Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 novembre 2021, n. 31071

Lavoro, Selezione per l’assunzione degli insegnanti, Natura
discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva,
Accertamento

 

RILEVATO CHE

 

1. la Corte di Appello di Trento, con sentenza del 7
marzo 2017, in parziale riforma della ordinanza resa dal Tribunale di Rovereto
nell’ambito di un procedimento ex art. 4 d. Igs. n. 216 del 2003 promosso su
ricorso di F.M., della CGIL del Trentino e dell’Associazione Radicale Certi
Diritti, nei confronti dell’Istituto delle F.S.C.G., ha accertato “la
natura discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva,
della condotta posta in essere dall’Istituto […] in ordine alla selezione per
l’assunzione degli insegnanti”; ha ordinato, quindi, al medesimo Istituto
“l’immediata cessazione di tale condotta” e lo ha condannato al
pagamento in favore della M. di euro 13.329,00 a titolo di danno patrimoniale
ed euro 30.000,00 a titolo di danno morale, nonché al pagamento in favore
dell’Associazione e di CGIL, a titolo di risarcimento del danno, di euro
10.000,00 ciascuna, oltre alla pubblicazione del dispositivo;

2. per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la parte soccombente con 5 motivi; hanno resistito con unico
controricorso gli intimati, i quali hanno altresì depositato memoria con la
costituzione di un nuovo difensore;

 

Considerato che

 

1. il primo motivo del ricorso denuncia la
violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., anche in relazione all’art.
28 del d. Igs. n. 150 del 2011 ed agli artt. 2727 e 2729 c. c.; si lamenta che
“la Corte territoriale attribuendo valore indiziario ad elementi
singolarmente acquisiti in giudizio, senza valutare la loro ipotetica,
complessiva idoneità presuntiva, e non valorizzando elementi che avrebbero
potuto essere valutati in senso contrario, ha di fatto addossato alla parte in
questa sede ricorrente un onere di prova negativa della discriminazione, così
stravolgendo anche la regola in materia di riparto dell’onere probatorio”;

2. il motivo non è meritevole di accoglimento;

circa la pretesa violazione degli artt. 2727 e 2729
del codice civile, è noto che le presunzioni semplici costituiscono una prova
completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via
esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio
del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le
fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine,
scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti
più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione;
spetta quindi al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle
presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo
processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al
fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire
inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass.
n. 21961 del 2010) e compete sempre al giudice del merito procedere ad una
valutazione complessiva di tutti gli elementi indiziari precedentemente
selezionati ed accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione, e
non piuttosto una visione parcellizzata di essi, sia in grado di fornire una
valida prova presuntiva tale da ingenerare il convincimento in ordine
all’esistenza o, al contrario, all’inesistenza del fatto ignoto; la
delimitazione del campo affidato al dominio del giudice del merito consente
innanzi tutto di escludere che chi ricorre in cassazione in questi casi possa
limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male
apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o
che comunque la valutazione complessiva non conduca necessariamente all’esito
interpretativo raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del
2017); essendo compito istituzionalmente demandato al giudice del merito
selezionare gli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato, i
quali presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia
probatoria, nonché l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a
consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod
plerumque accidit, l’esito dell’operazione si sottrae al controllo di
legittimità (in termini, Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011;
Cass. n. 12002 del 2017), salvo che esso non si presenti intrinsecamente
implausibile tanto da risultare meramente apparente; pertanto chi censura un
ragionamento presuntivo o il mancato utilizzo di esso non può limitarsi a
prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal
giudice del merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità e
contraddittorietà del ragionamento decisorio (in termini, Cass. n. 10847/2007
cit.; più di recente v. Cass. n. 1234 del 2019) e, nel vigore del novellato
art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio oggetto di discussione tra le parti, così come rigorosamente
interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, non essendo sufficiente
dedurre una pretesa violazione di legge -come nella specie- sull’assunto che
sarebbero state trascurate determinate circostanze fattuali, quali la
candidatura di altra insegnante abilitata ovvero la maturazione di una certa
anzianità di servizio;

la doglianza -relativa alla violazione delle norme
sulle presunzioni non viene, a sua volta, neanche presentata nei termini indicati
da S.U. 24 gennaio 2018 n. 1785 (che in motivazione identifica la violazione
degli articoli 2727 e 2729 c.c. nell’avere il giudice di merito fondato la
presunzione “su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di
concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza
ignota”, per cui ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., il
giudice di legittimità può essere investito “dell’errore in cui il giudice
di merito sia incorso se considera grave una presunzione (cioè un’inferenza)
che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare
profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si
collochi”, e lo stesso vale per il controllo della precisione e della
concordanza; ontologicamente diversa è infatti – rimarca il giudice
nomofilattico – la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito che
si concreta appunto nell’addurre che la ricostruzione fattuale poteva essere
espletata in altro modo;

in conformità, recisamente, Cass. n. 3541 del 2020
ha rilevato che la violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c. può essere
censurata in sede di legittimità soltanto in un caso: allorché ricorra il
cosiddetto “vizio di sussunzione”, vale a dire allorquando il giudice
di merito, dopo aver qualificato come “gravi, precisi e concordanti”
gli indizi raccolti, li ritenga però inidonei a fornire la prova presuntiva;
oppure, all’opposto, quando dopo aver qualificato come “non gravi,
imprecisi e discordanti” gli indizi raccolti, li ritenga nondimeno sufficienti
a fornire la prova del fatto controverso (v. anche Cass. n. 19485 del 2017);

parimenti infondata la dedotta violazione dell’art.
2697 c.c., che è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3
c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della
prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di
scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi
ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il
giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013;
Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica il
convincimento motivatamente espresso dalla Corte territoriale in ordine alle risultanze
del ragionamento presuntivo, opponendo una diversa valutazione;

3. il secondo motivo addebita alla sentenza
impugnata un vizio di violazione o falsa applicazione dell’art. 19, co. 1 e 2,
del CCNL Agidae, per non avere interpretato la Corte territoriale le clausole
contrattuali collettive suddette nella prospettiva dello statuto dell’Istituto
ricorrente, con riferimento al quale viene denunciata la violazione o falsa
applicazione dell’art. 1362, co. 1, c.c., in relazione all’art. 1324 c.c. e,
dunque, senza tenere conto della concreta /ex contractus del rapporto, tale da
imporre la considerazione dello specifico progetto educativo dell’Istituto;

4. la doglianza non può essere condivisa;

anche l’accertamento della volontà negoziale si
sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013),
riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067
del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), che riguarda anche l’interpretazione dello
statuto di un’associazione (Cass. 12360 del 2014); tali valutazioni del giudice
di merito soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato
alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al
controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (explurimis,
Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass.
n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n.
6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003); inoltre, sia la denuncia della violazione
delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono
una specifica indicazione – ossia la precisazione del modo attraverso il quale
si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva
deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non
potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione attribuita
dal giudicante, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da
quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468
del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del
2002; Cass. n. 11053 del 2000); nella specie, al cospetto dell’approdo
esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale parte ricorrente, nella sostanza,
si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile a sé più
favorevole; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal
giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o
la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni;
sicché, quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni,
non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi
disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che
sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006); infatti il ricorso in
sede di legittimità – riconducibile, in linea generale, al modello
dell’argomentazione di carattere confutativo – laddove censuri l’interpretazione
del negozio accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i
contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare
l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con
relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati
tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative
(anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e
non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato
diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di
giustificazione prospettate come più congrue (in termini: Cass. n. 18375 del
2006);

5. il terzo motivo denuncia la violazione o falsa
applicazione dell’art. 3, co. 3 e 5 del d. Igs. n. 216 del 2003 nonché della I.
n. 121 del 1985, concernente la ratifica e l’esecuzione dell’accordo, con
protocollo addizionale, recante modifiche al Concordato, anche in relazione
agli artt. 3 e 33 della Costituzione, “per non avere considerato la Corte
territoriale che anche il diritto antidiscriminatorio doveva declinarsi tenendo
conto della necessità di assicurare la libertà di organizzazione dell’Istituto
ricorrente, avuto riguardo alle finalità ispiratrici del medesimo, risultando
diversamente leso sia il principio di eguaglianza, che deve tenere conto della
diversità delle situazioni, sia quello della libertà di insegnamento”;

6. il motivo non è accoglibile;

con riferimento alla violazione e falsa applicazione
di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di
inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto
asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle
affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si
assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con
l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o
dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione
comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla
S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento
della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015;
Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);
avendo altresì il ricorrente l’onere di indicare con precisione gli asseriti
errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio
a critica vincolata propria del giudizio di cassazione, il singolo motivo
assolve alla funzione di identificare la critica mossa ad una parte ben
specificata della decisione espressa (v. Cass. n. 2959 del 2020; conf. Cass. n.
1479 del 2018): pertanto, se nel ricorso per cassazione si sostiene l’esistenza
della violazione di legge denunziata nel motivo, si deve chiarire a pena di
inammissibilità l’errore di diritto imputato al riguardo alla sentenza
impugnata, in relazione alla concreta controversia (Cass. SS.UU. 21672 del
2013);

nella specie parte ricorrente invoca disposizioni,
anche costituzionali, a fondamento della libertà di organizzazione
dell’Istituto religioso, ma non spiega adeguatamente come questa libertà possa
legittimare condotte apertamente discriminatorie come quelle ritenute ed
accertate dai giudici trentini;

7. il quarto motivo denuncia violazione o falsa
applicazione dell’art. 1223 c.c., anche in relazione all’art. 2059 c.c.,
“per avere la Corte territoriale riconosciuto la sussistenza di un danno
non patrimoniale risarcibile senza nulla dire in ordine alla rilevazione di
perdite di utilità personali di vita discendenti dall’asserito illecito e,
dunque, di fatto accreditando la tesi del danno in re ipsa, disattesa dalla
giurisprudenza di legittimità”;

8. la censura non può trovare accoglimento; in materia
di liquidazione del danno non patrimoniale, costituisce oramai regola di
diritto vivente la ristorabilità della lesione di valori costituzionalmente
garantiti, dei diritti inviolabili e dei diritti fondamentali della persona, in
particolare dei diritti all’integrità psico-fisica e alla salute, all’onore e
alla reputazione, all’integrità familiare, allo svolgimento della personalità
ed alla dignità umana; la non patrimonialità – per non avere il bene persona un
prezzo – del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale,
il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla
relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione
equitativa (per tutte: Cass., SS.UU. n. 26972 del 2008); i criteri di valutazione
equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità
del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e
proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le
circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio
effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del
risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass.
n. 13546 del 2006); la liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è
sindacabile in sede di legittimità (solamente) laddove risulti non congruamente
motivata, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a
posteriori” (ancora Cass. n. 12408/2011 cit.); essendo la liquidazione del
quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente
caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l’esercizio
del potere equitativo del giudice di merito possa di per sé essere soggetto a
controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di
giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da
dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni
(cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n. 1529 del 2010; Cass. n. 18778 del
2014);

orbene la Corte distrettuale ha diffusamente
argomentato nella sentenza impugnata (pagg. 61, 62, 63) sulle fonti del
convincimento che l’hanno portata a concludere che “in ragione della
gravità della discriminazione e del discredito connesso alle dichiarazioni
diffamatorie si ritiene di liquidare a titolo di danno non patrimoniale la
somma di euro 30.000,00”, con un percorso motivazionale che tiene
adeguatamente conto che l’atto discriminatorio è lesivo della dignità umana ed è
intrinsecamente umiliante per il destinatario e che sorregge adeguatamente
l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a
precludere l’annullamento della sentenza impugnata così come richiesto dal
ricorrente Istituto;

9. con l’ultimo mezzo si denuncia ancora violazione
e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c., anche in relazione all’art. 2059
c.c., “deducendo che anche il preteso danno non patrimoniale da
discriminazione collettiva era stato riconosciuto dalla Corte territoriale pure
in assenza di qualunque allegazione circa perdite in effetti patite dalle
Organizzazioni ricorrenti”;

10. il motivo non è accoglibile per le stesse
ragioni già esposte ad illustrazione del rigetto della censura che precede,
quanto all’esercizio discrezionale del potere equitativo del giudice, qui avuto
riguardo alla lesione degli interessi rappresentati dalle due associazioni,
quali enti esponenziali di interessi collettivi;

come affermato anche dalla Corte di Giustizia,
Grande Sezione, nella sentenza 23 aprile 2020, causa C-507/18, l’art. 9 par. 2
della direttiva 2000/78 non osta a che uno Stato membro, nella propria
normativa nazionale, riconosca alle associazioni aventi un legittimo interesse
a far garantire il rispetto di tale direttiva il diritto di avviare procedure
giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti
dalla direttiva stessa senza agire in nome di una determinata persona lesa
ovvero in assenza di una persona lesa identificabile (sentenza del 25 aprile
2013, Asociatia Accept, C-81/12, EU:C:2013:275, punto 37) e qualora uno Stato
membro operi una scelta siffatta, è tenuto a precisare la portata di tale
azione, in particolare le sanzioni irrogabili all’esito di quest’ultima,
tenendo presente che tali sanzioni devono, a norma dell’art. 17 della direttiva
2000/78, essere effettive, proporzionate e dissuasive anche quando non vi sia
alcuna persona lesa identificabile (pagg. 15-16, CGUE 23 aprile 2020, cit.);

ciò detto, questa Corte ha ancora di recente avuto
modo di ribadire che la determinazione equitativa di un importo a titolo di
risarcimento, nel caso ex art. 28 d. lgs. 150/2011, è questione di fatto, che
non può essere proposta in sede di legittimità se non sotto il profilo del
vizio di motivazione, qui nemmeno lamentato (Cass. n. 28646 del 2020; conf. a
Cass. n. 21802 del 2006; Cass. n. 22895 del 2005);

la Corte del merito, premesso che il risarcimento
del danno non patrimoniale è la misura prevista dall’art. 28, co. 5, d. Igs. n.
150 del 2011 per ogni tipo di discriminazione, anche collettiva, ha liquidato
l’ammontare “in misura proporzionata alla gravità della discriminazione e
in misura tale da rendere la sanzione effettiva e dissuasiva”, in
conformità all’art. 15 della direttiva 2000/43, in base al quale le sanzioni da
irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della
direttiva siano “effettive, proporzionate e dissuasive” e non in
contrasto con il vigente ordinamento della responsabilità civile, al quale
“non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del
soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione
di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile” (Cass.
SS.UU. n. 16601 del 2017);

11. conclusivamente il ricorso deve essere respinto,
con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

occorre dare atto poi della sussistenza, per il
ricorrente Istituto, dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1
quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228
del 2012 (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 7.000,00, oltre esborsi pari ad euro
200,00, spese generali al 15% ed accessori secondo legge.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 novembre 2021, n. 31071
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: