che percepisce compensi professionali, manca un tertium
comparationis su cui operare un raffronto e, quanto alla manifesta
irragionevolezza e in quanto, nell’ottica della traslazione degli oneri
previdenziali, è irrilevante la derivazione di quei compensi dalla condanna di
controparte alle spese del giudizio, piuttosto che dalla loro compensazione tra
le parti;

32. non induce a diverso convincimento il rilievo
dell’effetto discriminatorio che i controricorrenti ravvisano, nel ricorso (p.
19) e nella memoria (p. 14.1) anche in conseguenza delle affermazioni di Corte
costituzionale n. 223/2012;

33. tale pronuncia risulta riferita a fattispecie
assai differente, incidente sul D.L. n. 78 del 2010, art. 12, comma 10, il
quale disponeva che sulle anzianità contributive maturate a fare tempo dal 1
gennaio 2011, si applicasse l’aliquota del 6,91%, senza determinare il venire
meno della trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50% della base
contributiva della buonuscita, operata a titolo di rivalsa sull’accantonamento
per l’indennità di buonuscita, in combinato con il D.P.R. 29 dicembre 1973, n.
1032, art. 37; il regime risultante è stato ritenuto in violazione degli artt.
3 e 36 Cost., in quanto la trattenuta a carico del dipendente pari al 2,50%
della base contributiva della buonuscita, aveva prodotto una riduzione
dell’accantonamento, illogica anche perché in nessuna misura collegata con la
qualità e quantità del lavoro;

34. ben diversa, per la struttura complessiva legata
all’accumulo di fondi attraverso ritenute contributive per l’intera durata del
rapporto, è l’indennità di buonuscita dei pubblici dipendenti rispetto al
compenso professionale di cui si discute, che si risolve in una forma di
emolumento con tendenziale finalità incentivante; l’accostamento di due entità
così diverse, senza alcuna ponderazione del complessivo trattamento retributivo
di cui fruiscono i contro ricorrenti, oltre che mostrarsi irrilevante al fine
di provare una intrinseca irrazionalità o disparità di trattamento, si pone in contrasto
con la giurisprudenza costituzionale secondo la quale il giudizio sulla
conformità al parametro dell’art. 36 Cost. non può essere svolto in relazione a
singoli istituti, né limitatamente a periodi brevi, poiché si deve valutare
l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore
in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza, alla luce del
canone della onnicomprensività (Corte cost. n. 154 del 2014; 178/2015);

35. non sussiste la violazione dell’art. 39 Cost., poiché
la norma censurata non si sostituisce alla fonte contrattuale di
regolamentazione dell’erogazione dei compensi professionali ma disciplina
piuttosto la distribuzione del carico contributivo tra ente pubblico-datore di
lavoro e dipendente che è esterno ed estraneo alla competenza contrattuale
collettiva (d.lgs. n. 165 del 2001, art. 45);

36. in conclusione, il ricorso va accolto e a ciò
consegue la cassazione della decisione impugnata, fermo restando il capo di
pronuncia relativo alle differenze dovute dall’INAIL sulle somme dapprima
trattenute e poi restituite a titolo di IRAP, in relazione al quale non è stata
formulata alcuna censura;

37. non essendo necessari ulteriori accertamenti di
fatto, la causa, ai sensi dell’art. 384 c. 2, può essere decisa nel merito con
il rigetto,delle domande, relative agli oneri previdenziali e assistenziali,
proposte nei confronti dell’odierno ricorrente;

38. le spese dei due gradi del giudizio di merito
vanno compensate in ragione del diverso esito dei medesimi;

39. le spese del giudizio di legittimità, nella
misura liquidata in dispositivo, seguono la soccombenza.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito,
rigetta le domande relative agli oneri previdenziali e assistenziali.

Dichiara compensate le spese dei due gradi dei
giudizi di merito.

Condanna i controricorrenti al pagamento delle spese
del giudizio di legittimità, liquidate in € 7.000,00 per compensi professionali
ed € 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso spese generali forfetarie,
oltre Iva e CPA.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 ottobre 2021, n. 27784
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