Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2021, n. 31349

Rapporto di lavoro, Diritto ad osservare l’orario spezzato,
Patologie croniche, Accertamento, Esigenze organizzative aziendali

 

Rilevato che

 

T. M. adiva il Tribunale di Vercelli ed esponeva di
lavorare alle dipendenze della E. s.p.a. dal 1983 con mansioni di operaia 3°
livello osservando orario spezzato dalle ore 8 alle 12,25 e dalle ore 14 alle
17,30, quale addetta, da ultimo, al montaggio di piastre smeg; precisava di
avere ottenuto con sentenza n. 4979/96 del Tribunale di Torino passata in
giudicato, l’accertamento del diritto ad osservare l’orario spezzato, in
ragione delle patologie dalle quali era affetta (cefalea cronica ad andamento
giornaliero e sindrome ansioso depressiva); si doleva di essere stata assegnata
a decorrere dal 29/9/2004, ad un reparto diverso, con mansioni di addetta allo
stampaggio, da svolgere in piedi per tutta la durata del turno 14-22, e
rimarcava che la novità della turnazione non era stata applicata a tutto il
personale, le operaie addette alle sue precedenti mansioni avendo continuato ad
osservare l’orario spezzato;

sul rilievo di essere ancora affetta dalle patologie
croniche diagnosticate ed accertate nel corso del pregresso giudizio,
attualizzate alla stregua della ulteriore documentazione sanitaria prodotta,
conveniva in giudizio la E. s.p.a. chiedendo la assegnazione alle mansioni in
precedenza espletate con attribuzione dell’orario spezzato riconosciuto dalla
evocata pronuncia passata in giudicato;

la società, costituitasi, resisteva al ricorso
chiedendone la reiezione;

il giudice adito respingeva le domanda con sentenza
che veniva riformata dalla Corte distrettuale, la quale perveniva
all’accoglimento della domanda attorea sul rilievo essenziale che, al momento
della variazione dell’orario di lavoro (settembre 2014) non sussistevano le
esigenze organizzative allegate dalla società, poiché la dismissione delle
lavorazioni a giornata alle quali era addetta la ricorrente, era risultato non
essere ancora in atto né imminente; ed a tale convincimento neanche ostava il
dato relativo alla dismissione della linea di produzione nelle more del
giudizio, posto che la domanda era intesa essenzialmente alla conservazione
dell’orario di lavoro .

in precedenza osservato;

avverso tale decisione la società E. interpone
ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, successivamente illustrato da
memoria ex art.380 bis c.p.c.;

resiste con controricorso la parte intimata.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo si deduce violazione degli
artt. 2082 e 2103 c.c., nonché dell’art.41 Cost. e dell’art.30 L.183/2010; si
criticano gli approdi ai quali è pervenuto il giudice di seconda istanza per
aver scrutinato la disposizione organizzativa posta in essere dalla parte datoriale,
di assegnazione della lavoratrice a diverso reparto con l’osservanza di un
orario continuato, stigmatizzando la violazione dei principi di correttezza e
buona fede;

si osserva che secondo i principi invalsi nella
giurisprudenza di legittimità con riferimento ai contratti a tempo pieno, la
collocazione ed il successivo spostamento del personale nei vari reparti
dell’azienda è un momento essenziale del potere autorganizzativo del datore di
lavoro, di per sé sottratto ai limiti dei trasferimenti e, quindi, non
sindacabile in mancanza di specifici elementi che evidenzino una
discriminazione o una mera vessazione del prestatore di lavoro;

nello specifico, l’assegnazione ad un diverso
reparto era stata motivata non dall’avvenuto trasferimento del macchinario
Bloccaporta al sito produttivo in Polonia, ma nella prospettiva di detto
trasferimento (che sarebbe stato effettivamente attuato dopo sei mesi);
nell’ottica descritta il sindacato posto in essere dai giudici del gravame
andava ad incidere sulle scelte organizzative, informate ad oggettive esigenze
aziendali, riservate al datore di lavoro e tutelate anche dalla norma
fondamentale;

2. il secondo motivo prospetta motivazione
contraddittoria ai sensi dell’art.360 comma primo n.5 c.p.c.;

si deduce che la statuizione di accertamento del
diritto a mantenere l’orario di lavoro contrasta irrevocabilmente con quella,
del pari rinvenibile in sentenza, secondo cui la pronuncia del 1996 passata in
giudicato, non determinava un diritto assoluto della lavoratrice ad osservare
definitivamente quello stesso orario;

3. con il terzo motivo è denunciata violazione e
falsa applicazione degli artt.1175 e 1375 c.c.;

si osserva che erroneamente la Corte di merito ha
ritenuto violati i principi di correttezza e buona fede per avere adibito a
diverse mansioni la dipendente, alcuni mesi prima della effettiva dismissione
della linea -alla quale era stata in precedenza adibita; si richiama al
riguardo l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di
esercizio dello jus variandi secondo cui quando il datore di lavoro ha dinanzi
a sé diverse soluzioni organizzative, il principio di buona fede nella
esecuzione del contratto gli impone di scegliere quella meno gravosa per il
dipendente e comunque non abusi del proprio diritto per danneggiarlo;

e nello specifico, non poteva ritenersi sussistente
alcuna delle condizioni coessenziali alla configurabilità di una violazione dei
ricordati principi, non essendo state addotte specifiche ragioni ostative allo
svolgimento di turni notturni o motivi personali e familiari, né avendo la
controparte dimostrato che il trasferimento integrasse un vero e proprio atto
emulativo nei suoi confronti;

4. con il quarto motivo si denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art.2697 c.c. in relazione all’art.2103 c.c.;

si critica la statuizione con la quale la Corte di
merito, richiamando per analogia la giurisprudenza formatasi in tema di
“repechage” nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ha
posto a carico della parte datoriale, l’onere di indicare una collocazione
alternativa nel contesto dell’assetto organizzativo aziendale;

si osserva che detto principio non può essere esteso
al tema dell’esercizio dello jus variandi giacché, “mentre il lavoratore
ha diritto al mantenimento del posto di lavoro, salvo che ricorrano determinati
inderogabili presupposti, quello di variare mansioni ed orario del lavoratore è
un diritto del datore di lavoro al quale il lavoratore può solo opporre
l’inesistenza delle ragioni addotte o l’abuso del diritto”; da tanto
discende che la parte datoriale deve provare esclusivamente l’effettività delle
ragioni addotte, mentre il lavoratore è tenuto a dimostrare l’abuso del diritto
o la violazione dei principi di correttezza e buona fede;

5. il quinto motivo attiene alla violazione e falsa
applicazione degli artt. 1375-1218 c.c.

si stigmatizza la statuizione con la quale i giudici
di seconda istanza hanno condannato la società alla reintegrazione in forma
specifica con attribuzione alla lavoratrice dell’orario giornaliero in
relazione ad una linea di lavorazione ormai inesistente;

6. i primi quattro motivi, che possono
congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche
connesse, sono fondati e meritevoli di accoglimento, per le ragioni di seguito
esposte; ai fini di un ordinato iter argomentativo, è bene rammentare che
l’espressione orario di lavoro ha un significato pluridirezionale in quanto è
indicativo sia della quantità della prestazione lavorativa dovuta, sia della
distribuzione di tale prestazione in un determinato arco temporale, integrando
altresì parametro per la remunerazione della retribuzione;

sotto altro versante adempie alla primaria funzione
di delimitare l’entità massima della prestazione che può essere richiesta al lavoratore,
la fissazione di limiti al riguardo essendosi imposta come strumento necessario
per tutelare la salute e l’integrità psicofisica dei lavoratori dagli albori
della legislazione del lavoro sino alla attualità, come desumibile anche dalla
direttiva 93/104/Ce adottata per regolare alcuni aspetti dell’organizzazione
dell’orario di lavoro;

nella materia in questione il potere direttivo della
parte datoriale può esercitarsi nel rispetto dei limiti legali di durata della
prestazione lavorativa, come pure di quelli che condizionano la possibilità di
determinare la collocazione della prestazione nella unità di tempo; va inoltre
rimarcato che il profilo quantitativo dell’orario di lavoro inerisce
all’oggetto del contratto e non può essere modificato unilateralmente dal
datore di lavoro, al quale è invece riconosciuto il potere distributivo, salvo
i limiti legali e contrattuali; al riguardo non può sottacersi che la medesima
Corte territoriale ha escluso la sussistenza di limiti alla distribuzione
dell’orario di lavoro da parte datoriale, che potessero derivare dalla sentenza
del Tribunale di Torino n.4979/1996 passata in giudicato, con la quale era
stato riconosciuto il diritto della lavoratrice di serbare l’osservanza
dell’orario spezzato; quella decisione era fondata “sull’accordo
tacitamente perfezionatosi tra le parti in virtù del protratto consenso della
società alla continuazione del predetto orario da parte della M., anche dopo la
stipula dell’accordo aziendale (1/10/1986) che aveva introdotto i turni per una
parte dei dipendenti, e non è direttamente correlato ad un’assoluta e
permanente inidoneità fisica della lavoratrice all’orario su turni…”;
deve a tal punto rammentarsi che il contratto intercorso fra le parti era un
contratto a tempo pieno, in relazione al quale deve essere disattesa ogni
possibile estensione dei limiti posti allo ius variandi nei contratti
part-time, nei quali la programmabilità del tempo libero assume carattere
essenziale  che giustifica la immodificabilità
dell’orario da parte datoriale per garantire la esplicazione di ulteriore
attività lavorativa o un diverso impiego del tempo che la scelta del
particolare rapporto evidenzia come determinante per l’equilibrio contrattuale
(vedi Cass. 16/4/1993 n.4507);

questo paradigma normativo non è applicabile al
contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un’eguale tutela del tempo libero
del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell’imprenditore di
organizzare l’attività lavorativa; in tal caso il diritto può subire limiti
solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolare
procedure, elementi questi che nella specie, per quanto sinora detto, sono
insussistenti;

nello specifico, il disposto mutamento della
distribuzione dell’orario di lavoro della M. è conseguito allo spostamento del
personale in un diverso reparto aziendale motivato dalla esigenza, effettiva,
comprovata e non pretestuosa, di delocalizzazione della lavorazione della
macchina Bloccaporta alla quale era addetta la ricorrente, che sarebbe stata
realizzata dopo circa sei mesi dalla disposta adibizione della lavoratrice ad
un diverso reparto; si tratta dell’esplicazione di un momento individuativo del
potere autorganizzativo del datore di lavoro, di per sé sottratto ai limiti
relativi ai trasferimenti, e quindi non sindacabile in mancanza di specifici
elementi che evidenzino una discriminazione o una mera vessazione del
dipendente (cfr. Cass. 3/6/2000 n.7440);

neanche in ipotesi di trasferimento, peraltro,
secondo l’insegnamento di questa Corte, in cui il controllo giudiziale investe
la ricorrenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che
legittimano il provvedimento, ed è diretto ad accertare che vi sia
corrispondenza tra il provvedimento adottato dal datore di lavoro e le finalità
tipiche dell’impresa, detto controllo può essere dilatato fino a comprendere il
merito della scelta operata dall’imprenditore (ex multis, vedi Cass. 2/3/2011
n.5099);

e detti enunciati principi fondanti della materia,
hanno rinvenuto ulteriore conforto nella disciplina di cui alla 1.183/2010 che,
all’art.30 ribadisce come in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge
nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e
all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165,
contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di
un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda
e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai
principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di
legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni
tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al
committente;

in tale prospettiva, gli approdi ai quali è
pervenuta la Corte di merito in relazione all’accertamento della violazione dei
principi di correttezza e buona fede per non essere la dismissione delle
lavorazioni alle quali era addetta la ricorrente, non erano in atto né erano
imminenti, non appaiono condivisibili;

ed invero, deve in primo luogo ribadirsi che i
principi di buona fede e correttezza – come previsti dagli artt. 1175 e 1375
c.c., – costituiscono parte del tessuto connettivo dell’ordinamento giuridico;

l’obbligo di buona fede oggettiva o correttezza –
costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio
di solidarietà sociale – la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica,
proprio per il suo rapporto sinergico con il dovere inderogabile di solidarietà
di cui all’art. 2 Cost., che a quella clausola generale attribuisce forza
normativa e ricchezza di contenuti -, applicabile, sia in ambito contrattuale,
sia in quello extracontrattuale (v. in questo senso, fra le altre, Cass.
15.2.2007 n. 3462);

nell’ottica descritta, si è giunti ad affermare che
il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a
controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale,
in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (v. S.U.
15.11.2007 n. 23 726 ed i richiami ivi contenuti);

calato, poi, nell’ambito contrattuale, è principio
ormai consolidato quello per cui la buona fede oggettiva, cioè la reciproca
lealtà di condotta, debba presiedere all’esecuzione del contratto, così come
alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva,
accompagnarlo in ogni sua fase; la buona fede, pertanto, si atteggia come un
impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei
comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal
dovere del neminem laedere, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a
suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte (Cass.
11.1.2006 n. 264; Cass. 7.6.2006 n. 13345);

in altri termini, il principio di buona fede, che si
specifica nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione
dell’interesse della controparte, si pone come limite di ogni situazione,
attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente
il contenuto e gli effetti del contratto (Cass. n. 3775/94);

nello specifico il processo di sussunzione della
fattispecie nell’archetipo normativo di riferimento non appare correttamente
compiuta;

come questa Corte insegna (per tutte: Cass.
15/4/2005 n. 7838, Cass. 12/8/2009 n. 18247), il modulo generico che identifica
la struttura aperta delle disposizioni di limitato .contenuto ascrivibili alla
tipologia delle cd. clausole generali richiede di essere specificato in via
interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e
mutevole nel tempo;

la specificazione può avvenire mediante la
valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori
esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili
dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche
dalla disciplina particolare, collettiva;

dette specificazioni del parametro normativo hanno
natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di
legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. 8/4/2016 n.
6901); non si sottrae, dunque, al controllo di questa Corte il profilo della
correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché,
pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o
di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici,
“tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che,
utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento”
(per tutte v. Cass. 18/1/1999 n.434), traducendosi in un’attività di
interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma; può ritenersi
che in tale prospettiva queste disposizioni ascrivibili alla categoria delle
clausole generali si realizzi allorquando il datore di lavoro, pur avendo la
disponibilità di alternative opzioni organizzative del proprio  assetto aziendale, non le utilizzi abusando
del proprio diritto e danneggiando l’altra parte; *

nella descritta prospettiva, per quanto sinora
detto, detto procedimento di sussunzione non appare congruamente esplicato
dalla Corte di merito, considerata la incontroversa effettività della scelta di
delocalizzazione delle lavorazioni, la mancata evidenza di alcuna situazione di
discriminazione ai danni della lavoratrice o di lesione di diritti della
predetta derivanti da specifici accordi contrattuali;

alla stregua delle superiori argomentazioni, il
ricorso deve essere accolto con riferimento ai primi quattro motivi, restando
assorbito il quinto, successivo in ordine logico;

la sentenza va pertanto cassata con rinvio, ex
art.384 comma 2 c.p.c., alla Corte distrettuale indicata in dispositivo che
provvederà a scrutinare compiutamente la vicenda considerata, attenendosi ai principi
di diritto innanzi enunciati; al giudice del rinvio è demandato di provvedere
anche in ordine alle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

accoglie i primi quattro motivi di ricorso,
assorbito il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti
e rinvia alla Corte d’Appello di Torino in diversa composizione cui demanda di
provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2021, n. 31349
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