Giurisprudenza – TRIBUNALE DI RIETI – Ordinanza 08 febbraio 2022, n. 14

Pensioni, Soggetti che esercitano per professione abituale,
ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo (nella specie, attività
libero professionale di architetto) subordinata all’iscrizione ad un albo, ma
non iscritti alla relativa Cassa previdenziale di categoria, essendo già
iscritti in altra forma di previdenza obbligatoria in ragione di altra attività
esercitata, Previsione che, in base all’interpretazione del diritto vivente,
dispone nei confronti di costoro l’obbligatoria iscrizione alla Gestione
separata presso l’INPS., Legge 8 agosto 1995, n.
335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), art. 2, comma 26; decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge
15 luglio 2011, n. 111, art.
18, comma 12.

 

Convenuto

 

1. – Premessa.

Il sig. P. M. è un architetto, iscritto all’Albo
degli architetti di … sin dal …, che svolge attività libero professionale
in maniera abituale, ma non esclusiva, in quanto svolge contemporaneamente
attività di lavoro subordinato quale dipendente a tempo indeterminato presso il
Ministero dell’Istruzione in qualità di docente in istituto scolastico
superiore.

Dal punto di vista previdenziale, il sig. P. M., è
iscritto alla gestione dei lavoratori subordinati presso l’Inps in relazione
all’attività di pubblico dipendente, mentre, con riguardo all’attività libero
professionale di architetto, è iscritto al relativo albo professionale, ma non
anche all’ente previdenziale di categoria (Inarcassa), nei cui confronti versa
solamente un contributo integrativo sulla base dei redditi regolarmente
dichiarati ogni anno, come previsto dal relativo statuto e regolamento.

Tuttavia, con nota del …, comunicata in data ….,
l’Inps ha provveduto ad iscrivere d’ufficio l’arch. M. alla propria Gestione
separata ai sensi dell’art. 2,
comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, richiedendo quindi il
pagamento dei relativi contributi previdenziali per l’anno 2012, calcolati in
complessivi euro 2.601,24, oltre all’applicazione delle sanzioni calcolate ai
sensi dell’art. 116, comma 8,
lettera b, legge n. 388/2000, relativo alla fattispecie di evasione
contributiva.

Avverso tale nota, l’arch. M. ha proposto ricorso
amministrativo in data …, successivamente respinto con provvedimento dell’…
.

Con ricorso depositato in data …, l’arch. M. ha
agito in giudizio nei confronti dell’Inps proponendo una domanda di accertamento
negativo dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata presso l’Inps per
l’anno 2012, con relativa richiesta di cancellazione. In subordine, ha chiesto
di annullare le sanzioni e gli interessi applicati nella nota impugnata per
insussistenza dei relativi presupposti e, in ulteriore subordine, di ridurre le
stesse ricalcolandone gli importi nella misura di legge.

Con il medesimo ricorso, inoltre, il ricorrente ha
formulato apposita istanza con la quale ha sollevato una questione di
legittimità costituzionale dell’art.
2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge
n. 98 del 2011, per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di
legittimità (c.d. diritto vivente) per violazione degli articoli 2, 3, 38 e 53 della Costituzione,
nonché per la violazione dell’art. 117 della
Costituzione in relazione all’art.
6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, nella parte in cui
prevede, secondo la detta interpretazione, l’obbligatoria iscrizione alla
Gestione separata presso l’Inps e il versamento della relativa contribuzione
previdenziale da parte del libero-professionista che svolga, contestualmente,
anche altra attività lavorativa e che abbia, per essa, anche altra posizione
previdenziale obbligatoria.

A sostegno del proprio ricorso, ha dedotto, in
sintesi: l’insussistenza dei presupposti per l’iscrizione nella gestione
separata Inps ex art. 2, comma
26, legge n. 335 del 1995, tenuto conto della norma di interpretazione
autentica di cui all’art. 18,
comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011, in quanto l’obbligo di iscrizione
alla gestione separata sussisterebbe solamente per quei professionisti per i
quali non esiste un albo professionale; che, nel caso di specie, troverebbe
applicazione il comma 25, dell’art.
2, legge 8 agosto 1995, n. 335 e non già il comma 26; che in ogni caso il
versamento del contributo integrativo avrebbe natura previdenziale, con la
conseguenza di dover ritenere assolto al proprio obbligo contributivo ai sensi
dell’art. 1, della legge n. 133
del 2011, di modifica dell’art.
8 del decreto legislativo n. 103 del 1996, nonché dell’art. 26 del regolamento
Inarcassa; che tale interpretazione della suddetta normativa è stata costante e
pacifica per ventidue anni, confermata sia dalla giurisprudenza di merito che
di legittimità, fino al revirement operato con le sentenze
n. 30344 e 30345 del 2017 della Suprema
Corte di cassazione, che invece ha disatteso tale precedente e consolidato
orientamento sancendo la sussistenza dell’obbligo di iscrizione nella gestione
separata anche dei professionisti iscritti in albi che versino il solo
contributo integrativo.

 Con memoria
tempestivamente depositata, si è costituito l’Inps che ha chiesto il rigetto
del ricorso, sulla base del consolidato orientamento della Suprema Corte di
cassazione secondo cui l’unica contribuzione idonea ad escludere l’obbligo
dall’iscrizione alla gestione separata è solamente quella diretta alla
costituzione di una futura prestazione pensionistica, con la conseguenza che
ciò non si riscontra con il versamento del solo contributo integrativo.

2. – La rilevanza della questione.

I fatti di causa, per come descritti in premessa,
sono pacifici e non contestati.

Pertanto, l’unica questione giuridica che viene in
rilievo nel caso di specie concerne l’obbligo di iscrizione alla Gestione
separata presso l’Inps degli ingegneri e degli architetti, già iscritti ad
altre forme di previdenza obbligatorie, i quali non possono iscriversi ad
Inarcassa, alla quale versano esclusivamente un contributo integrativo in
quanto iscritti agli albi, a cui, però, non segue la costituzione di alcuna
posizione previdenziale a loro beneficio.

Tale questione è stata già decisa dalla Suprema
Corte di cassazione con le sentenze. nn. 30344 del
2017, n. 30345 del 2017, n. 32167 del 2018, e innumerevoli successive
conformi, con le quali si è affermata la sussistenza dell’obbligo in discorso,
facendo applicazione dell’art. 2,
comma 26, legge n. 335 del 1995 e della relativa norma di interpretazione
autentica di cui all’art. 18,
comma 12, decreto-legge n. 98 del 2011.

Applicando il suddetto consolidato orientamento
giurisprudenziale (c.d. diritto vivente) alla fattispecie in esame, si dovrebbe
necessariamente addivenire al rigetto del ricorso.

Tuttavia, si dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 26, legge n.
335 del 1995 e della relativa norma di interpretazione autentica di cui
all’art. 18, comma 12,
decreto-legge n. 98 del 2011, per come interpretati dal diritto vivente.

A tal riguardo, infatti, deve osservarsi che per la
definizione del giudizio occorre necessariamente fare applicazione della norma
della cui legittimità costituzionale si dubita, non sussistendo altre questioni
preliminari o pregiudiziali che potrebbero condurre ad un diverso esito del
giudizio.

Dalla risoluzione della suddetta unica questione,
infatti, dipende l’esito del giudizio: se la questione dovesse essere ritenuta
fondata, ne conseguirebbe l’accoglimento del ricorso mediante la dichiarazione
dell’insussistenza dell’obbligo di iscrizione alla Gestione separata e la non
debenza del relativo contributo; se, invece, la questione dovesse essere
ritenuta infondata, ne deriverebbe inevitabilmente il rigetto del ricorso,
conformemente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità
(c.d. diritto vivente).

Pertanto, l’incidente di costituzionalità si
presenta nel caso di specie come assolutamente rilevante e logicamente
preliminare alla definizione della causa, ai sensi dell’art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87.

3. – Interpretazione costituzionalmente orientata.
Esclusione.

In secondo luogo, quanto all’onere del giudice a quo
di tentare preliminarmente la via della interpretazione costituzionalmente
orientata delle disposizioni di cui si dubita la conformità a Costituzione, in
applicazione del principio secondo cui una disposizione di legge può essere
dichiarata costituzionalmente illegittima solo quando non sia possibile
attribuirle un significato che la renda conforme ai parametri costituzionali invocati,
deve osservarsi come, nel caso di specie, una simile alternativa risulti del
tutto preclusa alla luce dell’esistenza di un orientamento della giurisprudenza
di legittimità assolutamente consolidato e granitico tale da costituire il
diritto vivente di cui si chiede, con la presente ordinanza, il controllo di
compatibilità con i parametri costituzionali invocati.

Al riguardo, infatti, va richiamato l’orientamento
della giurisprudenza costituzionale secondo il quale, in presenza di un
orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo ha la facoltà di
assumere l’interpretazione censurata in termini di «diritto vivente» e di
richiederne su tale presupposto il controllo di compatibilità con i parametri
costituzionali. Ciò, senza che gli si possa addebitare di non aver seguito
altra interpretazione, più aderente ai parametri stessi, sussistendo tale onere
solo in assenza di un contrario diritto vivente (Corte costituzionale n. 180
del 2021, n. 95 del 2020, n. 141 del 2019, n. 122 del 2017 e n. 11 del 2015).

Le suddette considerazioni, inoltre, inducono anche
ad escludere una eventuale inammissibilità della questione per la richiesta di
un mero avallo interpretativo (Corte costituzionale n. 1 del 2021, n. 240 del
2016).

Peraltro, sulla sussistenza di un diritto vivente
nei termini suindicati non sussistono dubbi. Infatti, l’orientamento inaugurato
da Cassazione civ., sez. lav., 18 dicembre 2017,
n. 30344 e n. 30345 è stato successivamente
confermato, tra le altre, da Cassazione 18 gennaio
2018, n. 1172, Cassazione 23 gennaio 2018, n. 1643 e Cassazione 30 gennaio
2018, n. 2282, per poi essere ulteriormente confermato ed approfondito, con
ampia ed articolata motivazione, da Cassazione 12
dicembre 2018, n. 32166 (relativa a ingeneri e architetti) e n. 32167 (relativa agli avvocati). A tali ampie
ed approfondite motivazioni, hanno poi fatto riferimento tutte le successive ed
innumerevoli pronunce conformi (cfr., tra le tante, Cassazione 17 dicembre
2018, n. 32608; Cassazione 21 dicembre 2018, n. 33313, Cassazione 11 gennaio 2019, n. 519, Cassazione 8 febbraio 2019, n. 3799, Cassazione 10 gennaio 2020, n. 7485, Cassazione 27 gennaio 2020, n. 1827, Cassazione 3
luglio 2020, n. 13649, Cassazione 14 gennaio 2021, n. 477 e n. 478, Cassazione
18 febbraio 2021, n. 4419, Cassazione 3 marzo
2021, n. 5826, Cassazione 15 marzo 2021, n.
7227, Cassazione 19 aprile 2021, n. 10268).

Ritenuta, quindi, la rilevanza della questione e
l’impraticabilità di una diversa interpretazione in presenza di un consolidato
orientamento giurisprudenziale, occorre procedere ad individuare esattamente le
disposizioni viziate la illegittimità costituzionale e ad esaminare i motivi
che paiono essere non manifestamente infondati in relazione ai parametri
costituzionali che vengono in rilievo.

A tal fine, occorre preliminarmente esporre in
maniera compiuta il quadro normativo di riferimento.

4. – Quadro normativo di riferimento e sua
evoluzione.

La legge 4 marzo 1958,
n. 179 ha istituito la Cassa nazionale di previdenza a favore degli
ingegneri e architetti (Inarcassa), avente in origine personalità giuridica di
diritto pubblico (art. 1),
successivamente privatizzata in base al decreto
legislativo 30 giugno 1994, n. 509.

Con specifico riferimento alla posizione
previdenziale del libero professionista iscritto all’albo di architetto, ma già
iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria in relazione ad altra
attività esercitata, come nel caso di specie, la legge 11 novembre 1971, n.
1046, art. 2, novellando la legge
4 marzo 1958, n. 179, art. 3, ha previsto che «Sono iscritti alla Cassa
tutti gli ingegneri ed architetti che possono per legge esercitare la libera
professione. A decorrere dal 1° gennaio 1972 sono esclusi dalla iscrizione alla
Cassa gli ingegneri ed architetti iscritti a forme di previdenza obbligatorie
in dipendenza di un rapporto di lavoro subordinato o comunque di altra attività
esercitata».

L’esclusione dall’iscrizione alla Cassa per i
professionisti già iscritti ad altre forme di previdenza obbligatorie in
relazione ad altra attività esercitata è stata poi ribadita dalla legge 3 gennaio 1981, n. 6, recante «Norme in
materia di previdenza per gli ingegneri e gli architetti», che con il suo art. 21, comma 5, ha
confermato che «Sono esclusi dall’iscrizione alla Cassa ai sensi dell’art. 2
della legge 11 novembre 1971, n. 1046, gli ingegneri e gli architetti iscritti
a forme di previdenza obbligatorie in dipendenza di un rapporto di lavoro
subordinato o comunque di altra attività esercitata».

Inoltre, la stessa legge
3 gennaio 1981, n. 6, con il suo art. 10, rubricato
«Contributo integrativo», ha disposto che «A partire dal 1° gennaio del secondo
anno successivo all’entrata in vigore della presente legge, tutti gli iscritti
agli albi di ingegnere e di architetto devono applicare una maggiorazione
percentuale su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai
fini dell’IVA e versarne alla Cassa l’ammontare indipendentemente
dall’effettivo pagamento che ne abbia eseguito il debitore. La maggiorazione è
ripetibile nei confronti di quest’ultimo».

Sulla base di tali disposizioni, quindi, è del tutto
pacifico che il professionista iscritto all’albo di architetto, già iscritto ad
altra forma di previdenza obbligatoria in relazione ad altra attività esercitata,
se da un lato non può iscriversi alla Cassa in relazione all’attività libero
professionale svolta con continuità, dall’altro lato è comunque tenuto a
versare un contributo integrativo in favore dell’ente previdenziale di
categoria.

4.1. – Successivamente, è intervenuta la legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema
pensionistico obbligatorio e complementare) volta a disciplinare la tutela
previdenziale di liberi professionisti e lavoratori autonomi.

Con riferimento ai primi (liberi professionisti), l’art. 2, comma 25, legge 8 agosto
1995, n. 335, ha previsto una delega al Governo sul punto, disponendo che:
«Il Governo della Repubblica è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla data
di entrata in vigore della presente legge, norme volte ad assicurare, a
decorrere dal 1° gennaio 1996, la tutela previdenziale in favore dei soggetti
che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di
subordinazione, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione ad appositi albi
o elenchi, in conformità ai seguenti principi e criteri direttivi: a)
previsione, avuto riguardo all’entità numerica degli interessati, della
costituzione di forme autonome di previdenza obbligatoria, con riferimento al
modello delineato dal decreto legislativo 30 giugno
1994, n. 509, e successive modificazioni ed integrazioni; b) definizione
del regime previdenziale in analogia a quelli degli enti per i liberi
professionisti di cui al predetto decreto legislativo, sentito l’ordine o
l’albo, con determinazione del sistema di calcolo delle prestazioni secondo il
sistema contributivo ovvero l’inclusione, previa delibera dei competenti enti,
in forme obbligatorie di previdenza già esistenti per categorie similari; c)
previsione, comunque, di meccanismi di finanziamento idonei a garantire
l’equilibrio gestionale, anche con la partecipazione dei soggetti che si
avvalgono delle predette attività; d) assicurazione dei soggetti appartenenti a
categorie per i quali non sia possibile procedere ai sensi della lettera a)
alla gestione di cui ai commi 26 e seguenti».

La delega legislativa è stata attuata con il decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103,
recante «Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 25, della legge 8
agosto 1995, n. 335, in materia di tutela previdenziale obbligatoria dei
soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione».

L’art.
1 del suddetto decreto legislativo, ha espressamente previsto l’estensione
della «tutela previdenziale obbligatoria ai soggetti che svolgono attività
autonoma di libera professione senza vincolo di subordinazione, il cui
esercizio è condizionato all’iscrizione in appositi albi o elenchi» (comma 1),
precisando altresì che «Le norme di cui al presente decreto si applicano anche
ai soggetti, appartenenti alle categorie professionali di cui al comma 1, che
esercitano attività libero -professionale, ancorché contemporaneamente svolgano
attività di lavoro dipendente» (comma 2).

Con riferimento ai secondi (lavoratori autonomi), l’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335, ha istituito una apposita gestione separata presso
l’Inps, disponendo che: «A decorrere dal 1° gennaio 1996, sono tenuti
all’iscrizione presso una apposita Gestione separata, presso l’Inps, e
finalizzata all’estensione dell’assicurazione generale obbligatoria per
l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, i soggetti che esercitano per
professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo, di
cui al comma 1 dell’art. 49 del
testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente
della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni ed
integrazioni, nonché i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, di cui al comma 2, lettera a), dell’art. 49 del medesimo testo unico e
gli incaricati alla vendita a domicilio di cui all’art. 36 della legge 11 giugno
1971, n. 426. Sono esclusi dall’obbligo i soggetti assegnatari di borse di
studio, limitatamente alla relativa attività».

In tale contesto normativo, la giurisprudenza di
legittimità non ha mai avuto dubbi sulla necessità di escludere l’obbligo di
iscrizione alla gestione separata Inps (art. 2, comma 26, cit.) da parte
del libero professionista iscritto in albi, in quanto, in tale ultima ipotesi,
il soggetto deputato alla gestione della tutela previdenziale obbligatoria
viene scelto dall’organo professionale competente.

Sul punto, infatti, la Corte Suprema di cassazione
ha avuto modo di ribadire più volte che i «professionisti iscritti ad albi o
elenchi non sono iscritti nella gestione di cui alla legge n. 335 del 1995, art. 2,
comma 26, ma nella gestione di cui al precedente comma 25» evidenziando come in
tale ipotesi «il soggetto deputato alla gestione della tutela previdenziale
obbligatoria viene scelto dall’organo professionale competente e non è certo la
Gestione separata presso Inps» dal momento che quest’ultima «è stata invece
prevista per quei lavoratori autonomi che svolgono attività professionale per
la quale non è prevista l’iscrizione in albi o in elenchi e che quindi non
hanno alcun ente deputato alla relativa tenuta che possa decidere sulla forma
di gestione della tutela previdenziale. Ne consegue, conclusivamente, che i
professionisti iscritti negli albi sono esclusi dalla Gestione separata presso
l’Inps di cui alla legge n. 335
del 1995, art. 2, comma 26, mentre in questa sono inclusi i professionisti
per i quali, come le guide turistiche, non esiste un albo professionale» (Cassazione civ., sez. lav., 22 maggio 2008, n. 13218,
punto 3.1. della motivazione, che conferma Cassazione
civ., sez. lav., 16 febbraio 2007, n. 3622 e Cassazione
civ., sez. lav., 19 giugno 2006, n. 14069).

4.2. – Tuttavia, con riferimento a tale ultima
fattispecie (art. 2, comma
26, cit.), è successivamente intervenuto il legislatore con una norma di interpretazione
autentica.

In particolare, il decreto-legge
6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, ha disposto (con l’art. 18, comma 12) che «L’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335, si interpreta nel senso che i soggetti che esercitano
per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo
tenuti all’iscrizione presso l’apposita gestione separata Inps sono
esclusivamente i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia
subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non
soggette al versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai
rispettivi statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma
11. Resta ferma la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del
decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103.

Sono fatti salvi i versamenti già effettuati ai
sensi del citato art. 2, comma
26, della legge n. 335 del 1995».

Il comma 11 del medesimo art. 18 cit., dispone che «Per i
soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto adeguano i propri statuti e
regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione
a carico di tutti coloro che risultino aver percepito un reddito, derivante
dallo svolgimento della relativa attività professionale. Per tali soggetti è
previsto un contributo soggettivo minimo con aliquota non inferiore al
cinquanta per cento di quella prevista in via ordinaria per gli iscritti a
ciascun ente. Qualora entro il predetto termine gli enti non abbiano provveduto
ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in ogni caso quanto
previsto al secondo periodo».

Anche a seguito dell’intervento del legislatore con
la suddetta norma di interpretazione autentica, l’orientamento dominante della
giurisprudenza di merito è stato sempre nel senso di escludere l’obbligo di
iscrizione alla gestione separata Inps da parte di liberi professionisti non
iscritti alla propria Cassa previdenziale, ma comunque assoggettati al
versamento del contributo integrativo in quanto iscritti in albi (cfr. la
copiosa giurisprudenza indicata a pag. 9 e 10 del ricorso e depositata in atti,
tra cui si segnalano in particolare i precedenti resi in grado di appello:
Corte d’appello di Torino, sentenza n. 1147/2014; Corte d’appello di Genova,
sentenza n. 322/2015; Corte d’appello di Salerno, sentenza n. 255/2016; Corte
d’appello di Caltanissetta, sentenza n. 218/2016; Corte d’appello di Firenze,
sentenza n. 675/2016; Corte d’appello di Roma sentenza 2765/2017; Corte
d’appello di Milano, sentenza n. 1707/2017; Corte d’appello di Cagliari,
sentenza n. 119/2017; Corte d’appello di Bologna, sentenza n. 1151/2017; Corte
d’appello di Palermo, sentenza n. 644/2018).

5. – L’interpretazione del diritto vivente.

La Suprema Corte di cassazione, a partire da Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344 e n. 30345, è ormai costante nell’interpretare la
suddetta normativa nel senso che «l’iscrizione alla gestione separata è
obbligatoria per i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché
non esclusiva, attività di lavoro autonomo di cui al decreto del Presidente della
Repubblica n. 917 del 1986, art. 49 (ora 53), comma 1, l’esercizio della
quale non sia subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali ovvero,
se subordinato all’iscrizione ad un albo, non sia soggetto ad un versamento
contributivo agli enti previdenziali di riferimento che sia suscettibile di
costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata posizione
previdenziale».

Il percorso argomentativo della Suprema corte
(successivamente ampliato ed approfondito da Cassazione
12 dicembre 2018, n. 32166) prende le mosse dai principi di diritto
affermati dalle sezioni unite in tema di gestione separata (Cassazione sez. un. 12 febbraio 2010, n. 3240)
secondo cui, in estrema sintesi:

a) con la creazione della nuova gestione separata si
è inteso estendere la copertura assicurativa, nell’ambito della c.d. «politica
di universalizzazione delle tutele», non solo a coloro che ne erano
completamente privi, ma anche a coloro che ne fruivano solo in parte, a coloro
cioè che svolgevano due diversi tipi di attività e che erano «coperti» dal
punto di vista previdenziale, solo per una delle due, facendo quindi in modo
che a ciascuna corrispondesse una forma di assicurazione;

b) la nuova tutela previdenziale può, quindi, essere
«unica», in quanto corrispondente all’unica attività svolta, oppure
«complementare» a quella apprestata dalla gestione a cui il soggetto è iscritto
in relazione all’altra attività lavorativa espletata, con la precisazione che
la compatibilità della regola della doppia iscrizione è testualmente prevista
dalla legge 27 dicembre 1997, n.
449, art. 59, comma 16, laddove, all’interno della gestione separata, è
prevista un differente aliquota per coloro i quali sono iscritti ad altre forme
di previdenza obbligatoria e quanti non lo sono;

c) la regola generale è quindi che all’espletamento
di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede la tutela
assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione e non si ha,
peraltro, duplicazione di contribuzione, perché a ciascuna fa capo una attività
diversa.

Sulla base di tali premesse, è stato quindi desunto
il principio generale per cui «l’unico versamento contributivo rilevante ai
fini dell’esclusione dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata [è]
quello suscettibile di costituire in capo al lavoratore autonomo una correlata
posizione previdenziale» (Cassazione 18 dicembre
2017, n. 30344).

Pertanto, dal momento che il versamento del
contributo integrativo, da parte dei soggetti già iscritti in altre forme di
previdenza obbligatoria, è pacificamente insuscettibile di costituire in capo
al lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale, ne consegue
inevitabilmente la sussistenza dell’obbligo dello stesso di iscrizione alla
gestione separata. Tale obbligo, quindi, può venire meno «solo se il reddito
prodotto dall’attività professionale predetta è già integralmente oggetto di
obbligo assicurativo gestito dalla cassa di riferimento» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 16
della motivazione), in quanto «l’unica forma di contribuzione obbligatoriamente
versata che può inibire la forza espansiva della norma di chiusura contenuta
nella legge n. 335 del 1995, art.
2, comma 26, come chiarita dal decreto-legge
n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, non può che essere quella correlata ad
un obbligo di iscrizione ad una gestione di categoria, in applicazione del
divieto di duplicazione delle coperture assicurative incidenti sulla medesima attività
professionale» (Cassazione 12 dicembre 2018, n.
32166, punto 30 della motivazione).

Alla luce di tali considerazioni, quindi, è stata
risolta la questione interpretativa posta dalla legge di interpretazione autentica,
nella parte in cui ha stabilito che sono tenuti ad iscriversi alla gestione
separata, non solo i soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia
subordinato all’iscrizione ad appositi albi professionali, ma anche coloro che,
pur essendo iscritti in albi, svolgono attività non soggette al «versamento
contributivo» agli enti di previdenziali di diritto privato, dovendo pertanto
intendere tale espressione come riferita al solo «contributo soggettivo» che, a
differenza di quello integrativo, è suscettibile di costituire in capo al
lavoratore autonomo una correlata posizione previdenziale.

6. – L’individuazione delle disposizioni di legge
viziate da illegittimità costituzionale.

Alla luce del suddetto quadro normativo e
giurisprudenziale di riferimento, deve dunque ritenersi che le disposizioni
viziate da illegittimità costituzionale vadano individuate nell’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335 e nell’art.
18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con
modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111,
nella parte in cui, secondo il diritto vivente, prevedono l’obbligo di
iscrizione alla gestione separata presso l’Inps anche nei confronti dei
soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva,
attività di lavoro autonomo subordinata all’iscrizione ad un albo, ma non
iscritti alla relativa Cassa previdenziale di categoria in quanto già iscritti
in altra forma di previdenza obbligatoria in ragione di altra attività
esercitata.

Più precisamente, la disposizione censurata è la
norma risultante dall’interpretazione che il diritto vivente dà di quel
precetto unitario costituito della legge di interpretazione autentica in
relazione alla regola posta dalla legge interpretata (art. 2, comma 26 della legge n. 335
del 1995).

A tal riguardo, occorre subito precisare che ciò che
si censura non è tanto il merito della questione (estensione dell’obbligo
contributivo), quanto piuttosto il metodo utilizzato per raggiungere la
finalità di estensione della tutela assicurativa (iscrizione alla gestione
separata Inps).

Tale precisazione si rende necessaria per
evidenziare che qui non si vuole mettere in discussione il principio sancito
dalla giurisprudenza di legittimità relativo alla c.d. universalizzazione delle
tutele assicurative, né si vuole contestare la regola generale per cui
all’espletamento di duplice attività lavorativa, quando per entrambe si prevede
la tutela assicurativa, deve corrispondere la duplicità di iscrizione, né si
vuole censurare il carattere di complementarietà della gestione separata
rispetto alla gestione previdenziale privata. Piuttosto, come meglio
argomentato nel prosieguo, si dubita della legittimità costituzionale delle
conseguenze derivanti dall’applicazione di tali principi generali.

Pertanto, ferme restando le premesse da cui muove
l’interpretazione giurisprudenziale, si dubita che la soluzione interpretativa
desunta da tali premesse sia compatibile con il quadro costituzionale.

7. – Le disposizioni della Costituzione che si
assumono violate: premessa.

Prime di procedere con l’individuazione dei parametri
costituzionali che si assumono violati, occorre fare una breve
puntualizzazione.

Innanzitutto, si deve evidenziare che l’opzione
interpretativa adottata dal diritto vivente non corrisponde ad una soluzione
costituzionalmente obbligata («a rime obbligate»).

Infatti, se da un lato è vero che l’estensione della
copertura assicurativa anche attraverso il piano oggettivo, come riconosciuto
dal diritto vivente (Cassazione civ. sez. lav. 12
dicembre 2018, n. 32166, punto 16 della motivazione), risponde all’obbligo
dello Stato di dare concretezza al principio della universalità delle tutele,
tuttavia, dall’altro lato è anche vero che la regola fissata dal formante
giurisprudenziale non corrisponde ad una soluzione necessariamente imposta
dagli articoli 35 e 38
della Costituzione, dal momento che l’attuazione del suddetto principio di
universalizzazione della copertura assicurativa implica comunque l’adozione di
una serie di scelte di politica legislativa che restano affidate alla
discrezionalità del legislatore.

Una sicura conferma in tal senso, si riscontra nella
vicenda relativa ai soggetti liberi professionisti iscritti in albi che abbiano
continuato a svolgere abitualmente l’attività professionale, pur avendo già
conseguito il trattamento pensionistico.

Per i soggetti già pensionati, infatti, il
legislatore ha optato non già per l’iscrizione nella gestione separata Inps,
bensì per l’introduzione di un obbligo di iscrizione alla propria Cassa di
appartenenza (comma 11 dell’art.
18 cit.), con una norma avente carattere innovativo e non retroattivo, la
quale ha iniziato ad avere efficacia solo a partire da una data ben determinata
(7 gennaio 2012), nonché mediante la fissazione di una aliquota contributiva
determinata dallo stesso ente previdenziale, nei limiti previsti dalla legge.

Anche in questo caso, quindi, si tratta di una
estensione della copertura assicurativa sul piano oggettivo, in applicazione
del principio di universalizzazione delle tutele, la quale però è avvenuta con
modalità del tutto diverse quanto alla individuazione del tipo di gestione
previdenziale (Cassa privata e non Inps), all’estensione temporale dell’obbligo
contributivo (solo a decorrere dal 7 gennaio 2012) nonché alla determinazione
della relativa aliquota (rimessa all’autonomia dell’ente, nei limiti previsti
dalla legge).

Pertanto, deve ritenersi che, fermo restando il
principio di estensione delle tutele assicurative, la sua concreta attuazione
rientri nella piena discrezionalità del legislatore, non sussistendo un’unica
soluzione costituzionalmente obbligata.

Ciò premesso, la soluzione qui censurata (iscrizione
nella gestione separata), non solo non è imposta dalla Costituzione, ma tra le
varie opzioni possibili, è anche quella che si pone in contrasto con essa sotto
diversi profili.

8. – Violazione dell’art.
3 della Costituzione, anche in relazione all’art.
118, comma 4, della Costituzione.

Innanzitutto, sussiste una violazione dell’art. 3 della Costituzione per contrasto con il
principio di ragionevolezza e il canone di proporzionalità, anche in relazione
al principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art.
118, comma 4 della Costituzione.

8.1. – Con riguardo al primo profilo, occorre
evidenziare come l’imposizione di un obbligo di contribuzione alla gestione
separata da parte dei liberi professionisti già iscritti in altre forme di
previdenza obbligatoria non trova alcuna razionale giustificazione, se non
quella di «fare cassa».

Infatti, l’impianto sistematico risultante, da un
lato, dal processo di privatizzazione degli enti previdenziali di categoria (legge 24 dicembre 1993, n. 537 e decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509) e,
dall’altro, dalla politica di universalizzazione delle tutele con estensione
della copertura assicurativa anche ai lavoratori autonomi (legge 8 agosto 1995, n. 335 e decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103), è
connotato da una sua intrinseca razionalità, la cui deroga da parte delle
disposizioni censurate non risulta essere giustificata.

In particolare, giova ribadire che con l’art. 2, della legge 8 agosto 1995,
n. 335, il legislatore ha chiaramente distinto la tutela previdenziale dei
liberi professionisti iscritti in albi (comma 25) da quella dei lavoratori
autonomi non iscritti in albi professionali (comma 26).

Tale impostazione, poi, è stata confermata dal decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103,
recante «Attuazione della delega conferita dall’art. 2, comma 25, della legge 8
agosto 1995, n. 335, in materia di tutela previdenziale obbligatoria dei
soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione», il cui art. 1 ha espressamente
ribadito l’estensione della «tutela previdenziale obbligatoria ai soggetti che
svolgono attività autonoma di libera professione senza vincolo di
subordinazione, il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in appositi albi
o elenchi» (comma 1), precisando altresì che «Le norme di cui al presente
decreto si applicano anche ai soggetti, appartenenti alle categorie
professionali di cui al comma 1, che esercitano attività libero -professionale,
ancorché contemporaneamente svolgano attività di lavoro dipendente» (comma 2).

Peraltro, la distinzione tra lavoratori autonomi e
liberi professionisti dal punto di vista previdenziale è anche coerente con la
corrispondente distinzione delle due figure dal punto di vista civilistico,
laddove, si distingue, da un lato, il lavoro autonomo largamente inteso (art. 2222 del codice civile) e, dall’altro,
l’attività di libera professione subordinata all’iscrizione in appositi albi o
elenchi (art. 2229 del codice civile).

Con riferimento a questi ultimi, il legislatore ha
scelto di demandare la gestione previdenziale della relativa attività
professionale alla autonoma scelta degli enti esponenziali secondo il nuovo
modello privatistico.

Il suddetto comma 25, infatti, stabiliva tra i
principi e criteri direttivi (lettera d), quello di assicurare i liberi
professionisti alla gestione separata solo qualora non fosse stato possibile
prevedere la costituzione di una forma autonoma di previdenza obbligatoria
secondo il modello degli enti di diritto privato. In attuazione della delega
legislativa, quindi, l’art. 3,
comma 1, del decreto legislativo 103 del 1996 ha previsto la facoltà per
gli enti esponenziali a livello nazionale degli enti abilitati alla tenuta di
albi od elenchi di optare, alternativamente, per: (a) la partecipazione
all’ente previdenziale pluricategoriale di diritto privato; (b) la costituzione
di un ente di categoria, avente la medesima configurazione di diritto privato;
(c) l’inclusione della categoria professionale per la quale essi sono
istituiti, in una delle forme di previdenza obbligatorie già esistenti per
altra categoria professionale similare; (d) l’inclusione della categoria nella
forma di previdenza obbligatoria di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335 (gestione separata Inps).

Inoltre, lo stesso legislatore ha altresì previsto
che «Nel caso di mancata adozione delle delibere di cui al comma 1, i soggetti
appartenenti alle categorie professionali interessate sono inseriti nella
gestione di cui al comma 1, lettera d)», ossia nella gestione separata Inps (art. 3, comma 2, del decreto
legislativo 103 del 1996).

Tale opzione legislativa, peraltro, è stata
successivamente confermata dallo stesso art. 18, comma 12, decreto-legge n.
98 del 2011. A ben vedere, infatti, quest’ultimo contiene non solo la norma
di interpretazione autentica qui censurata, ma enuncia altresì due ulteriori e
distinte disposizioni normative, la prima delle quali espressamente prevede che
«Resta ferma la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del
decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103», ossia la possibilità per gli
enti esponenziali di prevedere l’iscrizione nella gestione separata dei liberi
professionisti in luogo dell’iscrizione in un ente privatizzato.

In tale contesto normativo, risulta evidente come la
soluzione più coerente e ragionevole in relazione alla questione della
copertura assicurativa dei professionisti già iscritti in altre forme di
previdenza obbligatoria e che in quanto tali non possono iscriversi alle
rispettive Casse di categoria (come nella specie), sarebbe stata certamente
quella di prevedere un obbligo per le relative Casse previdenziali di
assoggettare al versamento di un contributo soggettivo anche le attività
professionali di tali soggetti.

Del resto, tale opzione non sarebbe stata neanche
una novità, dal momento che una simile soluzione è già stata adottata dal
legislatore con riguardo alla analoga vicenda relativa ai soggetti già
pensionati.

Invero, a seguito del processo di privatizzazione
delle Casse previdenziali di categoria, numerosi statuti e regolamenti dalle
stesse adottati hanno espressamente previsto un esonero dal versamento del
contributo ordinario (c.d. contributo soggettivo) per il soggetto già
pensionato che continui a svolgere abitualmente l’attività professionale.

Ciò nonostante, a partire dal 2009, l’Inps ha
iniziato ad iscrivere d’ufficio tali soggetti nella propria gestione separata,
ritenendo che tali previsioni negoziali determinassero una «scopertura»
contributiva. Pertanto, il legislatore, al fine di «regolarizzare» tali
situazioni in conformità al principio generale per cui ogni reddito deve essere
assoggettato alla relativa contribuzione previdenziale, è intervenuto nel 2011
con una apposita norma introducendo espressamente l’obbligo per le Casse
previdenziali private di prevedere l’assoggettamento ad un contributo
soggettivo in misura ridotta per i soggetti già pensionati che avessero
continuato a svolgere l’attività professionale percependo un reddito.

In mancanza di adeguamento da parte degli enti
privati, è stato poi previsto un analogo obbligo contributivo ex lege
decorrente dallo scadere dei sei mesi dall’entrata in vigore del decreto-legge.

Si tratta, in particolare, dell’art. 18, comma 11, decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98, secondo il quale «Per i soggetti già pensionati, gli
enti previdenziali di diritto privato di cui ai decreti
legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10
febbraio 1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del
presente decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo
l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro
che risultino aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della
relativa attività professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo
soggettivo minimo con aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella
prevista in via ordinaria per gli iscritti a ciascun ente. Qualora entro il
predetto termine gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e
regolamenti, si applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo».

Ciò trova conferma nella stessa relazione
illustrativa al suddetto decreto, dove si legge che «Le vigenti disposizioni
statutarie e regolamentari di alcuni enti previdenziali di diritto privato di
cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996, approvati dai vigilanti Ministeri del
lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e delle finanze, hanno
previsto la  possibilità, su base
volontaria, di proseguire l’esercizio dell’attività professionale una volta
liquidato il trattamento pensionistico, senza essere tenuti al versamento della
contribuzione ordinaria.

Tali previsioni si sono rivelate non coerenti con il
principio di carattere generale in base al quale i redditi prodotti devono
essere assoggettati a contribuzione previdenziale, per cui l’Inps, nell’ambito
di una vasta operazione finalizzata a contrastare l’evasione ed elusione
contributiva, ha ritenuto di contestare in tali ipotesi il mancato versamento
della contribuzione presso la propria gestione separata, di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8
agosto 1995, n. 335.

La proposta normativa intende quindi offrire una
soluzione alla questione, da una parte, imponendo per il futuro l’obbligo per i
citati enti previdenziali di diritto privato di prevedere negli statuti e nei
regolamenti l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione in tutti i
casi di svolgimento dell’attività professionale (ossia, anche una volta
maturato il diritto al trattamento pensionistico). Dall’altra, precisando che
sono soggetti all’iscrizione presso la gestione separata Inps coloro che
svolgono attività il cui esercizio non è subordinato all’iscrizione ad appositi
albi o elenchi, salvo diversa previsione legislativa».

Quest’ultima precisazione, inoltre, è stata
effettuata mediante la norma di interpretazione autentica di cui al successivo
comma 12 dell’art. 18, cit.,
qui censurata, la quale si pone quindi come completamento del precedente comma
11 dell’art. 18, al fine di
risolvere la questione della iscrivibilità alla gestione separata dei soggetti
già pensionati.

Pertanto, il legislatore, da un lato ha introdotto
un nuovo obbligo di contribuzione nei confronti dei soggetti già pensionati
(comma 11) e, dall’altro lato, ha precisato in via interpretativa che tali
soggetti non sono obbligati all’iscrizione alla gestione separata (comma 12).

Dal punto di vista della estensione della copertura
assicurativa, quindi, la questione giuridica sottesa ad entrambe le fattispecie
in esame risulta essere la stessa: in entrambi i casi ci si trova di fronte ad
un libero professionista iscritto nel relativo albo che svolge la propria
attività professionale percependo dei redditi, il quale, però, è esonerato
dall’iscrizione e dal versamento contributivo alla propria Cassa previdenziale
in base ad una precisa scelta statutaria ed ordinistica dell’ente stesso.

Le ragioni dell’esonero del libero professionista
dal versamento contributivo ordinario sono evidentemente diverse: nel primo
caso, perché il soggetto è già pensionato, nel secondo perché già iscritto ad
altra forma di previdenza obbligatoria per lo svolgimento di altra attività
lavorativa. Tuttavia, i motivi che spingono una Cassa previdenziale privata ad
esonerare un libero professionista dal versamento contributivo ordinario sono
del tutto irrilevanti ai fini che qui interessano.

Peraltro, l’omogeneità delle due situazioni in
relazione alla suddetta questione giuridica è attestata dalla stessa Suprema
Corte di cassazione, la quale, chiamata a pronunciarsi sulla sussistenza
dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata del soggetto esonerato
dall’iscrizione alla propria Cassa previdenziale in quanto già pensionato, ha
statuito la sussistenza dell’obbligo in discorso, motivando sulla base dello
stesso identico principio di diritto posto a fondamento della ritenuta
iscrivibilità alla gestione separata dei soggetti già iscritti in altra forma
di previdenza obbligatoria (cfr. Cassazione civ.
sez. lav. 23 marzo 2020, n. 7485: «reputa il Collegio che i principi di
diritto elaborati da questa Corte nell’interpretazione della disposizione di
cui all’anzidetto decreto-legge
n. 98 del 2011, art. 18, comma 12, cit. (cfr. Cassazione
nn. 30344 del 2017, 32166, 32167 e 32508 del
2018) debbano governare anche la soluzione della presente fattispecie, la
cui peculiarità è rappresentata dal fatto che l’attività di lavoro autonomo
richiedente l’iscrizione all’albo (nella specie, dei periti industriali) è
stata posta in essere da un soggetto già pensionato»; tale orientamento è stato
poi confermato da Cassazione civ. sez. lav. 5
marzo 2021, n. 6223 che, nel richiamare il suddetto precedente ha ribadito
che il «principio di diritto ivi espresso, secondo cui i pensionati che
svolgano abitualmente attività lavorativa libero-professionale e non siano
tenuti a versare il contributo soggettivo all’ente previdenziale di categoria
soggiacciono all’obbligo di iscrizione alla Gestione separata di cui alla legge n. 335 del 1995, art. 2,
comma 26, reputa il Collegio di dover ribadire anche in questa sede»).

Tuttavia, a differenza dei soggetti già iscritti in
altre forme di previdenza, per i soggetti già pensionati, l’estensione della
copertura assicurativa si è realizzata non già attraverso l’iscrizione nella
gestione separata Inps, bensì attraverso la corrispondente iscrizione nelle
proprie Casse previdenziali di categoria, come previsto dall’art. 18, comma 11, decreto-legge n.
98 del 2011.

La differenza soluzione adottata, invece, per i
soggetti già iscritti in altre forme di previdenza obbligatorie non trova
invece adeguata giustificazione.

Inoltre, l’irragionevolezza della disposizione qui
censurata si evince anche dal fatto che, così facendo, il legislatore, da un
lato, ha riconosciuto una autonomia statutaria e regolamentare alle Casse
private (come Inarcassa) e, dall’altro lato, in maniera contraddittoria, ha
negato tale autonomia nella parte in cui ha ritenuto di estendere l’obbligo
assicurativo della gestione separata a tutte quelle fattispecie, come quella in
esame, che trovano la ragione del proprio esonero contributivo proprio in una
decisione della rispettiva Cassa previdenziale assunta sulla base della suddetta
autonomia riconosciuta in precedenza.

Nel caso di specie, inoltre, l’irragionevolezza è
accentuata dal fatto che l’esonero dall’iscrizione ad Inarcassa trova la sua
fonte direttamente nella legge, prima ancora che nell’autonomia collettiva che
si è limitata a recepire il disposto normativo.

8.1.1. – In senso contrario, quindi, non vale
replicare che l’art. 2, comma 26,
legge n. 335 del 1995, come risultante dall’interpretazione autentica
datane dall’art. 18, comma 12,
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, e per come ulteriormente interpretato
dal diritto vivente, non sarebbe di ostacolo ad una previsione statutaria o
regolamentare delle Casse previdenziali in ordine all’introduzione di un
obbligo di iscrizione e di contribuzione anche nei confronti dei soggetti già
iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria, assoggettando quindi anche
questi ultimi al versamento di un contributo soggettivo.

A tal riguardo, infatti, occorre osservare come la
censurata irrazionalità dell’attuale sistema previdenziale di categoria può
essere superata unicamente mediante l’adozione di atto di natura legislativa e
non già negoziale.

Nel caso di specie, infatti, il divieto di
iscrizione all’Inarcassa per i soggetti già iscritti ad altra forma di
previdenza obbligatoria discende direttamente dalla legge (legge 11 novembre
1971, n. 1046, art. 2 e legge
3 gennaio 1981, n. 6, art. 21, comma 5).

L’autonomia normativa riconosciuta agli enti
privatizzati, tuttavia, non potrebbe derogare a tali previsioni legislative.

Sul punto, infatti, la giurisprudenza di legittimità
(cfr. Cassazione 3 gennaio 2019, n. 20) ha
avuto modo di chiarire che il decreto
legislativo 30 giugno 1994, n. 509 (art. 1, comma 4, in combinato disposto
con l’art. 2, comma 2, e art. 3,
comma 2), se da un lato ha previsto un potere regolamentare delle Casse non
incompatibile con il sistema delle fonti, potendo la fonte primaria costituita
dal decreto legislativo autorizzare una fonte subprimaria ad introdurre norme
generali ed astratte, dall’altro lato, tali disposizioni non hanno attribuito
ai regolamenti delle Casse la configurazione di regolamenti di delegificazione
di cui alla legge n. 400 del
1988, art. 17, comma 2, sicché ad essi – e, quindi, per quanto qui rileva,
anche al regolamento dell’Inarcassa – non è consentito di derogare a
disposizioni collocate a livello primario, quali sono appunto quelle che
pongono il divieto di iscrizione all’Inarcassa per i soggetti già iscritti ad
altra forma di previdenza obbligatoria (legge 11 novembre 1971, n. 1046, art. 2
e legge 3 gennaio 1981, n. 6,
art. 21, comma 5).

Peraltro, una conferma della necessità di uno
specifico intervento del legislatore si ritrova con riferimento alla categoria
professionale degli avvocati, laddove solo con l’approvazione della legge 31 dicembre 2012, n. 247 di riforma
dell’ordinamento forense, è stato espressamente previsto che «L’iscrizione agli
albi comporta la contestuale iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e
assistenza forense» (art. 21,
comma 8), superando così il previdente sistema di esonero dall’iscrizione alla
Cassa di previdenza per gli avvocati iscritti all’albo, la cui attività
rimaneva al di sotto di una determinata soglia reddituale.

8.2. – In secondo luogo, viene in rilievo la
violazione dell’art. 3 della Costituzione, per
contrasto con il canone di proporzionalità.

Invero, per le ragioni già esposte in relazione al
principio di ragionevolezza, deve ritenersi che la disposizione censurata violi
anche il canone di proporzionalità, in quanto, tra gli strumenti disponibili da
parte del legislatore non è stato selezionato il «mezzo più mite» fra quelli
idonei a raggiungere lo scopo, determinando il minor sacrificio (Corte
costituzionale n. 260, n. 218, n. 202 e n. 148 del
2021, n. 119 del 2020, n. 179 e n. 20 del 2019).

Se, infatti, lo scopo è quello di evitare che vi sia
«un vuoto di obbligo assicurativo» in relazione all’attività dei professionisti
già iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria (così Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166), lo
strumento più idoneo e proporzionato a tal fine sarebbe stato senz’altro quello
già adottato con riguardo all’analoga fattispecie dei soggetti già pensionati,
ossia l’introduzione di uno specifico obbligo per le Casse privatizzate di
adeguare i propri statuti e regolamenti prevedendo espressamente
l’obbligatorietà dell’iscrizione e del versamento contributivo soggettivo anche
nei confronti dei soggetti già iscritti in altre forme di previdenza.

Sennonché, con riferimento a questi ultimi soggetti,
si è fatto ricorso ad uno strumento molto più incisivo, quale è quello
dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata Inps.

La sproporzione della misura adottata rispetto allo
scopo perseguito emerge sotto tre distinti profili.

8.2.1. – In primo luogo, viene in rilievo una
sproporzionata estensione temporale dell’obbligo contributivo in esame.

A tal riguardo, infatti, occorre osservare come
l’obbligo di iscrizione alla gestione separata per i soggetti già iscritti in
altre forme di previdenza obbligatorie, desunto in via interpretativa dal
diritto vivente nel 2017, ha assunto una efficacia retroattiva con decorrenza
dal 1° gennaio 1996 (art. 2,
comma 26, legge n. 335 del 1995).

Se, invece, il legislatore del 2011 avesse adottato
lo stesso modello normativo utilizzato per i pensionati, introducendo una norma
nuova e non retroattiva, l’efficacia temporale dell’obbligo di contribuzione
sarebbe stata ancorata ad una data certa e con effetti solo per il futuro.

Per i soggetti già pensionati, infatti, l’obbligo di
contribuzione è stato introdotto in via generalizzata dal 7 gennaio 2012 (art. 18, comma 11, decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98, cit. e decreto
ministeriale 12 marzo 2012), mediante una precisa norma di legge (comma 11
dell’art. 18, cit.), avente
carattere innovativo e non retroattivo, la quale ha iniziato ad avere efficacia
solo a partire da una data ben determinata, in ossequio al disposto dell’art. 11 disp. prel. c.c.: il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale n. 155 del 6 luglio 2011, è entrato in vigore in pari
data (cfr. art. 41) e, pertanto, l’obbligo per i soggetti già pensionati di
versare un contributo soggettivo in misura ridotta nei confronti delle proprie
Casse previdenziali è entrato in vigore, in mancanza di spontaneo adeguamento,
alla data del 7 gennaio 2012.

Con riguardo, invece, ai soggetti già iscritti in
altra forma di previdenza obbligatoria, come nella specie, l’obbligo di
iscrizione alla gestione separata Inps, trovando fondamento nel diritto vivente
(Cassazione n. 30344 e 30345 del 2017) formatosi a seguito
dell’interpretazione della norma di interpretazione autentica (comma 12 dell’art. 18, cit.), ha assunto una
efficacia retroattiva decorrente sin dall’entrata in vigore della stessa
gestione separata Inps (art. 2,
comma 26, legge n. 335 del 1995), ossia dal 1° gennaio 1996.

8.2.2. – In secondo luogo, l’obbligo di
contribuzione nei confronti dell’Inps è certamente più incisivo rispetto ad un
corrispondente obbligo di contribuzione presso la propria Cassa previdenziale
di categoria anche in relazione alla aliquota applicabile.

Infatti, l’aliquota ordinaria del contributo
soggettivo fissata dalla Cassa di categoria per l’annualità in questione (2012)
è pari al 13,50% del reddito professionale netto (cfr. Regolamento Inarcassa,
art. 4. Contributo soggettivo – Tabella A), mentre l’aliquota del contributo
dovuto alla gestione separata Inps per la medesima annualità è pari al 18% del
reddito prodotto (cfr. Circolare Inps n. 16 del 3
febbraio 2012).

8.2.3. – Infine, con riguardo al terzo profilo,
occorre evidenziare che l’impossibilità per i professionisti in questione (già
iscritti in altre forme di previdenza) di iscriversi alla propria Cassa
previdenziale di categoria implica l’impossibilità per gli stessi di poter
computare gli importi versati a titolo di contributo integrativo nel «montante
contributivo individuale».

Invero, l’art. 8, comma 3, decreto
legislativo n. 103 del 1996, come modificato dalla legge n. 133 del 2011 (art. 1), ha espressamente
riconosciuto agli enti previdenziali privatizzati la «la facoltà di destinare
parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali»,
previa delibera degli organismi competenti e successiva approvazione dei
Ministeri vigilanti, al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli
iscritti a tali Casse private. Sulla base di tale disposizione legislativa, il
regolamento di previdenza dell’Inarcassa, ha quindi previsto che, a decorrere
dal 1° gennaio 2013 (art. 26.5,
regolamento cit.) la «quota della contribuzione integrativa versata, secondo le
modalità di computo previste nel comma 5 del presente articolo», venga
computata nell’ambito del «montante contributivo individuale».

Tuttavia, come evidenziato dalla giurisprudenza di
legittimità, tale retrocessione del contributo integrativo presuppone che il
professionista sia iscritto all’Inarcassa e abbia dunque titolo per beneficiare
delle sue prestazioni, ciò che gli ingegneri e gli architetti che sono iscritti
ad altra gestione previdenziale non possono fare (cfr. Cassazione 18 dicembre 2017, n. 30344).

Pertanto, questi ultimi soggetti, pur essendo tenuti
a versare il contributo integrativo, non possono però iscriversi alla Cassa di
previdenza, perdendo così anche la possibilità di poter computare il suddetto
contributo integrativo, in ogni caso dovuto, nel proprio montante contributivo
individuale.

L’iscrizione alla gestione separata di tali
soggetti, dunque, non solo contrasta con il principio di ragionevolezza, ma
viola anche il canone di proprozionalità.

8.3. – La violazione dell’art. 3 della Costituzione,
per contrasto con il principio di ragionevolezza e il canone di
proporzionalità, viene in rilievo anche in relazione al principio di
sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.

Come già detto, con il decreto legislativo 30 giugno
1994, n. 509, il legislatore delegato, in attuazione di un complessivo disegno
di riordino della previdenza dei liberi professionisti (legge 24 dicembre 1993,
n. 537), ha operato un processo di privatizzazione degli enti previdenziali
arretrando la linea d’intervento della legge (così, Corte costituzionale n. 67
del 2018). A tal proposito, infatti, si è parlato di una sostanziale
«delegificazione» della materia (cfr. Cassazione 3 gennaio 2019, n. 20;
Cassazione 13 febbraio 2018, n. 3461; Cassazione 16 novembre 2009, n. 24202).
Con riferimento all’attività svolta da tali enti in regime di diritto privato,
la Corte costituzionale ha già avuto modo di chiarire che «la suddetta trasformazione
ha lasciato immutato il carattere pubblicistico dell’attività istituzionale di
previdenza ed assistenza svolta dagli enti» privatizzati, con l’ulteriore
precisazione che la permanente vigenza del fine pubblicistico generale
dell’attività che tali enti svolgono, consente anche di escludere una
incompatibilità con la libertà (negativa) di associazione di cui all’art. 18
della Costituzione con riguardo all’imposizione da parte della legge di
obblighi di appartenenza ad un organismo pubblico a struttura associativa
(Corte costituzionale n. 248 del 1997 e n. 7 del 2017).

Con la riforma del titolo V della Costituzione
(legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il processo di privatizzazione di
enti che svolgono attività di interesse generale ha assunto una diretta
copertura costituzionale nel novellato art. 118, comma 4, della Costituzione,
il quale dispone che «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni
favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di
sussidiarietà».

A tal riguardo, infatti, la stessa Corte
costituzionale ha statuito che la privatizzazione di enti che svolgono attività
di interesse generale «trova anzi una diretta copertura costituzionale
nell’art. 118, quarto comma, Cost., che in una ottica di sussidiarietà
orizzontale impegna la Repubblica a favorire «l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale»» (Corte costituzionale n. 79 del 2019 con riferimento alla
privatizzazione della Croce Rossa Italiana).

La svolta ordinamentale nella considerazione del
principio di sussidiarietà orizzontale si è avuta, però, solo a partire dalla
sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi
sulla nuova disciplina di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117
(Codice del Terzo settore), ha avuto modo di statuire che l’art. 55 del
suddetto decreto, disciplinando i rapporti tra enti del terzo settore e
pubbliche amministrazioni, «rappresenta dunque una delle più significative
attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art.
118, quarto comma, della Costituzione» e «realizza per la prima volta in
termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione
sussidiaria» (Corte costituzionale n. 131 del 2020).

Tale valorizzazione del principio di sussidiarietà
orizzontale ha avuto un immediato e notevole impatto sistematico, tanto da
portare ad una riscrittura dei rapporti tra potere pubblico e autonomia privata
mediante una nuova conformazione dell’assetto generale dei contratti pubblici
(cfr. art. 30, comma 8, art. 59, comma 1, e art. 140, comma 1, del decreto
legislativo 18 aprile 2016, n. 50 – Codice dei contratti pubblici, come
modificato dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, di conversione, con
modificazioni, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76). Alla luce di tale
evoluzione ordinamentale, deve quindi ritenersi, con specifico riferimento alla
materia previdenziale, che l’attività di interesse generale svolta dagli enti
previdenziali di diritto privato (tra cui Inarcassa) rappresenti una delle
forme tipiche in cui si esprime e trova attuazione il principio di
sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.

Sul punto, inoltre, non può condividersi il
contrario assunto secondo cui il principio di sussidiarietà orizzontale sarebbe
inapplicabile alla materia previdenziale, argomentando sulla base dell’art.
117, comma 2, lettera o), della Costituzione, che attribuisce allo Stato una
potestà legislativa esclusiva in materia di «previdenza sociale».

Invero, il principio di sussidiarietà orizzontale
non integra un criterio di riparto di competenze tra il pubblico e il privato,
bensì costituisce una nuova modalità di esercizio del potere pubblico,
legislativo e amministrativo, rispetto all’autonomia privata.

A tal riguardo, è sufficiente rilevare come
l’applicazione più evidente del principio di sussidiarietà orizzontale in
materia previdenziale è costituita proprio dal processo di privatizzazione
degli enti previdenziali di categoria e dal conseguente sistema normativo che
ne è derivato.

In particolare, il già ricordato art. 3, comma 1,
del decreto legislativo 103 del 1996 ha previsto la facoltà per gli enti
esponenziali a livello nazionale degli enti abilitati alla tenuta di albi od
elenchi di optare, alternativamente, per: (a) la partecipazione all’ente
previdenziale pluricategoriale di diritto privato; (b) la costituzione di un
ente di categoria, avente la medesima configurazione di diritto privato; (c)
l’inclusione della categoria professionale per la quale essi sono istituiti, in
una delle forme di previdenza obbligatorie già esistenti per altra categoria
professionale similare; (d) l’inclusione della categoria nella forma di
previdenza obbligatoria di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995,
n. 335 (gestione separata Inps).

A fronte di tale riconosciuta autonomia di scelta,
inoltre, lo stesso legislatore, seguendo il modello delineato dal principio di
sussidiarietà orizzontale, ha altresì previsto che «Nel caso di mancata
adozione delle delibere di cui al comma 1, i soggetti appartenenti alle
categorie professionali interessate sono inseriti nella gestione di cui al
comma 1, lettera d)», ossia nella gestione separata Inps (art. 3, comma 2, del
decreto legislativo 103 del 1996).

Pertanto, l’obbligo di iscrizione alla gestione
separata per i soggetti liberi professionisti iscritti in albi è previsto dal
legislatore solo in via sussidiaria, e cioè solo nel caso di mancato esercizio
dell’autonomia collettiva degli enti esponenziali.

Allo stesso modo, per i soggetti già pensionati,
l’obbligo di contribuzione è stato rimesso in prima battuta alla stessa
autonomia dell’ente previdenziale privato e, solo in via sussidiaria, è stato
previsto l’obbligo di iscrizione e contribuzione in favore della Cassa privata.

Come già evidenziato, infatti, con l’art. 18, comma
11, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, il legislatore ha, in primo luogo,
favorito l’autonoma iniziativa degli enti privatizzati concedendo un termine
semestrale per adeguare i propri statuti e regolamenti e, solo in via
sussidiaria ha stabilito che «Qualora entro il predetto termine gli enti non
abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si applica in
ogni caso quanto previsto al secondo periodo» ossia l’obbligatorietà
dell’iscrizione e della contribuzione a carico dei soggetti già pensionati, in
favore delle medesime Casse private.

Pertanto, alla luce di tale principio di
sussidiarietà orizzontale deve ritenersi illegittima una azione legislativa che
pur potendo favorire l’autonoma iniziativa dell’autonomia negoziale degli enti
associativi ometta di farlo senza una adeguata giustificazione razionale.

Deve ritenersi, infatti, che l’art. 118, comma 4,
della Costituzione sia una norma immediatamente precettiva e non meramente
programmatica, con la conseguenza di vincolare il legislatore nell’esercizio
del proprio potere legislativo il quale è tenuto a conformare la propria azione
secondo un modello improntato al principio di sussidiarietà.

Pertanto, l’irragionevolezza della disposizione
censurata emerge anche in relazione a tale ultimo aspetto.

8.4. – Infine, la violazione dell’art. 3 in
combinato disposto con l’art. 118, comma 4, della Costituzione viene in rilievo
anche sotto il profilo dell’equo contemperamento di contrapposte esigenze.

Invero, nel bilanciamento tra l’esigenza di
estendere la copertura assicurativa (art. 35 e 38 della Costituzione) e la contrapposta
esigenza di favorire l’autonomia delle casse previdenziali private (art. 118,
comma 4, della Costituzione), in un sistema previdenziale ispirato ad un
principio pluralista, la soluzione qui censurata pone l’accento esclusivamente
sul primo aspetto, trascurando il secondo, con conseguente irragionevolezza
della disposizione censurata.

A tal proposito, è stato affermato che «non è
corretto adottare, nella ricerca della soluzione della questione, una logica
limitata ad un mero riparto di competenze tra Gestione separata e cassa
professionale con la pretesa di paralizzare il pieno dispiegarsi del principio
di universalizzazione delle tutele, improntato a precisi obblighi derivanti
dalla Costituzione, per effetto dell’attribuzione alla cassa professionale del
compito di gestire il rapporto assicurativo dei propri associati. 17. Va,
infatti, rimarcato che il principio di autonomia riconosciuto alle casse
professionali dal decreto legislativo n. 503 del 1994 realizza, nel rispetto
della natura pluralista dell’intero sistema previdenziale, il diverso scopo di
rispettare le istanze del gruppo professionale nella gestione
dell’assicurazione obbligatoria, all’interno dello spazio assegnato loro dalla
legge (Legge n. 335 del 1995, art. 3, comma 12), senza il concorso finanziario
da parte dello Stato» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punti 16 e 17
della motivazione).

A ciò si è aggiunto, quindi, che la portata del
principio di universalizzazione delle tutele «deve incidere anche sulla
disciplina sostanziale delle previdenze di categoria, ridimensionando in caso
di sua negazione, i criteri di autonomia e di separazione delle tutele, che
caratterizzano il provvedimento sulla privatizzazione, adottato dal decreto
legislativo n. 509 del 1994» (Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 29
della motivazione).

Si è concluso, pertanto, che «il rigido riparto di
competenze presupposto tra Gestione separata e casse professionali si rivela in
realtà sfornito di base normativa» (così Cassazione 3 marzo 2021, n. 5826).

Orbene, oltre a dubitare della fondatezza di
quest’ultimo assunto, sulla base di quanto esposto finora, occorre richiamare
sul punto l’insegnamento della stessa Corte costituzionale, poi ripreso anche
dalla Corte di cassazione, secondo il quale tutti i diritti costituzionalmente
protetti si trovano in rapporto di integrazione reciproca e sono soggetti al
bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata
degli interessi costituzionali in gioco (Corte costituzionale n. 85 del 2013,
n. 10 del 2015, n. 63 del 2016, ma anche, tra le altre, Cassazione 30 settembre
2016, n. 19599).

In altri termini, ciò che si deve evitare è la c.d.
«tirannia dei diritti», espressione con la quale si è voluto indicare in
maniera sintetica quel bilanciamento non equilibrato di contrapposti interessi,
determinato appunto dalla prevalenza assoluta, sproporzionata e ingiustificata
di un interesse rispetto ad un altro in conflitto.

Impostata in questi termini, quindi, la questione
che qui viene in rilievo non è quella del tipo di rapporto intercorrente tra
gestione separata e casse di previdenza (alternativo o complementare), non
vendo in discussione la possibilità della doppia iscrizione, e quindi la
complementarietà delle due gestioni, quanto piuttosto la ragionevolezza di una
soluzione che a livello sistematico non tiene conto di un equo bilanciamento
tra l’esigenza di estendere la copertura assicurativa (art. 35 e 38 della
Costituzione) e la contrapposta esigenza di favorire l’autonomia delle casse previdenziali
private (art. 118, comma 4, della Costituzione).

Concludendo sul punto, quindi, deve ritenersi che
l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dei liberi professionisti già
iscritti in altre forme di previdenza obbligatoria si ponga in contrasto non
solo con il principio di ragionevolezza e con il canone di proporzionalità di
cui all’art. 3 della Costituzione, ma anche con il principio di sussidiarietà
orizzontale di cui all’art. 118, comma 4, della Costituzione.

9. – Violazione dell’art. 23 della Costituzione,
anche in relazione all’art. 41 della Costituzione.

Non vi è dubbio che ai contributi previdenziali
oggetto di causa sia da attribuire la natura di prestazioni patrimoniali
obbligatoriamente imposte, come tali soggette alla garanzia dettata dall’art.
23 della Costituzione (Corte costituzionale n. 190 del 2007).

Tale parametro, secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, configura una riserva di legge di carattere «relativo», nel
senso che essa deve ritenersi rispettata anche in assenza di una espressa
indicazione legislativa dei criteri, limiti e controlli sufficienti a
delimitare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione purché la concreta
entità della prestazione imposta sia chiaramente desumibile dagli interventi
legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione (Corte
costituzionale n. 190 del 2007).

Così individuata la portata della riserva di legge
posta dall’art. 23 della Costituzione, deve ritenersi che la disciplina
legislativa sugli obblighi contributivi posti dalla norma denunciata, esaminata
nel contesto dei dati normativi citati, non risponda ai requisiti indicati
dalla richiamata giurisprudenza costituzionale.

In particolare, deve ritenersi che l’identificazione
dei soggetti tenuti alla prestazione contributiva non sia supportata da una
sufficiente base legislativa.

9.1. – Da questo punto di vista, infatti, occorre
ricordare come la norma originaria si limitava a sancire, per quanto qui
interessa, l’obbligo di iscrizione alla gestione separata dei «soggetti che
esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro
autonomo, di cui al comma 1 dell’art. 49 del testo unico delle imposte sui
redditi» (art. 2, comma 26, legge 8 agosto 1995, n. 335, cit.).

Tale norma, tuttavia, inserendosi in un contesto di
riforma del sistema pensionistico fondato sulla chiara distinzione tra liberi
professionisti iscritti in albi (art. 2, comma 25, cit. e decreto legislativo
n. 103 del 1996) e lavoratori autonomi non iscritti in albi (art. 2, comma 26,
cit.), non poteva certo costituire una sufficiente base legislativa ai fini
della individuazione dei soggetti tenuti alla prestazione contributiva anche
con riguardo ai liberi professionisti iscritti in albi ma non iscritti alla
relativa cassa previdenziale di categoria in ragione della sussistenza di altra
forma di assicurazione obbligatoria per un’altra attività esercitata (come nel
caso di specie).

Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità,
infatti, la disciplina previdenziale di questi ultimi rientrava pacificamente
nell’ambito del comma 25 e non già del comma 26 dell’art. 2, legge n. 335 del
1995, già solo in base al tenore letterale di tali disposizioni, oltre che in
base alla ratio della riforma (Cassazione 22 maggio 2008, n. 13218; Cassazione
16 febbraio 2007, n. 3622; Cassazione 19 giugno 2006, n. 14069).

A tal riguardo, peraltro, occorre anche evidenziare
come sussistano seri dubbi che tale «scopertura» contributiva costituisca una
lacuna normativa. Non può ragionevolmente escludersi, infatti, che tale «vuoto
di obbligo contributivo» coincida con una precisa scelta di politica
legislativa fondata sulla ritenuta sufficienza di copertura assicurativa di
tali soggetti derivante dall’iscrizione in altra forma di previdenza
obbligatoria.

Ad ogni modo, sia la lettera della legge che la
ratio della riforma del sistema previdenziale inducevano senz’altro ad
escludere i soggetti in questione dall’obbligo contributivo in favore della
gestione separata Inps.

9.2. – Inoltre, neanche la successiva norma di
interpretazione autentica può ritenersi idonea ad integrare un sufficiente
grado di determinazione dei soggetti obbligati.

Al contrario, anzi, occorre osservare come tale
norma interpretativa abbia originato un singolare paradosso: infatti, la norma
avente funzione chiarificatrice, anziché chiarire l’ambito soggettivo di
applicazione della gestione separata, ha creato una maggiore confusione sul
punto, mediante l’introduzione di elementi normativi generici ed ambigui.

Ci si riferisce, in particolare, ai termini «ovvero»
e «versamento contributivo» contenuti nella norma di interpretazione autentica.

Si tratta, infatti, di nuove e specifiche «questioni
derivate dalla legge interpretativa» (così Cassazione 12 dicembre 2018, n.
32166, punto 28 della motivazione) e non dalla legge interpretata, il cui senso
era già chiaro prima dell’intervento legislativo. Ed è proprio su tali nuove
questioni interpretative, volte alla individuazione dei soggetti obbligati
all’iscrizione alla gestione separata, che si è incentrato tutto il successivo
dibattito.

Il paradosso, quindi, consiste nel fatto che, con
l’introduzione della legge di interpretazione autentica, si è resa necessaria
una ulteriore e complessa attività interpretativa di tipo sistematico, non
essendo sufficiente una sua esegesi meramente letterale.

Sul punto, infatti, la stessa Corte di cassazione ha
riconosciuto che «una interpretazione meramente letterale non potrebbe mai
giungere a soluzioni certe essendo il termine versamento contributivo senza ulteriore
specificazione del tutto ambiguo così come la valenza della congiunzione
ovvero» (così Cassazione 12 dicembre 2018, n. 32166, punto 28 della
motivazione, cit.).

Essendo innegabile che tali elementi di ambiguità
sono stati introdotti da una legge di interpretazione autentica in un momento
storico (2011) in cui, in realtà, non sussistevano dubbi sull’estensione
soggettiva dell’obbligo di iscrizione alla gestione separata (Cassazione 22
maggio 2008, n. 13218; Cassazione 16 febbraio 2007, n. 3622; Cassazione 19
giugno 2006, n. 14069), deve ritenersi che, a maggior ragione, neanche tale
disposizione (art. 18, comma 12, decreto-legge n. 93 del 2011) sia tale da
integrare quello standard minimo di legalità richiesto dall’art. 23 della
Costituzione al fine di soddisfare quella esigenza garantista sottesa alla
relativa riserva di legge.

9.3. – In verità, occorre anche considerare che le
suddette ambiguità introdotte dalla norma interpretativa non sussisterebbero
neanche se quest’ultima venisse letta nell’ottica del complessivo intervento
legislativo di cui al decreto-legge n. 93 del 2011.

Come già evidenziato, infatti, il contesto in cui il
decreto viene ad inserirsi è costituito dalla questione relativa alla
«scopertura» previdenziale dei soggetti già pensionati che però abbiano deciso
di continuare la propria attività professionale in maniera abituale.

Pertanto, la norma in esame (comma 12, art. 18,
cit.) deve essere necessariamente letta unitamente al precedente comma 11 dello
stesso articolo.

Tale ultima disposizione, come già evidenziato,
dispone che «Per i soggetti già pensionati, gli enti previdenziali di diritto
privato di cui ai decreti legislativi 30 giugno 1994, n. 509 e 10 febbraio
1996, n. 103, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente
decreto adeguano i propri statuti e regolamenti, prevedendo l’obbligatorietà
dell’iscrizione e della contribuzione a carico di tutti coloro che risultino
aver percepito un reddito, derivante dallo svolgimento della relativa attività
professionale. Per tali soggetti è previsto un contributo soggettivo minimo con
aliquota non inferiore al cinquanta per cento di quella prevista in via
ordinaria per gli iscritti a ciascun ente. Qualora entro il predetto termine
gli enti non abbiano provveduto ad adeguare i propri statuti e regolamenti, si
applica in ogni caso quanto previsto al secondo periodo» (art. 18, comma 11,
decreto-legge n. 93 del 2011).

La norma di interpretazione autentica, poi, ha
precisato che gli obbligati alla relativa iscrizione «sono esclusivamente i
soggetti che svolgono attività il cui esercizio non sia subordinato
all’iscrizione ad appositi albi professionali, ovvero attività non soggette al
versamento contributivo agli enti di cui al comma 11, in base ai rispettivi
statuti e ordinamenti, con esclusione dei soggetti di cui al comma 11» (art.
18, comma 12, decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, cit.).

Alla luce di tale nuova disposizione (comma 11,
dell’art. 18, cit.), deve quindi essere letta anche la successiva norma di
interpretazione autentica fissata al comma seguente (comma 12 dell’art. 18,
cit.), la quale, nel precisare l’ambito soggettivo di operatività della
gestione separata, ha chiarito che sono tenuti all’iscrizione a tale gestione
solamente quei soggetti che svolgono attività non assoggettate al versamento
contributivo agli enti di diritto privato (enti di cui al comma 11) sulla base
delle rispettive scelte ordinistiche (in base ai rispettivi statuti e
ordinamenti), con esclusione in ogni caso dei soggetti già pensionati (soggetti
di cui al comma 11), essendo stata prevista per questi ultimi l’iscrizione
obbligatoria alle proprie Casse previdenziale con versamento di un contributo
soggettivo ridotto, da parte del precedente comma 11 del medesimo art. 18 cit.

Ciò, inoltre, trova ulteriore riscontro nella stessa
relazione illustrativa al decreto, nella quale si legge che «Le vigenti
disposizioni statutarie e regolamentari di alcuni enti previdenziali di diritto
privato di cui ai decreti legislativi n. 509/1994 e n. 103/1996, approvati dai
vigilanti Ministeri del lavoro e delle politiche sociali e dell’economia e
delle finanze, hanno previsto la possibilità, su base volontaria, di proseguire
l’esercizio della attività professionale una volta liquidato il trattamento
pensionistico, senza essere tenuti al versamento della contribuzione ordinaria.

Tali previsioni si sono rivelate non coerenti con il
principio di carattere generale in base al quale i redditi prodotti devono
essere assoggettati a contribuzione previdenziale, per cui l’Inps, nell’ambito
di una vasta operazione finalizzata a contrastare l’evasione ed elusione
contributiva, ha ritenuto di contestare in tali ipotesi il mancato versamento
della contribuzione presso la propria gestione separata, di cui all’art. 2,
comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335.

La proposta normativa intende quindi offrire una
soluzione alla questione, da una parte, imponendo per il futuro l’obbligo per i
citati enti previdenziali di diritto privato di prevedere negli statuti e nei
regolamenti l’obbligatorietà dell’iscrizione e della contribuzione in tutti i
casi di svolgimento dell’attività professionale (ossia, anche una volta
maturato il diritto al trattamento pensionistico). Dall’altra, precisando che
sono soggetti all’iscrizione presso la gestione separata Inps coloro che
svolgono attività il cui esercizio non è subordinato all’iscrizione ad appositi
albi o elenchi, salvo diversa previsione legislativa».

Pertanto, dal combinato disposto delle due norme
(commi 11 e 12 dell’art. 18, cit.), appare evidente come la funzione della
norma interpretativa sia stata quella di delimitare, e non già di ampliare,
l’ambito soggettivo di operatività della gestione separata, come peraltro
confermato, da un lato, dall’utilizzo dell’avverbio «esclusivamente» e, dall’altro,
dal fatto che è rimasto immutato il criterio oggettivo della percezione di
redditi ex art. 49, comma 1, Tuir.

Inoltre, che la finalità della norma interpretativa
fosse quella di restringere, e non di ampliare, la platea dei soggetti passivi
dell’obbligo contributivo, trova conferma anche nella successiva previsione,
contenuta nel medesimo comma 12 dell’art. 18 decreto-legge n. 93 del 2011,
secondo la quale «Sono fatti salvi i versamenti già effettuati ai sensi del
citato art. 2, comma 26, della legge n. 335 del 1995».

Tale disposizione, infatti, si giustifica proprio in
relazione alla circostanza per cui alcuni soggetti, data l’incertezza
normativa, abbiano comunque versato i contributi alla gestione separata, non
essendo però tenuti a farlo in base alla precedente disposizione di cui al
medesimo comma. Ragionando in senso contrario, tale precisazione resterebbe
priva di ogni significato.

Infine, anche dal punto di vista strettamente
letterale, occorre osservare come la norma interpretativa abbia escluso dalla
gestione separata non i soggetti che effettuano il versamento contributivo «di
cui al comma 11» (cioè il contributo soggettivo) bensì quelli che effettuano
tale versamento «agli enti di cui al comma 11» (ossia agli enti privatizzati),
senza specificare la tipologia di versamento, pur avendolo appena fatto al
precedente comma a cui rinvia.

9.4. – Infine, non può neanche ritenersi che la
«base legislativa» richiesta dall’art. 23 della Costituzione possa essere
costituito da una interpretazione giurisprudenziale (Cassazione 18 dicembre
2017, n. 30344 e seguenti), soprattutto quando tale interpretazione, alla luce
del contesto normativo e giurisprudenziale in cui viene ad inserirsi, risulta
essere priva del carattere di prevedibilità. Più in generale, infatti, deve
osservarsi come il senso di ingiustizia percepito dai numerosi professionisti,
come il ricorrente, che si sono visti iscrivere d’ufficio alla gestione
separata Inps a partire dal 2009, è dato non tanto dall’assoggettamento ad un
obbligo contributivo in sé considerato, quanto piuttosto dal percepire che un
simile obbligo sia stato imposto non da una precisa norma di legge, bensì da
una interpretazione giurisprudenziale imprevedibile, con conseguente violazione
di quella garanzia di libertà che storicamente è sempre stata insita nel
principio di legalità.

9.5. – Più precisamente, la libertà dei soggetti in
questione che viene ad essere incisa dalla norma censurata è costituita dalla
libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.

Infatti, in mancanza di una chiara individuazione
dei soggetti passivi dell’obbligo contributivo, la successiva interpretazione
che ne ha esteso l’ambito applicativo anche ai soggetti come il ricorrente,
lede inevitabilmente la libertà di iniziativa economica di quest’ultimo, dal
momento che lo stesso risulta pregiudicato nella possibilità di quantificare
preventivamente tutti gli oneri, come appunto quelli fiscali e contributivi,
cui sarebbe andato incontro nello svolgimento dell’attività professionale.

Come è noto, uno degli aspetti caratterizzanti della
libertà di iniziativa economica è costituito dalla possibilità di scelta
spettante all’operatore economico: scelta dell’attività da svolgere, delle
modalità di reperimento dei capitali, delle forme di organizzazione della
stessa attività, dei sistemi di gestione di quest’ultima e delle tipologie di
corrispettivo (Corte costituzionale n. 218 del 2021).

La piena libertà di scelta, tuttavia, presuppone una
chiara individuazione delle alternative a cui si va incontro e, tale
possibilità è stata pregiudicata allorquando il ricorrente ha deciso di
intraprendere la propria attività professionale di architetto in un contesto
normativo e giurisprudenziale che escludeva pacificamente la sussistenza di un
onere contributivo alla gestione separata Inps.

Se, invece, avesse saputo con sufficiente certezza
dell’esistenza di un simile obbligo contributivo e della sua decorrenza, egli
avrebbe potuto eventualmente scegliere di non intraprendere tale attività economica
o di intraprenderla con modalità e tempistiche differenti, essendo
evidentemente diversa la convenienza economica dell’attività professionale a
seconda della diversa incidenza degli oneri fiscali e contributivi a cui il
reddito prodotto deve essere assoggettato.

Si ribadisce, infatti, che nessuna volontà di
«evasione» sussiste in capo al ricorrente, quanto piuttosto la legittima
pretesa di conoscere in anticipo e con un certo grado di certezza quali sono
gli obblighi imposti dalla legge a chi intende iniziare una simile attività,
anche con riferimento alla estensione temporale e all’entità economica della
relativa imposizione.

10. – Violazione dell’art. 117 della Costituzione,
in relazione all’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione
europea dei Diritti dell’Uomo.

Infine, per gli stessi motivi per i quali si ritiene
esservi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 della
Costituzione, si dubita anche della compatibilità delle disposizioni in esame
con l’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, quale
parametro interposto dell’art. 117 della Costituzione.

Come è noto, il protocollo n. 1 addizionale alla
Convenzione europea, al suo art. 1 (Diritto di proprietà), dispone che «Ogni
persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può
essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle
condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto
internazionale.

Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio
al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie
per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per
assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».

Orbene, non sussistono dubbi sulla riconducibilità
dell’obbligo di iscrizione e contribuzione in favore della gestione separata
Inps nell’ambito di applicabilità dell’art. 1, protocollo n. 1 della
Convezione, stante la nozione ampia relativa al concetto di «beni» e di
«proprietà», nonché all’espresso riferimento normativo ivi contenuto alle
fattispecie di «pagamento delle imposte o di altri contributi».

Ciò posto, la Corte europea ha costantemente
ribadito che, per essere compatibile con la norma generale enunciata nella
prima frase dell’art. 1 sopra menzionato, l’ingerenza deve soddisfare tre
condizioni: deve essere stata compiuta «nelle condizioni previste dalla legge»,
«per causa di pubblica utilità» e nel rispetto di un giusto equilibrio tra i
diritti della ricorrente e gli interessi della comunità (cfr. da ultimo Corte
europea dei Diritti dell’Uomo, 11 febbraio 2020, Casarin c. Italia, Ricorso n.
4893/13). Si tratta, in altri termini, dei tre requisiti costituiti,
rispettivamente, dalla legalità, dallo scopo legittimo e dalla proporzionalità
dell’ingerenza.

Orbene, come già osservato il relazione all’art. 23
della Costituzione, il requisito di legittimità dell’ingerenza che pare
difettare nel caso di specie con riguardo all’obbligo di contribuzione alla
gestione separata Inps è costituito proprio dalla mancanza di una sufficiente
determinazione da parte della legge delle condizioni soggettive di imposizione
del contributo.

Pertanto, per gli stessi motivi per i quali si
ritiene esservi una violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 della
Costituzione, deve ritenersi che la misura in contestazione costituisca
un’ingerenza nel diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni per violazione
del principio di legalità, così come interpretato dalla Corte europea dei
Diritti dell’Uomo.

11. – Conclusioni.

In conclusione, quindi, deve essere dichiarata
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335 e
dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con
modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, per come interpretato dalla
consolidata giurisprudenza di legittimità (c.d. diritto vivente), per
violazione dell’art. 3, anche in relazione all’art. 118, comma 4, della
Costituzione, nonché dell’art. 23, anche in relazione all’art. 41 della
Costituzione, oltre alla violazione dell’art. 117 della Costituzione in
relazione all’art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali.

 

P.Q.M.

 

Visto l’art. 134 della Costituzione e l’art. 23
della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 26,
della legge 8 agosto 1995, n. 335 e dell’art. 18, comma 12, del decreto-legge 6
luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2011, n.
111, per come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di legittimità
(c.d. diritto vivente), per violazione dell’art. 3, anche in relazione all’art.
118, comma 4, della Costituzione, nonché dell’art. 23, anche in relazione
all’art. 41 della Costituzione, oltre alla violazione dell’art. 117 della
Costituzione in relazione all’art. 1 del protocollo n. 1 addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
fondamentali;

Dispone la sospensione del giudizio;

Ordina alla Cancelleria di notificare la presente
ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei ministri,
nonché di comunicarla ai presidenti della Camera dei deputati e del Senato
della Repubblica;

Ordina alla Cancelleria di trasmettere gli atti alla
Corte costituzionale, unitamente alla prova delle avvenute notificazioni e
comunicazioni.

 

Provvedimento pubblicato nella G.U. della Corte Costituzionale 02
marzo 2022, n. 9

Giurisprudenza – TRIBUNALE DI RIETI – Ordinanza 08 febbraio 2022, n. 14
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