Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2021, n. 29906

Rapporto di lavoro, Applicazione degli aumenti contrattuali
previsti dal CCNL di settore, Computabilità, Determinazione del trattamento
di quiescenza dei dirigenti medici cessati dal servizio

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 5557/2016, pubblicata il 27 marzo
2017, in riforma della decisione di primo grado, la Corte di appello di Roma ha
respinto l’opposizione proposta dall’Istituto F.S.C. nei confronti del decreto
ingiuntivo, con il quale era stato intimato il pagamento, a favore del dott.
A.G., delle differenze retributive maturate dall’1/1/2002 al 31/12/2005 per
effetto dell’applicazione degli aumenti contrattuali previsti, per detto
quadriennio, dal C.C.N.L. sottoscritto il 14 giugno 2007 (Dirigenza Medica
Ospedali Classificati).

2. La Corte di appello ha ritenuto che il G. avesse
diritto a tali differenze, sebbene il suo rapporto con l’Istituto fosse cessato
(per assunzione da parte della ASL Roma C) il 31 agosto 2006 e, quindi, prima
del rinnovo contrattuale, e ciò sulla base del principio, per il quale, ove
contenga clausole migliorative a efficacia retroattiva, il C.C.N.L. è
applicabile indistintamente a tutto il personale in servizio nel periodo di
riferimento, anche se non più in organico alla data di sottoscrizione del nuovo
contratto; né poteva ritenersi che il C.C.N.L. del 14 giugno 2007 avesse inteso
escludere tale personale dal proprio campo di applicabilità, non rinvenendosi
elementi in tal senso e comunque avendo il C.C.N.L. previsto la computabilità
degli aumenti retributivi per gli anni 2002-2005 ai fini della determinazione
del trattamento di quiescenza dei dirigenti medici cessati dal servizio, vale a
dire in fattispecie comparabile a quella dedotta in giudizio.

3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso
l’Istituto F.S.C. con unico motivo, cui ha resistito il G. con controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con l’unico motivo proposto, deducendo la falsa
applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1372 cod. civ., nonché dell’art. 11,
comma 1, delle Disposizioni sulla legge in generale, il ricorrente censura
l’interpretazione del C.C.N.L. 14 giugno 2007 offerta nella sentenza di
appello, non avendo la Corte territoriale considerato che l’estensione al
personale non più in servizio della disposizione retroattiva avente ad oggetto
incrementi stipendiali per il quadriennio 2002-2005 doveva risultare
espressamente dal testo del contratto e che, in difetto di una tale
indicazione, l’estensione non poteva operare in via interpretativa; non avendo
inoltre considerato che, anche a voler superare il dato testuale e a volere
ritenere necessaria l’indagine sulla comune intenzione delle parti, il
comportamento complessivo tenuto dalle medesime, sia anteriore alla stipula del
C.C.N.L. (Accordo aziendale del 30/11/2006), sia posteriore (Proposta di
accordo del 14/2/2008), era stato tale da offrire elementi che confermavano il
senso letterale delle espressioni utilizzate dalle parti e cioè l’esclusione
dagli incrementi retributivi per il quadriennio 2002-2005 di quei lavoratori il
cui rapporto con l’Istituto fosse cessato, come nel caso del G., prima della
stipula del nuovo contratto collettivo.

2. Il motivo è infondato.

3. E’ stato invero già affermato da questa Corte che
“Il lavoratore, che sia iscritto ad una associazione sindacale e così
abbia dato mandato alla stessa per la stipulazione di un nuovo contratto
collettivo, ha diritto all’applicazione delle disposizioni contenute in tale contratto,
anche se lo stesso sia stipulato successivamente alla data in cui il suo
rapporto di lavoro è terminato, qualora le parti contraenti abbiano
espressamente attribuito efficacia retroattiva al nuovo contratto senza alcuna
distinzione fra i dipendenti in servizio e quelli non più in servizio alla data
della stipulazione” (Cass. n. 3811/1982; conforme Cass. n. 5281/1978).

4. E’ stato altresì affermato da Cass. n. 396/1998,
in una fattispecie sovrapponibile alla presente, che “Nella
interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, a fronte di
espressioni prive di un significato chiaro ed univoco, deve ricercarsi, come
previsto dall’art. 1362 cod. civ., la comune intenzione delle parti sociali,
valutandosi il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione
del contratto collettivo, e si devono interpretare tutte le clausole rilevanti
le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal
complesso dell’atto. (Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza
impugnata, che senza compiere le valutazioni indicate nel riportato principio,
aveva attribuito valore di deroga al principio della normale applicabilità
anche nei confronti dei dipendenti cessati dal servizio dei benefici
riconosciuti con effetto retroattivo a clausola del contratto collettivo per i
dipendenti da case di cura private per gli anni 1988 – 1990 non avente chiara
ed univoca portata in tal senso)”.

4.1. In motivazione viene ribadito che non esiste
nel vigente ordinamento giuridico un principio di parità di trattamento
economico dei lavoratori, che impedisca alla disciplina collettiva di prevedere
in determinate situazioni una differenziazione della retribuzione pur a parità
di categoria e di mansioni e che, pertanto, le parti sociali, nell’esercizio
della loro autonomia collettiva, possono prevedere, in occasione del rinnovo di
un contratto collettivo, che determinati aumenti della retribuzione,
riconosciuti con effetto retroattivo, spettino unicamente ai lavoratori in
servizio alla data del rinnovo, e non anche ai lavoratori cessati dal servizio
a tale data, ancorché in servizio nel precedente periodo, relativamente al
quale siano stati (retroattivamente) attribuiti i miglioramenti retributivi; e
peraltro viene precisato, in linea con il principio di cui a Cass. n.
3811/1982, che “per escludere l’applicabilità degli effetti retroattivi
del nuovo contratto collettivo ai lavoratori cessati dal servizio anteriormente
alla data di conclusione di esso, è necessario che le parti sociali, nell’esplicazione
della loro autonomia contrattuale, limitino i benefici stessi ai soli
lavoratori “in servizio” alla data di conclusione del nuovo contratto
collettivo”: così che “costituisce elemento rilevante la circostanza
… che le parti sociali, nello stabilire la decorrenza e la durata
dell’accordo, nessuna distinzione pongano fra dipendenti “in servizio” e quelli
non più in servizio alla data della stipulazione”.

5. A tali principi risulta essersi conformata la
Corte di appello di Roma, pervenendo ad esiti interpretativi del tutto
condivisibili.

5.1. In particolare, la Corte di appello: (a)
esaminato l’art. 55 C.C.N.L., e cioè la norma che prevede (retroattivamente)
incrementi retributivi per il periodo 2002-2005, ha posto in evidenza come essa
non specifichi in alcun modo se le sue previsioni (al pari di quelle del
C.C.N.L. complessivamente valutato) “siano o meno applicabili al personale
non più in servizio alla data” di stipulazione della fonte regolatrice
collettiva; (b) ha rilevato, in applicazione del criterio di interpretazione
complessiva delle clausole, come l’art. 62 del C.C.N.L. preveda espressamente
l’applicabilità (integrale) degli aumenti ai fini della “determinazione
del trattamento di quiescenza dei dirigenti comunque cessati dal servizio, con
diritto a pensione, nel periodo di vigenza del presente quadriennio
contrattuale”, osservando, al riguardo, e senza che il rilievo abbia poi
formato oggetto, in ricorso, di una specifica censura, che non vi sono
plausibili e convincenti ragioni che spieghino perché mai gli aumenti
dovrebbero essere considerati erogabili al personale cessato dal servizio per
quiescenza e non anche al personale cessato dal servizio (come nel caso di
specie) per cause diverse; (c) ha valutato il comportamento delle parti contraenti,
tanto anteriore come posteriore al C.C.N.L. 14 giugno 2007, attraverso l’esame
dei documenti che avrebbero potuto fornire indicazioni chiarificatrici della
comune volontà delle stesse: tuttavia, stabilendo, con adeguata motivazione,
che l’Accordo in data 30/11/2006 aveva la sola funzione di assicurare al
personale in servizio un provvisorio adeguamento della retribuzione al fine di
non penalizzarne eccessivamente le aspettative a causa dell’abnorme ritardo nel
rinnovo del C.C.N.L., così da risultare “ragionevole” che i benefici
dallo stesso previsti “fossero riservati al solo personale in organico
alla data della sua sottoscrizione”; e rilevando, quanto alla Proposta di
accordo 14/2/2008 (predisposta dalle organizzazioni sindacali ma non
sottoscritta dall’Istituto), con motivazione parimenti adeguata, che tale bozza
di accordo poteva solo dimostrare che era in corso, tra le parti, una
discussione sull’applicabilità del C.C.N.L. al personale non più in organico
alla data della sua sottoscrizione, il che era comprensibile nell’assenza di
una norma esplicita in un senso o nell’altro.

5.2. Si deve poi osservare che le fonti collettive
diverse da quelle di livello nazionale (per le quali opera, in sede di giudizio
di legittimità, il criterio di interpretazione diretta, stante la loro
parificazione sul piano processuale alle norme di diritto ex art. 360 n. 3 cod.
proc. civ.: Cass. n. 6335/2014), non si sottraggono all’applicazione del
principio, secondo cui “La parte che, con il ricorso per cassazione, intenda
denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione
di una clausola contrattuale, non può limitarsi” – come, invece, è dato
riscontrare nel motivo in esame – “a richiamare le regole di cui agli
artt. 1362 e seguenti cod. civ., avendo invece l’onere di specificare i canoni
che in concreto assuma violati ed in particolare il punto ed il modo in cui il
giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure
risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e
quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere
l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni,
sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni,
non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa
dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata
privilegiata l’altra” (Cass. n. 28319/2017, fra le numerose conformi).

6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per
esborsi e in euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre spese generali al
15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

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