Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 dicembre 2021, n. 38123

Rapporto di lavoro, Mancato riconoscimento della posizione
organizzativa rivestita, Plurimi atti di emarginazione, Mobbing,
Risarcimento danni

Ritenuto

 

1. La Corte d’Appello di Potenza ha accolto per
quanto di ragione l’appello principale proposto da G.C. nei confronti del
Comune di Rapolla avverso la sentenza emessa tra le parti dal Tribunale di
Melfi e, parzialmente riformandola, ha condannato il Comune di Rapolla a pagare
in favore della lavoratrice, a titolo risarcitorio, la complessiva somma di
euro 62.475,93, di cui euro 10.200,00 a titolo di danno non patrimoniale, con
interessi legali sulla predetta somma complessiva, via via rivalutata dal
dovuto al saldo.

2. Sempre il giudice di secondo grado ha rigettato
l’appello incidentale proposto dal Comune di Rapolla nei confronti di G.C.

3. La lavoratrice, dipendente del Comune di Rampolla
sino all’8 luglio 2010, con inquadramento nel livello D e posizione economica
D1 del CCNL di settore, aveva convenuto in giudizio il Comune di Rapolla, ex
datore di lavoro, per l’accertamento del mobbing subito nel periodo luglio
2007-luglio 2010, consistito in plurimi atti di emarginazione, isolamento e
demansionamento, e – ancora – nell’illegittimo mancato riconoscimento della
posizione organizzativa rivestita sino al primo semestre 2007, chiedendo
altresì il risarcimento di tutti i danni subiti.

Il Tribunale aveva accolto in parte la domanda
accertando la condotta illecita dell’Ente nei confronti della C. nel periodo
2007-2010 e riconoscendo in favore della stessa un risarcimento del danno pari
a euro 61.737,93 (euro 52.275,93, a titolo di danno patrimoniale, ed euro
9.642,00, per danno non patrimoniale), oltre accessori di legge e spese.

4. Il giudice di secondo grado, nell’accogliere in
parte l’appello principale ha affermato quanto segue.

4.1. La determinazione giudiziale del danno alla
professionalità, ridotto dal Tribunale nella misura del 50%, non era stata
arbitraria in quanto aveva costituito una modalità di determinazione equitativa
del danno da demansionamento, che normalmente la giurisprudenza di merito fissa
in una certa percentuale della retribuzione mensilmente percepita.

4.2. Era stato correttamente effettuato il calcolo
del danno risarcibile per il mancato riconoscimento dell’incarico di
responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della relativa posizione
organizzativa.

Ciò in quanto il calcolo del danno risarcibile era
stato eseguito valutando le chance, ossia le possibilità di conseguire un
risultato positivo che la ricorrente aveva in relazione al numero di altri
aspiranti alla posizione organizzativa.

4.3. Era fondata solo in parte la censura
sull’erroneità della determinazione del danno biologico a causa della sottovalutazione
di quello subito per effetto dell’accertato mobbing, tenuto conto della durata
della condotta datoriale, del precedente stato di salute della C. e delle
conclusioni medico legali rassegnate nella relazione depositata con il ricorso
introduttivo del giudizio.

In proposito, la Corte d’Appello ha affermato che il
primo giudice aveva errato nell’individuare l’età della ricorrente al momento
della produzione del danno (52 anni, non 62), con una differenza che incideva
senz’altro sulla determinazione equitativa del danno in parola (valore medio di
liquidazione per un danno biologico del 5% a carico di persona di 52 anni -euro
6.800,00; personalizzazione max del 50% – euro 10.200,00).

Per il resto, invece, il giudice di primo grado
aveva correttamente applicato le tabelle del Tribunale di Milano, dopo aver
disposto una CTU per la determinazione della lesione all’integrità psicofisica,
anche sulla scorta delle osservazioni medico-legali di parte.

4.4. Erano infondate le doglianze circa il mancato
riconoscimento del danno morale e del danno derivante dalla violazione della
privacy, nonché del danno da forzato collocamento in quiescenza, in quanto il
Tribunale aveva applicato il massimo coefficiente di personalizzazione del
danno e non c’era stata prova delle conseguenze dannose delle afflizioni, che
non potevano ritenersi esistenti in re ipsa; infine, nello stesso atto di
appello la ricorrente aveva riconosciuto che il proprio pensionamento era
dovuto ad una inidoneità psicofisica al servizio accertata su conforme
richiesta della lavoratrice medesima.

5. La Corte d’Appello ha rigettato integralmente
l’appello incidentale del Comune per le seguenti considerazioni.

5.1. Il Comune, con un primo motivo, si era doluto
che nella sentenza del Tribunale si facesse riferimento alla circostanza che in
occasione delle elezioni del 2007 la sorella della C. avrebbe rifiutato di
candidarsi nella lista elettorale del nuovo sindaco, sostenendo che ciò non
avrebbe trovato riscontro nelle risultanze processuali, di talché la sentenza
era da considerarsi come pronuncia c.d. a sorpresa.

Il giudice d’appello ha ritenuto questo motivo
inammissibile per difetto di un interesse ad impugnare la sentenza solo per
ottenere la modifica d’un accertamento di mero fatto, privo di conseguenze sulla
decisione finale.

Analoghe considerazioni sono state formulate
riguardo alla contestazione, svolta dal Comune, con il secondo motivo di
appello, in ordine alla deposizione testimoniale sulla circostanza che
all’interno del Comune si parlasse da tempo di un possibile licenziamento della
lavoratrice.

5.2. Il Comune, con il terzo motivo, censurava anche
l’esame delle prove testimoniali e si doleva della contraddittorietà della
sentenza, in quanto da un lato aveva affermato la mancanza di un diritto
soggettivo alla posizione organizzativa in capo alla C., dall’altro aveva
riconosciuto alla medesima il danno da perdita di chance.

La Corte d’Appello, in proposito, ha affermato che
tale censura era infondata, atteso che il danno da perdita di chance non
coincide con il diritto soggettivo al bene della vita richiesto.

5.3. Altro motivo di appello (il quarto) riguardava
la liquidazione equitativa del danno per perdita di chance e del danno da
demansionamento.

Il giudice di secondo grado ha ritenuto
inammissibile tale doglianza perché generica e assertiva.

5.4. Quanto alla contestazione della CTU in ordine
al valore di punto stabilito dalle Tabelle di Milano per un danno biologico
pari al 5%, e alla liquidazione del danno biologico anche riguardo all’apporto
concausale della lavoratrice, la Corte d’Appello, nel rigettare le doglianze,
ha rilevato che si trattava di valori indicativi di una liquidazione pur sempre
equitativa ed ha ricordato la giurisprudenza di legittimità in materia di
concorso della condotta illecita con preesistenti circostanze naturali.

6. Per la cassazione della sentenza d’appello
ricorre il Comune di Rapolla prospettando tre motivi di impugnazione.

7. Resiste con controricorso e ricorso incidentale,
articolato in quattro motivi, G.C..

8. In prossimità dell’adunanza camerale il Comune di
Rapolla ha depositato memoria.

 

Considerato

 

1. Con il primo motivo del ricorso principale il
Comune di Rapolla deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., la
violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 342 e 434, cod. proc.
civ. Nullità della sentenza per errata declaratoria di inammissibilità dei
motivi di appello. Ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione
e falsa applicazione degli artt. 2087 e 1218, cod. civ.

Il Comune si duole del rigetto delle prime tre
censure proposte in appello in quanto afferma che per la sussistenza del
mobbing è necessaria la prova dell’elemento soggettivo e cioè dell’intento
vessatorio.

Lamenta altresì che erroneamente la Corte
territoriale ha considerato generico il terzo motivo d’appello, che invece
aveva contestato la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado
segnalando, altresì, che non era stato spiegato quali fossero le situazioni
alle quali era stata ricondotta la sussistenza del mobbing.

1.1. Il motivo è inammissibile.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa
Corte ai fini della configurabilità del mobbing devono ricorrere: a) una serie
di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti, o anche leciti se
considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano posti in essere
contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo,
direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da
parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b)
l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla
vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità; d)
l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i
comportamenti lesivi (cfr. Cass. n. 26684 del 2017).

Quindi, l’elemento qualificante va ricercato non
nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento
persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere
subito la condotta vessatoria, e che spetta al giudice del merito accertare o
escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto.

Nella specie, la Corte d’Appello ripercorre la
motivazione della sentenza del Tribunale e le tappe della progressiva
marginalizzazione della lavoratrice quali emerse dall’istruttoria: spostamento
in una stanza al piano terreno destinata alle relazioni con il pubblico (front
office), con carenze logistiche – fascicoli poggiati sul pavimento per mancanza
di scaffali – e compiti estranei alle responsabilità proprie delle sue mansioni
(spostamento giustificato col preteso recupero di una stanza per gli assessori
poi assegnata ad altra collega); mancata conferma a partire dal 2007 nella
posizione organizzativa dell’area amministrativa, affidata ad altro collega in
passato valutato come poco adatto alla posizione organizzativa e di
coordinamento, e poi dopo il pensionamento di quest’ultimo affidata ad altri;
mancato smistamento della corrispondenza destinato all’ufficio della C., che
così restava priva delle necessarie informazioni; sottoposizione ad un’azione
disciplinare poi conclusasi con archiviazione; tollerata e aperta
conflittualità con altro collega.

La Corte d’Appello ha affermato, come già il
Tribunale, che la lavoratrice, pur avendo assunto un atteggiamento di chiusura
verso l’Amministrazione, nondimeno aveva progressivamente patito un processo di
svuotamento sistematico delle mansioni e di marginalizzazione,  pur continuando formalmente a ricoprire la
responsabilità dell’ufficio.

Risultava – quindi – provato l’illecito in danno del
dipendente, considerando ciascuna delle condotte, di per se lecite, come parti
di un disegno persecutorio piuttosto evidente.

Dunque, facendo corretta applicazione dei principi
sopra richiamati, in ragione dell’accertamento di fatto, la Corte d’Appello ha
affermato che le doglianze del Comune, che con il motivo in esame intende
sostituire un proprio ragionamento decisorio a quello della Corte territoriale,
riguardavano affermazioni che esulavano dalla ratio decidendi della decisione
del Tribunale, vertendo su meri fatti privi di conseguenze sulla decisione
finale.

2. Con il secondo motivo del ricorso principale è
prospettata, ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la violazione degli
artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1218, 2055, 2059 e 2087, cod. civ., e degli artt.
40 e 41, cod. pen.

Il Comune di Rapolla si duole della liquidazione del
danno: a) per la perdita di chance di attribuzione della posizione
organizzativa come parametrata percentualmente all’indennità di posizione e
all’indennità di risultato (nella misura massima); b) per la somma commisurata
alla retribuzione mensile goduta per 3 anni per il demansionamento e la perdita
delle opportunità di formazione; c) per il danno biologico riconosciuto nella
percentuale invalidante del 5% maggiorata del 50%, liquidata secondo le tabelle
milanesi.

La Corte ha modificato solo la liquidazione del
danno biologico, in ragione dell’errata individuazione dell’età della
lavoratrice, confermando nel resto la sentenza; ad avviso del ricorrente, in
tal modo vi sarebbe stata erronea applicazione dei criteri di quantificazione,
in violazione della normativa richiamata.

2.1. Il secondo motivo di ricorso è in parte
inammissibile e in parte non fondato.

Il Comune di Rapolla argomenta la censura, quanto al
danno per la mancata assegnazione della posizione organizzativa, ripercorrendo
la motivazione della sentenza del Tribunale e, nel censurarla, non si confronta
con la decisione d’appello che ha rilevato come il danno da perdita di chance
non corrisponda al diritto alla posizione organizzativa.

Anche riguardo al danno per lo svuotamento di
contenuto delle mansioni il Comune ricorda la sentenza del Tribunale e riporta
il motivo di gravame. Così per la censura relativa alla liquidazione del danno
biologico, che è svolta ricordando la statuizione del Tribunale e la censura
prospettata in appello.

Di talché siffatti profili del motivo di
impugnazione sono inammissibili in quanto non censurano adeguatamente la ratio
decidendi della sentenza d’appello.

Inoltre, il motivo non è fondato nella parte in cui
contesta l’affermazione della Corte territoriale circa l’irrilevanza delle
preesistenti circostanze naturali rispetto alla condotta illecita del datore di
lavoro, prospettando che nel caso di concorso di concause nella produzione del
danno vi sarebbe una delimitazione del danno risarcibile da effettuare con
prudente e ragionevole apprezzamento e considerando tutte le circostanze del
caso.

Nel caso di specie i giudici di merito non avevano
riconosciuto alcuna efficacia, ai fini della limitazione del danno risarcibile,
alla pregressa indipendente situazione patologica della ricorrente.

Ed infatti, secondo il consolidato orientamento
della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 9899 del 2016 e n. 13954 del
2014), di cui la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione, in materia di
infortuni sul lavoro e malattie professionali trova applicazione la regola
contenuta nell’art. 41, cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e
danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il
quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito,
anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo che il
nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente
da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a
semplici occasioni.

3. Con il terzo motivo di ricorso il Comune deduce,
ai sensi dell’art. 360, n. 4, la violazione e falsa applicazione degli artt.
91, 92, 112, 342 e 434, cod. proc. civ.

Il Comune lamenta che la Corte d’appello abbia
modificato d’ufficio il governo delle spese nonostante che sul punto non vi
fosse stata impugnazione.

Il motivo è infondato: ex art. 336, comma 1, cod.
proc. civ. la pronuncia sulle spese costituisce capo della sentenza dipendente
da quello inerente al merito, sicché in caso di riforma in tutto o in parte
della pronuncia di prime cure (come avvenuto nella specie), il giudice deve
procedere d’ufficio a nuova regolamentazione del regime delle spese in ragione
dell’esito complessivo di lite (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 14916 del
2020).

4. In conclusione, il ricorso per cassazione del
Comune Rapolla deve essere rigettato.

5. Può passarsi, ora, all’esame del ricorso per
cassazione della C..

6. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la
violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1218, 2055,
2059, 2103 e 2087, cod. civ.; 1174 e 1321, cod. civ.; 1375, 2697, cod. civ.;
artt. 2, 4 e 35, Cost.

Il tutto in relazione all’art. 360, primo comma, nn.
3 e 4, cod. proc. civ., per erronea e ingiusta determinazione del danno alla professionalità.

La lavoratrice si duole dell’ingiusta determinazione
del danno alla professionalità, atteso che la Corte d’Appello lo aveva
quantificato facendo riferimento allo stipendio mensile lordo, ma poi aveva
operato sulla somma la riduzione del 50%, in considerazione della non completa
privazione delle professionalità proprie dell’ufficio e della posizione,
dell’atteggiamento di chiusura della lavoratrice e della gravità complessiva
della condotta datoriale.

Deduce la ricorrente che era intervenuta liquidazione
secondo equità pur non essendovi stata impossibilità o difficoltà di fornire la
prova del quantum debeatur.

Inoltre, sempre ad avviso della ricorrente
erroneamente era stata valutata l’incidenza della condotta del danneggiato
nella rilevante misura del danno, di talché, mentre da un lato si era proceduto
a liquidazione equitativa, dall’altro erano stati utilizzati percorsi logici a
ciò non pertinenti.

6.1. Il motivo è inammissibile.

Occorre premettere che la liquidazione equitativa,
anche nella sua forma cd. “pura”, consiste in un giudizio di prudente
contemperamento dei vari fattori di probabile incidenza sul danno nel caso
concreto, sicché, pur nell’esercizio di un potere di carattere discrezionale,
il giudice è chiamato a rendere evidente, in motivazione, il percorso logico
seguito nella propria determinazione al fine di consentire il sindacato del
rispetto dei principi del danno effettivo e dell’integralità del risarcimento
(cfr., Cass., n. 22272 del 2018).

Per evitare che la relativa decisione si presenti
come arbitraria e sottratta ad ogni controllo è necessario, quindi, che il
giudicante indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere
discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del
danno e gli elementi su cui ha basato la propria decisione in ordine al
“quantum” (cfr. Cass., n. 2327 del 2018).

La Corte d’Appello, nella specie, ha esaminato la
censura relativa alla riduzione nella misura del 50% ed ha ritenuto corretta la
decisione del Tribunale che aveva proceduto a tale adattamento del parametro
della retribuzione mensilmente percepita in ragione delle circostanze del caso
concreto.

Come ricorda la stessa ricorrente, il Tribunale,
dopo aver preso a riferimento la retribuzione mensile lorda, aveva tenuto conto
della durata del demansionamento, operando una riduzione del 50% in
considerazione della circostanza della non completa privazione delle
professionalità proprie dell’ufficio di preposizione, dell’atteggiamento di
chiusura della lavoratrice stessa (che aveva probabilmente acuito il conflitto)
e della gravità complessiva della condotta datoriale.

Dunque, il giudice di merito ha indicato i criteri
seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui è stata basata
la decisione in ordine al “quantum”, che è stata effettuata partendo da un
parametro oggettivo (la retribuzione mensile lorda) e procedendo alla
liquidazione tenendo conto dell’accertamento di fatto sul periodo del
demansionamento, sull’effettiva privazione della professionalità,
sull’atteggiamento tenuto dalla lavoratrice e sulla condotta datoriale.

Tale accertamento ha trovato conferma
nell’argomentata statuizione della Corte d’Appello: di contro la lavoratrice,
con il motivo  di ricorso in esame,
chiede una rivalutazione dell’accertamento di merito inammissibile in sede di
legittimità.

6.2. Ed è noto che, secondo le Sezioni Unite di
questa Corte (n. 8053 del 2014), l’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. consente,
come già osservato, di impugnare per cassazione – oltre all’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, che risulti dal testo della sentenza o dagli
atti processuali e sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia
carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito
diverso della controversia (cfr., Cass., n. 20553 del 2021).

Pertanto (una volta escluso, come nella specie, che
la motivazione resa dalla Corte d’appello sia inesistente o apparente o
contraddittoria), l’accertamento dei fatti può essere censurato in sede di
legittimità solo per l’omesso esame da parte del giudice di merito di un “fatto
storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione e appaia “decisivo”
ai fini di una diversa soluzione, non essendo più consentito impugnare la
sentenza per criticare la sufficienza dell’iter argomentativo della decisione
adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito
determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi.

Nel caso di specie, la ricorrente non ha
specificamente indicato quali sarebbero stati i fatti storici che, sebbene
decisivi e oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, la Corte
d’Appello avrebbe del tutto omesso di esaminare – atteso, comunque, che la
Corte territoriale ha preso in esame la CTU disposta in primo grado, e la
relazione depositata con il ricorso introduttivo, nonché le Tabelle di Milano,
come si evince dal tenore complessivo della sentenza – limitandosi, piuttosto,
a sollecitare un’inamissibile rivalutazione del materiale istruttorio e della
documentazione medica acquisita.

 La
valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni,
costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento
discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione
della vicenda fattuale non sono sindacabili innanzi a questa Corte.

7. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 50, 109, 110, del d.lgs. n. 267 del
2000; dell’art. 15 del CCNL 22 gennaio 2004; dell’art. 64 del CCNL decentrato
integrativo 2002-2005; dell’atto di nomina del sindaco del 10 gennaio 2006, n.
2; dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001; dell’art. 97 Cost.; il
tutto in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ., per erronea e
ingiusta determinazione del danno per mancato riconoscimento dell’incarico di
responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della relativa posizione
organizzativa. Nullità della sentenza in parte qua per motivazione
contraddittoria, incongrua, aberrante e abnorme.

La lavoratrice, nell’esporre la censura, ripercorre
l’atto introduttivo del giudizio e la sentenza del Tribunale, confermata sul
punto dalla Corte d’Appello, che ha affermato che il calcolo del danno
risarcibile è stato correttamente eseguito valutando le chance, ossia le
possibilità di conseguire un risultato positivo in relazione al numero degli
altri aspiranti alla posizione organizzativa, compreso il lavoratore cui era
stata poi attribuita, cui non era affatto perclusa la possibilità di conseguire
una nuova e ulteriore posizione organizzativa, con conseguente inammissibilità
del motivo.

La lavoratrice si duole del mancato riconoscimento
dell’incarico di responsabile dell’area amministrativa con attribuzione della
relativa posizione organizzativa e della ingiusta determinazione del danno in
merito.

7.1. Il motivo non è fondato.

Il danno patrimoniale da perdita di “chance” è un
danno futuro, consistente nella perdita non di un vantaggio economico, ma della
mera possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione “ex ante” da
ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha
inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale;
l’accertamento e la liquidazione di tale perdita, necessariamente equitativa,
sono devoluti al giudice di merito e sono insindacabili in sede di legittimità
se adeguatamente motivati (Cass. n. 2737 del 2015).

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione
dei suddetti principi in ragione d’un motivato accertamento di fatto sulla mera
possibilità del conferimento della posizione organizzativa.

8. Con il terzo motivo di ricorso la lavoratrice ha
dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227,
1218, 2055, 2059,2103 e 2087, cod. civ., dell’art. 13 del d.lgs. n. 38 del
2000, dell’art. 32 Cost.

Il tutto in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, cod.
proc. civ., per erronea e ingiusta determinazione del danno biologico, nullità
della sentenza in parte qua per motivazione contraddittoria, incongrua,
aberrante e abnorme.

Assume la ricorrente, dopo aver ricordato i principi
giurisprudenziali in materia di danno biologico, di aver adempiuto il proprio
onere della prova con riguardo alla sussistenza del danno biologico: a tal fine
richiama la documentazione prodotta in sede di merito, nonché la narrativa in
fatto del ricorso introduttivo del giudizio.

In altre parole, la ricorrente incidentale lamenta
come vizio di motivazione l’omessa considerazione della documentazione allegata
con il ricorso introduttivo del giudizio e delle osservazioni mosse al CTU.
Ripercorre, quindi, la documentazione medica prodotta a sostegno delle proprie
argomentazioni.

8.1. Il motivo è inammissibile in quanto, sotto
l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge e
di mancanza di motivazione, lo stesso degrada in realtà verso l’inammissibile
richiesta di una rivalutazione delle risultanze istruttorie.

La complessiva censura traligna dal modello legale
di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360, cod. proc. civ., perché
pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti e
una propria lettura del materiale di causa, senza confrontarsi in modo
specifico con la ratio decidendi della sentenza di appello, che di fatto viene
censurata attraverso la critica alla sentenza di primo grado (Cass. SU. n.
34476 del 2019).

E infatti, la Corte d’Appello ha accolto in parte la
censura inerente all’individuazione dell’età della lavoratrice. Per il resto,
ha rigettato l’impugnazione avendo il giudice di primo grado correttamente
applicato le Tabelle di Milano, dopo avere disposto CTU per la determinazione
della lesione all’integrità psico-fisica, anche sulla scorta delle osservazioni
medico legali di parte.

Le censure svolte dalla ricorrente, dunque, si
infrangono sul differente accertamento in fatto operato, sul punto, dalla Corte
d’Appello, anche in ragione dei principi richiamati sopra al punto 6.2.

Anche in proposito la ricorrente non ha
specificamente indicato quali sarebbero stati i fatti storici che, sebbene
decisivi e oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, la Corte
d’Appello avrebbe del tutto omesso di esaminare.

9. Con il quarto motivo del ricorso incidentale
viene dedotta la violazione degli artt. 5 del dPR n. 37/2009; 1 del dPR n. 181
del 2009; 2059 cod. civ.; 185 cod. pen.; 2947, comma 3, cod. civ.; 75, commi
due e tre, cod. proc. pen. Violazione e falsa applicazione dei principi di
diritto affermati da Corte cost. n. 102 del 1981, n. 118 del 1986, n. 182 del
1996, Cass. n. 4201 del 1998, n. 14443 del 2000, n. 1643 del 2000, n. 23918 del
2006, n. 13530 del 2009, n. 11851 del 2015. Tutto in relazione all’art. 360, n.
3 n. 4, cod. proc. civ., per ingiusto mancato riconoscimento dei danni morali.

Motivazione assente, incongrua, aberrante e
apparente.

La lavoratrice si duole del mancato riconoscimento
del danno morale, che costituisce autonoma categoria di danno rispetto a quello
biologico, danno morale ravvisabile – nel caso di specie – perché la condotta
del datore di lavoro costituiva, oltre che un inadempimento contrattuale, anche
un’ipotesi delittuosa.

9.1. Il motivo non è fondato.

Nella liquidazione del danno non patrimoniale, in
difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze
affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati
presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle
Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile
al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte
le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di
“danno morale”, la quale, nei sistemi tabellari precedenti, veniva invece
liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno
2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di
invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione.

Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche
circostanze di fatto,che valgano a superare le conseguenze ordinarie già
previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle
previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le
percentuali massime di aumento previste nelle tabelle stesse, dando
adeguatamente conto in motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di
apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque,
individualizzata) considerazione in termini monetari (si v. Cass. n. 11754 del
2018).

La Corte d’Appello, decidendo sulla denuncia del
mancato riconoscimento del danno morale, ha fatto corretta applicazione dei
suddetti principi, in quanto ha rigettato la censura poiché il Tribunale aveva
applicato il massimo coefficiente di personalizzazione del danno, tenendo conto
dell’accertata sofferenza interiore ragionevolmente cagionata dal vissuto
negativo della lavoratrice, così confermando l’accertamento svolto dal giudice
di primo grado.

10. Dunque, anche il ricorso incidentale deve essere
rigettato.

11. In ragione della reciproca soccombenza le spese
di giudizio sono compensate tra le parti.

12. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R.
n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
rispettivamente per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del
comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuti.

 

P.Q.M.

 

Rigetta entrambi i ricorsi. Compensa tra le parti le
spese di giudizio.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto rispettivamente
per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma del comma 1 bis
dello stesso art. 13, se dovuti.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 dicembre 2021, n. 38123
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