Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2021, n. 30145

Rapporto di agenzia, Indennità di incasso e meritocratica,
Accertamento della prescrizione del diritto azionato

 

Rilevato che

 

La Corte d’appello di Napoli confermava la pronuncia
del giudice di prima istanza il quale, in parziale accoglimento delle domande
proposte, da R.M. in proprio e nella qualità di amministratore della M&M.
s.a.s. di M.R. & c., aveva condannato la A. s.p.a. al pagamento della somma
di euro 17.721,00 a titolo di competenze connesse al rapporto di agenzia
intercorso fra le parti ed, in parziale accoglimento della domanda
riconvenzionale formulata dalla società, aveva disposto condanna in suo favore,
dell’importo di euro 9.914,00 a titolo di provvigioni non dovute e star del
credere, convalidando il giudizio esprèsso dal primo giudice, circa
l’infondatezza delle pretese azionate in relazione alla rivendicata indennità
di incasso ed all’indennità meritocratica;

avverso tale decisione R.M., in proprio e quale
amministratore della M&M s.a.s. di M.R., interpone ricorso per cassazione
sostenuto da sei motivi;

resiste la società intimata con controricorso
successivamente illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c.;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma
primo n. 3 c.p.c.;

si critica la statuizione con la quale la Corte
distrettuale ha ritenuto generico il motivo di gravame attinente alla
prospettata continuità del rapporto agenziale fra R.M. e la s.a.s. della quale
era legale rappresentante;

si osserva, per contro, che la censura recava la
argomentata critica alla statuizione impugnata, essendo dotata dei requisiti di
specificità nella confutazione delle argomentazioni sottese alla pronuncia,
coerenti coi dettami delle disposizioni del codice di rito che governano la
materia; era stato infatti evidenziato che (erroneamente) il primo giudice
aveva escluso che il rapporto agenziale intercorso con esso ricorrente, fosse “continuato
con la M. & M. s.a.s. di M.R., senza tener conto che alcuna interruzione si
era verificata, e lo stesso era continuato con i medesimi contenuti e modalità,
peraltro con una società di persone di cui l’amministratore e socio
accomandatario era lo stesso M.R.”;

2. il motivo palesa profili di inammissibilità;

è principio consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte, quello alla cui stregua il giudice di merito, nell’esercizio del
potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condizionato
dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutare il
contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non esclusivamente dal
tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate
dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del
giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della
corrispondenza tra chiesto e pronunciato e del divieto di sostituire d’ufficio
un’azione diversa da quella proposta; il relativo giudizio, estrinsecandosi in
valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede
di legittimità unicamente se sono stati travalicati i detti limiti o per vizio
della motivazione (vedi ex plurimis, Cass.21/5/2019 n. 13602, Cass. 5/2/2004 n.
2148);

è stato altresì precisato, con condivisibile
approccio, che in tali casi ove la parte censuri il significato attribuito dal
giudice di merito, deve dedurre la specifica violazione dei criteri di
ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., la cui portata è
generale, o il vizio di motivazione sulla loro applicazione, indicando altresì
nel ricorso, a pena d’inammissibilità, le * considerazioni del giudice in
contrasto con i criteri ermeneutici ed il testo dell’atto oggetto di erronea
interpretazione (vedi Cass.2/8/2016 n. 16057);

nello specifico, il ricorrente è venuto meno a
siffatti oneri, non avendo in particolare indicato i canoni ermeneutici violati
dal giudice di seconda istanza il quale, congruamente esplicando il potere di
discrezionale valutazione ad esso riservato, ha rimarcato la carenza in atto di
appello, di una parte argomentativa idonea a censurare specificamente la
pronuncia di primo grado, in punto di accertamento della discontinuità del
rapporto agenziale fra R.M., la M & M s.a.s. e la A. s.p.a., ed ha
dichiarato l’intangibilità della relativa statuizione ex art.324 c.p.c.;

detta prima censura, non inficia, dunque, gli
approdi ai quali è pervenuta sul punto, la Corte di merito;

3. la seconda critica prospetta violazione e falsa
applicazione degli artt.2909, 2946 e 2948 c.c. in relazione all’art.360 comma
primo n. 3 c.p.c.;

si stigmatizza la pronuncia di accertamento della
prescrizione del diritto azionato dal M. in relazione alla attività di incasso
da esso svolta sino al dicembre 1999, per l’assenza di atti interruttivi nel
quinquennio successivo alla cessazione del rapporto di agenzia e per il preteso
giudicato in ordine alla duplicità dei rapporti;

si osserva che, diversamente da quanto argomentato
dai giudici del gravame, il rapporto di lavoro inter partes aveva serbato la
sua unitarietà, come evincibile dalla lettera del 23/1/2006 con la quale il
ricorrente aveva rimarcato di avere instaurato un rapporto di agenzia con la A.
s.p.a. dal 1982 al 2001, con la precisazione che detto rapporto a far tempo dal
1999, era “stato intrattenuto a mezzo della M&M s.a.s. di M.R.
&C”;

si deduce comunque, in via ulteriore, che il regime
prescrizionale applicabile è quello decennale rubricato all’art.2946 c.c.;

4. il motivo va disatteso per le ragioni di seguito
esposte;

il ricorrente ripropone la tesi accreditata nel
giudizio di merito in ordine alla ininterrotta prosecuzione del medesimo
rapporto di agenzia fra le parti originarie, facendo leva anche sulla omessa
considerazione di taluni dati istruttori (missive dell’agente in data 5/4/2005
e 23/1/2006);

tale primo profilo di doglianza è inammissibile,
perché sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione
di legge, degrada, in realtà verso una non consentita rivalutazione dei fatti
storici operata dal giudice di merito, che non può trovare ingresso, nel regime
di sindacato * minimale ex art.360 c.l n.5 c.p.c. novellato, in cui l’omesso
esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un
fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa – come nella specie –
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. 27/12/2019
n. 34476, Cass. 7/4/2014 n. 8053);

non può del resto, sottacersi, che in ogni caso,
dalla declaratoria di inammissibilità della critica attinente alla
qualificazione in termini di continuità fra R.M. e la società di cui egli era
divenuto amministratore quale socio accomandatario, discende, a fortiori, che
la pronuncia resiste alla critica formulata anche con riferimento al profilo
della prescrizione del diritto azionato, che va modulata tenendo conto * della
diversità dei rapporti instaurati fra la preponente e gli agenti che in favore
di essa hanno svolto l’attività agenziale;

quanto alla ulteriore questione inerente alla
individuazione del regime prescrizionale applicabile, non può non rimarcarsi la
genericità della censura formulata;

al riguardo è bene rammentare che il vizio della
sentenza previsto dall’art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a
pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art.366, n.4,
c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma
anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed
esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in
contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con
l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità,
diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito
istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (vedi Cass.
5/8/2020 n.16700, Cass.29/11/2016 n.24298);

deve riscontrarsi la mancata esplicazione di
argomentazioni * specificamente volte a confutare il fondamento giuridico della
statuizione emessa dai giudici del gravame in tema di prescrizione quinquennale
applicabile alla fattispecie; statuizione che, risulta, peraltro, correttamente
formulata dal giudice del gravame, il quale ha argomentato in ordine alla
identità della natura che qualifica entrambi i compensi (provvigione e
indennità di incasso) ed alla periodicità che ne informa l’erogazione, per
desumerne l’assoggettamento al regime prescritto dall’art.2948 c.c. (vedi Cass.
14/5/2007 n. 11024, Cass.24/2/2009 n.4422 con riferimento al diritto alla
provvigione);

5. con il terzo motivo si denuncia violazione dell’art.360
comma primo n.5 c.p.c.; ci si duole che i giudice del gravame, al fine
dell’accertamento del diritto alla indennità ex art.1751 c.c., abbia omesso di
considerare i dati acquisiti concernenti l’incremento della clientela e del
fatturato, nonché la CTU disposta in primo grado;

si imputa alla Corte di merito di aver trascurato
fatti decisivi oggetto di discussione in corso di giudizio, quali il tabulato
dei nuovi clienti dai quali era desumibile il fatturato di ciascuno di essi,
con incremento oscillante fra il 40,39% e l’81,45% e le conclusioni rassegnate
dal nominato ausiliare che aveva quantificato l’importo dell’indennità nella
misura di euro 30.621,29;

6. il motivo non è meritevole di accoglimento;

al di là di ogni pur assorbente considerazione in
ordine al difetto di specificità del motivo che non reca riproduzione del
tenore degli atti ivi » richiamati (tabulato nuovi clienti acquisiti, fatturato
di ciascuno di essi con conseguente vantaggio per la società); e al di là di
ogni ulteriore ragione di inammissibilità della censura che attinge l’esercizio
del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di
merito, non denunciabile ai sensi del n.5 art.360 comma primo c.p.c. – che può
investire solo l’anomalia motivazionale la quale si tramuti in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della ‘
motivazione in sé – la censura non risulta fondata;

il Collegio di merito si è infatti confrontato con
le descritte acquisizioni probatorie pervenendo alla conclusione della loro
inidoneità a fondare il diritto azionato dall’agente; ed è pervenuto a tali
conclusioni con argomentazioni conformi a diritto;

l’art. 1751 cc, ratione temporis (nel testo
introdotto dal D.Leg. n. 303 del 1991, e dal D.Lgs. n. 65 del 1999, per dare
attuazione alle direttive comunitarie in materia) infatti, prevede: «All’atto
della cessazione del rapporto il preponente è tenuto a corrispondere all’agente
un’indennità se ricorrono le seguenti condizioni: – l’agente abbia procurato
nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i
clenti esistenti e il preponente rileva ancora sostanziali vantaggi dagli
affari con tali clienti; – il pagamento di tale indennità sia equo, tenuto
conto di tutte le circostanze del caso concreto, in particolare delle
provvigioni che l’agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti.»

la suddetta disposizione distingue i presupposti,
che possono definirsi di natura strutturale e tipici, per il riconoscimento
della indennità, che sono costituiti dal fatto che l’agente abbia procurato
nuovi clienti al preponente o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i
clienti esistenti e il preponente ricavi ancora sostanziali vantaggi dagli
affari con tali clienti, e dal requisito di natura funzionale non tipizzato e,
cioè, che l’attribuzione sia, comunque, rispondente ad equità;

la finalità dei presupposti di cui alla prima parte
si pone con riferimento ad una prospettiva economica positiva per il
preponente, che nella specie, è stata oggetto di specifico vaglio da parte dei
giudici del gravame i quali, pur dando atto della circostanza che l’appellante
avesse in effetti apportato nuova clientela alla preponente, hanno riscontrato
l’assenza di elementi di prova circa il perdurante godimento dei sostanziali
vantaggi derivanti dagli affari con i nuovi clienti acquisiti;

la condizione di vantaggio per il preponente
prevista dalla disposizione non coincide infatti semplicemente con il dato
quantitativo coincidente con l’acquisizione di clientela, ma si estende alla
verifica del permanere dopo la cessazione del rapporto di agenzia, della
clientela procurata dall’agente, stabilmente acquisita dalla stessa per essere
stata dunque adeguatamente fidelizzata dal medesimo nel corso del rapporto;

e detta verifica risulta sia stata compiutamente
espletata dalla Corte di merito con apprezzamento congruo, per quanto sinora
detto, che si sottrae alla censura all’esame;

6.  il quarto
motivo attiene alla violazione e falsa applicazione degli artt.112 e 342 c.p.c.
in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;

si deduce che i ricorrenti avevano censurato la
sentenza di primo grado rilevando come erroneamente, per la prima parte del
rapporto intercorso con R.M. che era stata la più lunga, fosse stata esclusa
l’indennità ex art.1751 c.c., peraltro quantificata dal CTU nella misura di
euro 30.621,29, detratto quanto corrisposto a titolo di indennità di clientela;

7. anche tale doglianza non è meritevole di
accoglimento per le ragioni già enunciate in relazione al motivo che precede;

8. con il quinto motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione degli artt. 2948, 2946 c.c., 112 e 342 c.p.c. in relazione
all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;

si deduce che con il secondo motivo di appello era
stata censurata la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva negato il
diritto ad un autonomo compenso per gli incassi effettuati continuativamente
dai ricorrenti; ci si duole che la Corte di merito con riferimento alla domanda
di pagamento della indennità di incasso, si sia limitata a confermare il
rigetto della domanda sulla scorta della prescrizione quinquennale del diritto;

9. la censura, per la genericità della tecnica
redazionale adottata, priva di specifici riferimenti agli atti processuali ai
quali si riferisce (sentenza di primo grado, atto di appello tabulato relativo
alla entità e continuità degli incassi), palesa profili di inammissibilità;

va infatti rammentato che i requisiti di
contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1,
c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e
non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il
controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica
mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla
base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della
cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale
fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e
trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del
principio di autosufficienza (vedi per tutte Cass. 13/11/2018 n. 29093);

parte ricorrente non si è conformata a siffatti
principi, onde la censura non può trovare ingresso nella presente sede;

10. la sesta censura prospetta omesso esame di un
fatto oggetto di discussione ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. in relazione
alla erronea liquidazione dello star del credere, per crediti che la preponente
aveva dichiarato inesigibili;

ci si duole che la Corte distrettuale abbia
tralasciato di considerare che il nominato ausiliare aveva rimarcato come
nessuna documentazione fosse stata prodotta dal CTP ad eccezione di un elenco
dattiloscritto nel quale venivano riportati i crediti “passati a
perdita” della A. s.p.a.; nessuna verifica era stata svolta sulla
veridicità degli importi né sulla concreta promozione da parte della mandante,
di azioni volte a conseguire il recupero crediti; di conseguenza, non era stata
addotta dalla società alcuna prova, nel rispetto dei principi di buona fede e
correttezza, di aver postò in essere quanto dovuto per escludere o limitare la
perdita, né l’inesigibilità dei crediti;

11. il motivo non è ammissibile, la censura esulando
dai ristretti ambiti di sindacato di legittimità, introdotti dal novellato
testo di cui airart.360 c.l n.5 c.p.c. nella interpretazione resa dalle Sezioni
Unite di questa Corte alla cui stregua l’omesso esame di elementi istruttori
non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto
storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal
giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
istruttorie; (cfr. Cass. 7/4/2014 n.8053);

12. esso è altresì infondato;

nel rapporto di agenzia, il patto cosiddetto dello
star del credere – per cui l’agente, in relazione agli affari non andati a buon
fine, non solo non percepisce alcuna provvigione, ma partecipa anche al rischio
di impresa sopportando in parte le perdite subite dall’imprenditore preponente,
come conseguenza dell’inadempimento dei clienti da lui procurati – prescinde da
qualsiasi negligenza, colpa o dolo dell’agente sicché, avendo tale obbligo di
garanzia carattere oggettivo (vedi Cass.3/6/1999 n.5441, Cass.2/7/2002 n.9591,
Cass. 11/5/2006 n.10850) è irrilevante che il preponente abbia o meno posto in
essere tutte le misure in concreto necessarie al recupero degli insoluti, come
sostenuto da parte ricorrente;

13. in definitiva, alla stregua delle superiori
argomentazioni, il ricorso è respinto;

il regime delle spese segue il principio della
soccombenza nella misura in dispositivo liquidata;

trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma
1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto
per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso articolo 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 26 ottobre 2021, n. 30145
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