Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 04 marzo 2022, n. 54

Maternità e infanzia, Straniero, Assegno per la
incentivazione della natalità e la contribuzione alle spese per il suo sostegno
(c.d. “Bonus bebè”), Assegno di maternità di base, Requisiti per
l’individuazione dei destinatari della prestazione, Previsione, per i
cittadini di Stati extracomunitari, della titolarità del permesso di soggiorno
UE per soggiornanti di lungo periodo, invece che della titolarità del permesso
di soggiorno e di lavoro di durata non inferiore a un anno in applicazione
dell’art. 41 del d.lgs. n. 286/1998

 

Ritenuto in fatto

 

1.- La Corte di cassazione, sezione lavoro, con le
ordinanze iscritte ai numeri 175, 178, 180, 181, 182, 188, 189 e 190 del
registro ordinanze 2019, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre
2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», nella parte in cui, per i
soli cittadini di Paesi terzi, subordina il riconoscimento dell’assegno di
natalità alla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo.

1.1.- L’erogazione dell’assegno di natalità ai soli
cittadini di Paesi terzi che siano titolari del citato permesso sarebbe lesiva
del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto penalizzerebbe proprio
chi, sprovvisto dei requisiti per conseguire il permesso in esame (soggiorno in
Italia per almeno cinque anni, reddito minimo, alloggio idoneo, conoscenza
della lingua italiana), versa in condizioni di più grave bisogno. Non vi
sarebbe alcuna «ragionevole correlazione» tra i presupposti per il
riconoscimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e
«i requisiti di bisogno e di disagio della persona», che rappresentano la
ragion d’essere dell’assegno di natalità.

1.2.- Il rimettente prospetta anche il contrasto con
l’art. 31 Cost., in quanto la disposizione in esame negherebbe, «in radice ed
irrimediabilmente, la realizzazione del diritto sancito dalla Costituzione, con
effetti disgreganti del tessuto sociale della nazione nel nucleo originario ed
essenziale della famiglia».

1.3.- La disciplina dell’assegno di natalità
contrasterebbe, infine, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli
artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE. Sarebbero violati, in particolare, il
principio di eguaglianza e il divieto di discriminazioni, il diritto dei
bambini «alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere», la
tutela giuridica, economica e sociale riconosciuta alla famiglia e il diritto
alle prestazioni di sicurezza sociale.

2.- Si è costituito in tutti i giudizi l’Istituto
nazionale della previdenza sociale (INPS) e ha chiesto di respingere, in quanto
non fondate, le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte di
cassazione.

La disposizione censurata risponderebbe all’esigenza
di incrementare il tasso di natalità e introdurrebbe una provvidenza che, al
pari di analoghe misure disciplinate da alcune leggi regionali, non tutelerebbe
bisogni primari della persona (si cita la sentenza di questa Corte n. 141 del
2014).

Non sarebbe, pertanto, né irragionevole né lesiva
dell’art. 117 Cost. la previsione di «un requisito temporale di residenza nel
territorio» e di un legame tendenzialmente stabile con la comunità. Spetterebbe
pur sempre alla discrezionalità del legislatore l’individuazione dei
presupposti delle prestazioni sociali, in considerazione delle limitate risorse
finanziarie disponibili.

Il beneficio in esame, introdotto allo scopo di
incentivare la natalità e non di alleviare gli oneri che derivano dal
mantenimento dei figli, non rientrerebbe nel campo di applicazione del
regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29
aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.
Peraltro, lo stesso diritto dell’Unione europea affiderebbe agli Stati membri
il compito di «organizzare i rispettivi regimi di sicurezza sociale» nella
maniera più appropriata.

Agli stranieri sarebbe comunque riconosciuta la
tutela sociale della gravidanza e della maternità a parità di trattamento con i
cittadini italiani (art. 35, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998,
n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»).

3.- Si sono costituite davanti a questa Corte anche
le parti resistenti nei giudizi di cui ai numeri 175, 178, 181, 182, 188 e 190
reg. ord. del 2019, per chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità
costituzionale.

Il diniego dell’assegno di natalità per chi non sia
titolare del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo sarebbe
manifestamente irragionevole. Il mancato possesso di un reddito minimo o di un
alloggio idoneo, richiesti per ottenere il citato permesso, non denoterebbe la
mancanza di un radicamento sufficiente, ma – al contrario – una condizione di
maggiore bisogno.

Al caso di specie, riguardante un sostegno alla
famiglia in occasione dell’evento della nascita, non si potrebbero estendere le
considerazioni svolte da questa Corte in merito all’assegno sociale, che
rappresenterebbe il corrispettivo del contributo al progresso materiale o
spirituale della società.

4.- Si è costituita in giudizio anche la parte
resistente in quello di cui al reg. ord. n. 189 del 2019 e ha chiesto di
accogliere le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte di
cassazione.

5.- È intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque manifestamente
infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di
cassazione.

5.1.- L’interveniente, in linea preliminare, ha eccepito
sotto svariati profili l’inammissibilità delle questioni.

5.1.1.- In primo luogo, la Corte rimettente,
nell’auspicare l’introduzione del diverso requisito del permesso di soggiorno e
di lavoro per almeno un anno, non indicherebbe «l’unica soluzione legislativa
costituzionalmente configurabile», in un ambito che resta pur sempre riservato
alla discrezionalità del legislatore.

5.1.2.- Inoltre, sarebbe carente la motivazione
sulla rilevanza. Il giudice a quo, infatti, avrebbe trascurato di approfondire
la titolarità dei requisiti di reddito previsti per la fruizione dell’assegno
di natalità.

5.1.3.- Infine, il rimettente non avrebbe analizzato
la portata dell’art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 che, con riguardo
al permesso di soggiorno per motivi familiari, esclude l’accesso alle
prestazioni di assistenza sociale come l’assegno di natalità.

5.2.- Le questioni, nel merito, sarebbero
manifestamente infondate.

L’assegno di natalità non si prefiggerebbe di
soddisfare i «bisogni primari e vitali della persona», le «condizioni minime di
vita e di salute», ma di incentivare la natalità. Sarebbe ragionevole,
pertanto, il requisito di una presenza regolare e non episodica sul territorio
dello Stato, così come accade per l’assegno sociale (si richiama, a tale
riguardo, la sentenza di questa Corte n. 50 del 2019).

Né si ravviserebbe alcun contrasto con l’art. 31
Cost., che indica «una finalità di politica sociale», senza imporre, tuttavia,
il riconoscimento della prestazione in esame.

Inoltre, la scelta di attribuire l’assegno di
natalità ai soli cittadini di Paesi terzi titolari di permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo sarebbe compatibile con il diritto
dell’Unione europea, che, solo per i titolari di tale permesso, sancisce per
l’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale «una equiparazione
tendenzialmente piena del cittadino di paesi terzi al cittadino dell’Unione».

Né, infine, si potrebbe invocare, in senso
contrario, la direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del
13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di
un permesso unico. Essa, difatti, mira solo a istituire un permesso di lavoro
allo scopo di consentire il primo ingresso di un cittadino di paese terzo in
uno Stato membro dell’Unione e ammette, peraltro, la deroga al principio di
parità di trattamento.

6.- In vista dell’udienza del 7 luglio 2020, l’INPS
ha depositato memorie illustrative e ha insistito per l’accoglimento delle
conclusioni già formulate.

La difesa dell’INPS ha ripreso gli argomenti
illustrati nell’atto di costituzione e ha affermato la legittimità del diverso
trattamento riservato a chi non sia titolare del permesso di lungo soggiorno,
anche alla luce del limite delle risorse disponibili e della disciplina europea
che impone agli Stati membri la rigorosa osservanza dell’equilibrio di
bilancio.

7.- In prossimità dell’udienza del 7 luglio 2020,
hanno depositato memorie illustrative le parti resistenti nei giudizi di cui ai
numeri 175, 178, 181, 182, 188 e 190 reg. ord. del 2019, per confermare le
conclusioni già rassegnate e replicare ai rilievi dell’INPS e del Presidente
del Consiglio dei ministri.

7.1.- Nel merito, le parti hanno ribadito che il
requisito del radicamento non potrebbe escludere ogni rilievo delle condizioni
di bisogno, così come avviene per effetto della disposizione censurata (si
richiama la sentenza di questa Corte n. 44 del 2020).

Peraltro, la carenza di un permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo non sarebbe sintomatica di una presenza
episodica e irregolare.

Nel caso dell’assegno di natalità, non si potrebbe
neppure valorizzare il contributo pregresso alla vita collettiva che questa
Corte ha individuato come la ratio della limitazione del riconoscimento
dell’assegno sociale ai soli titolari di un permesso di lungo soggiorno.

Il requisito della residenza in Italia «per l’intero
periodo in cui il beneficio viene corrisposto» varrebbe poi a scongiurare il
“turismo assistenziale” paventato dalla difesa dello Stato.

7.2.- Le parti contestano, altresì, la fondatezza
delle eccezioni preliminari formulate nell’atto di intervento.

La Corte rimettente si sarebbe limitata a
prefigurare una soluzione conforme a un criterio generale già presente nel
sistema e avrebbe poi motivato in maniera adeguata sulla rilevanza delle
questioni.

7.3.- Le parti, in conclusione, evidenziano che una
pronuncia di accoglimento avrebbe «modestissima incidenza sulle situazioni
pregresse», in larga parte già definite, e potrebbe orientare l’attività del
Parlamento e del Governo nell’elaborazione delle misure a sostegno della
famiglia. Nel richiedere, per l’erogazione dell’assegno di natalità ai soli
stranieri, il possesso di un reddito idoneo, la disposizione censurata si
porrebbe in contrasto con la dichiarata finalità «di offrire misure di sostegno
economico alla famiglia».

8.- Ha depositato memoria illustrativa anche la
parte resistente nel giudizio di cui al n. 189 reg. ord. del 2019, per
confermare le conclusioni già rassegnate.

Il requisito reddituale, previsto per i soli
cittadini di Paesi terzi, tradirebbe la funzione stessa dell’assegno di
natalità, che rappresenterebbe una misura di sostegno economico alla famiglia.

La disposizione censurata sarebbe irragionevole
anche per il rilievo che attribuisce al pregresso soggiorno per cinque anni,
presupposto che non dimostrerebbe di per sé un effettivo radicamento sul
territorio nazionale.

La disciplina dell’assegno di natalità sarebbe
lesiva, inoltre, dell’art. 31 Cost., in quanto differenzierebbe l’applicazione
di misure di sostegno dei figli e delle famiglie numerose in rapporto a fattori
di nazionalità e di cittadinanza. L’introduzione di criteri selettivi
«incongrui o irragionevoli» penalizzerebbe «i soli figli di stranieri
extracomunitari».

9.- Con ordinanze iscritte ai numeri 177 e 179 del
registro ordinanze 2019, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato,
in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli
artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE, questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e
della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53),
nella parte in cui, per i cittadini di Paesi terzi, subordina il diritto a
percepire l’assegno di maternità alla titolarità del permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo.

9.1.- Tale previsione si porrebbe in contrasto con i
principi di eguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto
introdurrebbe un criterio selettivo disancorato dallo stato di bisogno e dalla
finalità del beneficio, che mira a soddisfare «esigenze primarie» connesse alla
nascita o all’adozione di un bambino, e determinerebbe così arbitrarie
disparità di trattamento tra situazioni omogenee.

9.2.- Sarebbe violato, inoltre, l’art. 31 Cost., in
quanto la disposizione censurata pregiudicherebbe la tutela che spetta alla
maternità proprio nelle situazioni di più grave disagio.

9.3.- Il rimettente evoca, infine, la violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34
CDFUE, che sanciscono, rispettivamente, il principio di eguaglianza, il divieto
di discriminazioni, il diritto dei bambini alla protezione e alle cure
necessarie per il loro benessere, la protezione della famiglia sul piano
giuridico, economico e sociale, il diritto di accesso alle prestazioni di
sicurezza sociale.

10.- Nel giudizio di cui al n. 177 reg. ord. del
2019, si è costituita la parte ricorrente nel giudizio principale e ha chiesto
di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte
di cassazione.

La parte evidenzia che l’assegno di maternità è
concesso a donne «che non possono beneficiare di un sostegno economico alla
maternità derivante dai pregressi versamenti contributivi», che non lavorano e
non hanno lavorato nel recente passato e non possono lavorare in ragione dei
divieti concernenti i mesi successivi al parto.

La prestazione in esame, peraltro, si prefiggerebbe
di tutelare non soltanto la madre, ma anche il minore.

Né per la madre, che è «una donna tendenzialmente
giovane», potrebbero valere le considerazioni sul contributo pregresso, svolte
da questa Corte con riferimento all’assegno sociale nella sentenza n. 50 del
2019.

11.- Nei giudizi di cui al reg. ord. n. 177 e n. 179
del 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di
dichiarare inammissibili o comunque non fondate le questioni di legittimità
costituzionale.

11.1.- In linea preliminare, la difesa dello Stato
ha eccepito l’inammissibilità delle questioni.

11.1.1.- In primo luogo, la Corte rimettente indica
una soluzione che non sarebbe l’unica «costituzionalmente configurabile».

11.1.2.- Sarebbe, inoltre, lacunosa la motivazione
in punto di rilevanza. Il giudice a quo non avrebbe dato conto della titolarità
dei requisiti di reddito indispensabili per accedere all’assegno di maternità.

11.1.3.- Infine, la ricostruzione del quadro
normativo non sarebbe esauriente. La Corte di cassazione non avrebbe tenuto
conto delle previsioni dell’art. 30, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998, in
merito al permesso per motivi familiari, che non consentirebbe l’accesso alle prestazioni
come l’assegno di maternità.

11.2.- Nel merito, le questioni sarebbero
manifestamente infondate.

L’assegno di maternità incentiverebbe la natalità
declinante e non avrebbe alcuna attinenza con la «tutela delle condizioni
minime di vita e di salute della persona».

Pertanto, sarebbe ragionevole e compatibile con gli
altri parametri costituzionali invocati la scelta di richiedere «un sufficiente
radicamento» sul territorio nazionale, anche nella prospettiva di «un attento
contemperamento dei diritti individuali/familiari con le imprescindibili
esigenze di compatibilità finanziaria della relativa spesa» (si richiama la
sentenza di questa Corte n. 50 del 2019 in tema di assegno sociale).

Il diritto dell’Unione europea imporrebbe soltanto
per i soggiornanti di lungo periodo una equiparazione «tendenzialmente piena
del cittadino di paesi terzi».

Quanto alla tutela della maternità, sarebbe
demandata alla competenza degli Stati membri e non si potrebbero evocare,
pertanto, le previsioni della Carta.

12.- In vista dell’udienza del 7 luglio 2020, ha
depositato una memoria illustrativa la parte costituita nel giudizio di cui al
n. 177 reg. ord. del 2019.

La parte ha chiesto il rigetto delle eccezioni di
inammissibilità formulate dalla difesa dello Stato e ha ribadito le
argomentazioni dell’atto di costituzione in merito alla carenza di una
ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di lungo soggiorno e la
ratio del beneficio.

13.- Con ordinanza n. 182 del 2020, questa Corte ha
deciso di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea la seguente
questione pregiudiziale: «se l’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007, debba essere interpretato nel senso che nel suo
àmbito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di
maternità, in base all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e j), del regolamento
(CE) n. 883/2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004,
relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, richiamato
dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una
procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, e se,
pertanto, il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso di non
consentire una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del
permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già
concesse agli stranieri titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti
di lungo periodo».

14.- La Corte di giustizia dell’Unione europea,
grande sezione (sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, O. D. e
altri), ha ritenuto ricevibili le questioni pregiudiziali proposte da questa
Corte e, nel merito, ha affermato che «[l]’articolo 12, paragrafo 1, lettera
e), della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13
dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un
permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e
lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti
per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro,
deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che
esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere
b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un
assegno di maternità previsti da detta normativa».

15.- Le questioni sono tornate all’esame di questa
Corte, che ha fissato, per la discussione, l’udienza dell’11 gennaio 2022 e,
per il giudizio di cui al n. 179 reg. ord. del 2019, la trattazione nella
camera di consiglio del medesimo giorno.

15.1.- Nei giudizi di cui ai numeri 175, 177, 178,
181, 182, 188 e 190 reg. ord. del 2019, hanno depositato memoria le parti
private e hanno chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità
costituzionale delle disposizioni censurate, nella parte in cui negano ai
titolari del permesso unico di lavoro l’assegno di natalità e l’assegno di
maternità.

Nel caso di specie, non verrebbe in rilievo lo ius
superveniens in tema di assegno unico universale e di accesso degli stranieri
alle prestazioni di assistenza sociale, poiché le controversie dovrebbero
essere decise in base alla normativa vigente al momento della presentazione
della domanda.

Le parti pongono in risalto «la stretta connessione»
tra i parametri costituzionali e le norme della CDFUE.

L’erogazione dell’assegno di natalità, prestazione
rivolta essenzialmente «al nuovo nato», non potrebbe tollerare disparità di
trattamento legate al radicamento territoriale o al pregresso contributo alla
vita collettiva.

Neppure per l’assegno di maternità si potrebbe
riscontrare una ragionevole correlazione tra il requisito selettivo del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e la ratio di un
beneficio concesso a chi non possa godere della «indennità di maternità
“ordinaria”» e dunque si trovi «in condizioni di maggiore bisogno».

15.2.- In prossimità dell’udienza dell’11 gennaio
2022, anche nel giudizio di cui al n. 189 reg. ord. del 2019 ha depositato
memoria la parte privata, per chiedere la declaratoria di illegittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014.

Nel discriminare i bambini in virtù della
cittadinanza dei loro genitori, la disposizione censurata riserverebbe un
trattamento deteriore ai figli di cittadini di paesi terzi, in assenza di una
«idonea giustificazione» e in antitesi con le finalità di una prestazione
finalizzata a far fronte alle «situazioni di maggior disagio economico». Essa
contrasterebbe, pertanto, non solo con l’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione alle richiamate previsioni della CDFUE, ma anche con gli artt. 3 e 31
Cost.

15.3.- In tutti i giudizi, ha depositato memoria
anche il Presidente del Consiglio dei ministri.

15.3.1.- Le questioni di legittimità costituzionale
sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza. La Corte di cassazione non
avrebbe dato conto, per tutti i ricorrenti, della titolarità del permesso unico
di lavoro, che consentirebbe di invocare la parità di trattamento nella materia
della sicurezza sociale.

Spetterebbe alla discrezionalità degli Stati membri
conformare nella maniera più appropriata i sistemi di sicurezza sociale. L’art.
34 CDFUE non attribuirebbe alcun diritto e richiederebbe pur sempre la
mediazione del diritto derivato e della legislazione nazionale.

15.3.2.- Le questioni, nel merito, non sarebbero
comunque fondate.

La Corte di giustizia dell’Unione europea avrebbe
enucleato un onere procedurale, che si sostanzia nel carattere espresso della
deroga al principio di parità di trattamento. La disciplina dell’assegno di
natalità, racchiusa nell’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014,
rappresenterebbe la deroga espressa richiesta dalla Corte di Lussemburgo.

Sarebbe demandato al legislatore nazionale il
compito di dettare la disciplina compiuta dell’assegno di natalità e
dell’assegno di maternità, nel rispetto del limite delle risorse disponibili.
Al necessario intervento legislativo non potrebbero sopperire né una pronuncia
di questa Corte, che condurrebbe comunque ad una «rideterminazione, ovviamente
riduttiva, dei trattamenti individuali», né il richiamo al «principio europeo
di non discriminazione».

La difesa dello Stato ribadisce che la posizione del
soggiornante di lungo periodo non potrebbe essere assimilata a quella del
titolare del permesso unico di lavoro. L’equiparazione auspicata dal rimettente
vanificherebbe la speciale disciplina di favore che il legislatore dell’Unione
europea ha dettato proprio per i soggiornanti di lungo periodo.

In via subordinata, l’interveniente chiede il
differimento ex nunc dell’efficacia della sentenza di accoglimento e
l’assegnazione di «un congruo termine per il reperimento delle necessarie,
ingenti, risorse finanziarie».

16.- All’udienza pubblica dell’11 gennaio 2022, le
parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni, preliminari e di
merito, rassegnate nei rispettivi atti.

 

Considerato in diritto

 

1.- Con le ordinanze iscritte ai numeri 175, 178,
180, 181, 182, 188, 189 e 190 del registro ordinanze 2019, la Corte di
cassazione, sezione lavoro, dubita, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, della
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge 23 dicembre
2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», nella parte in cui, per i
soli cittadini di Paesi terzi, subordina il riconoscimento dell’assegno di
natalità alla titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo.

1.1.- Il giudice a quo muove dal presupposto che
l’assegno di natalità si configuri come una prestazione volta al
soddisfacimento di «bisogni essenziali del nucleo familiare» in condizioni meno
agiate.

1.1.1.- La disposizione censurata confliggerebbe,
anzitutto, con l’art. 3 Cost.

Il legislatore avrebbe individuato i beneficiari
dell’assegno di natalità in base a un criterio, la titolarità del permesso di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, «privo di ogni collegamento»
con i bisogni «immediati ed indifferibili» che il presente beneficio mira a
fronteggiare. Nel richiedere «una durata pregressa della residenza almeno
quinquennale, un reddito comunque almeno pari all’importo dell’assegno sociale,
un alloggio idoneo e la conoscenza della lingua italiana», la disposizione
censurata escluderebbe proprio «chi si trova in situazione di maggior bisogno»
e vanificherebbe la funzione della provvidenza, che non è solo di «incentivo
all’innalzamento demografico», ma «soprattutto» di sostegno economico alle
famiglie meno abbienti.

1.1.2.- Il rimettente denuncia, inoltre, il
contrasto con l’art. 31 Cost.

Sarebbero pregiudicate le famiglie che risiedono sul
territorio nazionale «in modo non episodico o temporaneo» e vivono «nelle
medesime, se non peggiori, condizioni economiche» rispetto alle famiglie in cui
almeno uno dei genitori sia titolare del permesso per soggiornanti UE di lungo
periodo. Ne deriverebbero «effetti disgreganti del tessuto sociale della
nazione nel nucleo originario ed essenziale della famiglia».

1.1.3.- Il requisito selettivo individuato dal
legislatore, infine, costituirebbe una discriminazione a causa della
nazionalità e lederebbe il diritto alla parità di trattamento che – nel settore
della sicurezza sociale e, in particolare, delle prestazioni destinate ad
alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli – spetta ai cittadini
di Paesi terzi, titolari di permesso unico ai sensi della direttiva 2011/98/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una
procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico (si richiama la
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e, in particolare,
la sentenza 21 giugno 2017, nella causa C-449/16, Kerly Del Rosario Martinez
Silva).

Sarebbe violato, dunque, l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE. Le citate previsioni
della CDFUE sanciscono «il principio di eguaglianza ed il divieto di
discriminazioni, anche per la cittadinanza, riconoscono il diritto dei bambini
alla “protezione e alle cure necessarie per il loro benessere”, garantiscono
“la protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale”» e
tutelano «il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai
servizi sociali che assicurano protezione».

1.2.- Le questioni di legittimità costituzionale
sono state sollevate nei giudizi instaurati dall’Istituto nazionale della
previdenza sociale (INPS) per ottenere la riforma delle pronunce dei giudici di
secondo grado, che hanno affermato il carattere discriminatorio del diniego
dell’assegno di natalità a chi è sprovvisto del permesso di soggiorno UE per
soggiornanti di lungo periodo.

Il rimettente sostiene che spetti a questa Corte il
sindacato di «ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di
bilanciamento dei contrapposti interessi» e che sia indispensabile una
pronuncia dotata di effetti erga omnes, che individui nel possesso della carta
o del permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno il solo «criterio
selettivo giustificato e ragionevole».

La Corte di cassazione ricorda che è consentito
sollevare questioni di legittimità costituzionale incentrate, sia sulla
violazione dei parametri interni, sia sul contrasto con le corrispondenti norme
della CDFUE.

1.3.- In punto di non manifesta infondatezza, il
rimettente osserva che non vengono in rilievo le pronunce di questa Corte (fra
queste, la sentenza n. 141 del 2014) che hanno dichiarato non fondati i dubbi
di legittimità costituzionale riguardanti la disciplina degli assegni di
natalità istituiti dalle Regioni e assoggettati al requisito della residenza
biennale sul territorio regionale. Tali prestazioni, al contrario di quella
oggetto dell’odierno scrutinio, sarebbero erogate «a prescindere da limiti
reddituali» e non assolverebbero la funzione di sostegno delle famiglie
bisognose.

Né si potrebbe invocare, in senso contrario, la
necessità di tener conto, nella «erogazione di prestazioni di natura economica
eccedenti quelle essenziali», del limite delle risorse disponibili. I
beneficiari – argomenta la Corte di cassazione – dovrebbero essere pur sempre
individuati nel rispetto del principio di ragionevolezza.

Non sarebbe pertinente neppure la pronuncia di
questa Corte in tema di assegno sociale (sentenza n. 50 del 2019), che ha
respinto, in quanto non fondate, le censure sul requisito del «permesso di
lungo soggiorno». L’assegno sociale si atteggerebbe come corrispettivo
solidaristico dell’apporto al progresso materiale o spirituale della società.
Tale caratteristica, tuttavia, non si riscontrerebbe nell’odierna misura di
assistenza, connessa «a specifiche esigenze di tutela sociale della persona che
non tollerano discriminazioni»

1.4.- Il rimettente, pertanto, chiede a questa Corte
di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della
legge n. 190 del 2014, «nella parte in cui richiede ai soli cittadini
extracomunitari ai fini dell’erogazione dell’assegno di natalità» la titolarità
del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, «anziché la
titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in
applicazione dell’art. 41» del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286
(Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e
norme sulla condizione dello straniero).

2.- Con le ordinanze iscritte ai numeri 177 e 179
del registro ordinanze 2019, la Corte di cassazione, sezione lavoro, dubita, in
riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt.
20, 21, 24, 33 e 34 CDFUE, della legittimità costituzionale l’art. 74 del
decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).

2.1.- Il giudice a quo annovera l’assegno di
maternità tra le misure volte «a soddisfare bisogni essenziali collegati alla
nascita o all’adozione di un bambino, in un contesto caratterizzato da redditi
bassi» e dalla «mancanza di altre prestazioni collegate alla maternità».

2.1.1.- La previsione censurata determinerebbe
«un’ingiustificata e irragionevole disparità di trattamento tra cittadini
italiani e stranieri, legalmente soggiornanti in Italia», in contrasto con
l’art. 3 Cost. Solo per i cittadini dei Paesi terzi, difatti, il legislatore
richiederebbe, per l’erogazione dell’assegno di maternità, il permesso di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, che non soltanto sarebbe
criterio privo di una ragionevole correlazione con lo stato di bisogno, ma
condurrebbe a discriminare proprio «chi si trovi in situazione di maggior
bisogno».

Il rimettente esclude che il requisito della
residenza protratta nel tempo si correli alla finalità di una misura
preordinata a soddisfare «bisogni immediati e indifferibili», «esigenze
primarie legate alla nascita di un bambino o alla sua adozione».

2.1.2.- La Corte di cassazione denuncia, inoltre, il
contrasto con l’art. 31 Cost.

La scelta di condizionare l’erogazione dell’assegno
di maternità alla titolarità del permesso di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 286
del 1998 vanificherebbe «di fatto e irrimediabilmente la realizzazione della
garanzia costituzionale per quei figli e per quelle famiglie in cui nessuno dei
genitori è in possesso del permesso di lungo soggiorno, pur trovandosi le
stesse famiglie in modo non episodico o temporaneo a risiedere in territorio
nazionale e vivendo nelle medesime, se non peggiori, esigenze economiche».

2.1.3.- Il giudice a quo prospetta, infine, la
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21,
24, 33 e 34 CDFUE. Sarebbero lesi il principio di eguaglianza, il divieto di
discriminazioni, il diritto dei bambini di beneficiare delle cure necessarie
per il loro benessere, la tutela giuridica, economica e sociale della famiglia,
il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale.

2.2.- In punto di rilevanza, la Corte rimettente
evidenzia che – dall’applicazione della disposizione censurata – consegue il
rigetto della domanda della parte ricorrente, in quanto ricorrono «gli
ulteriori presupposti richiesti dalla norma per l’erogazione della
prestazione».

2.3.- A sostegno della non manifesta infondatezza
delle questioni, la Corte di cassazione ricorda che il criterio selettivo
individuato dal legislatore si discosta dalle previsioni generali dell’art. 41
del d.lgs. n. 286 del 1998, che, in materia di assistenza sociale, riconoscono
parità di trattamento con i cittadini italiani ai cittadini extracomunitari
titolari di permesso di soggiorno e di lavoro validi per almeno un anno.

La «diretta tutela costituzionale» sancita per la
maternità segnerebbe il discrimine rispetto alla fattispecie dell’assegno
sociale, scrutinata da questa Corte nella citata sentenza n. 50 del 2019 e
inquadrata come corrispettivo del contributo prestato dal beneficiario al
progresso della comunità cui appartiene.

2.4.- Il giudice rimettente, pertanto, chiede a
questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 74 del
d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui subordina l’erogazione dell’assegno
di maternità al requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di
lungo periodo, anziché alla «titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro
per almeno un anno».

3.- Con l’ordinanza n. 182 del 2020, questa Corte ha
riunito i giudizi, in ragione dell’opportunità di una trattazione unitaria
delle questioni formulate dai rimettenti (punti 1 e 2 del Considerato in
diritto), e ha interpellato la Corte di giustizia dell’Unione europea circa la
riconducibilità dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla
tutela sancita dall’art. 34 CDFUE e al connesso principio di parità di
trattamento nel settore della sicurezza sociale.

4.- La Corte di giustizia dell’Unione europea,
grande sezione (sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/2021, O. D. e
altri), ha risposto affermativamente ai quesiti pregiudiziali formulati da
questa Corte e ha riconosciuto che entrambe le provvidenze rientrano
nell’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento, in base
all’art. 12 della direttiva 2011/98 UE, che concretizza l’art. 34 CDFUE,
specificamente invocato come parametro dal giudice a quo.

Nell’odierno giudizio questa Corte è chiamata a
trarre le necessarie conclusioni dalle risposte fornite in sede di rinvio
pregiudiziale e a scrutinare anche in tale più ampia prospettiva la conformità
a Costituzione del bilanciamento attuato dal legislatore.

5.- Si deve esaminare, in primo luogo, l’evoluzione
del quadro normativo, per valutarne l’incidenza sulle questioni sottoposte al
vaglio di questa Corte.

Dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
dell’Unione europea, la disciplina censurata ha registrato un profondo
mutamento, che si sviluppa in una duplice direzione, riguardante, per un verso,
la normativa sulle provvidenze a favore dei figli e, per altro verso, quella in
tema di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale.

5.1.- Sul primo versante, si deve segnalare che la
legge 1° aprile 2021, n. 46 (Delega al Governo per riordinare, semplificare e
potenziare le misure a sostegno dei figli a carico attraverso l’assegno unico e
universale), «[a]l fine di favorire la natalità», ha delegato il Governo
all’adozione di «uno o più decreti legislativi volti a riordinare, semplificare
e potenziare, anche in via progressiva, le misure a sostegno dei figli a carico
attraverso l’assegno unico e universale», improntato a un «principio
universalistico» e modulato – secondo un criterio di progressività – in
rapporto alle condizioni economiche del nucleo familiare (art. 1).

L’art. 3, comma 1, lettera a), numero 2), della
legge n. 46 del 2021 prefigura il superamento o la graduale soppressione
dell’assegno di natalità, sottoposto all’odierno scrutinio.

La delega è stata attuata con il decreto legislativo
29 dicembre 2021, n. 230 (Istituzione dell’assegno unico e universale per i
figli a carico, in attuazione della delega conferita al Governo ai sensi della
legge 1° aprile 2021, n. 46), che, a decorrere dal 1° marzo 2022, ha istituito
«l’assegno unico e universale per i figli a carico, che costituisce un
beneficio economico attribuito, su base mensile, per il periodo compreso tra
marzo di ciascun anno e febbraio dell’anno successivo, ai nuclei familiari
sulla base della condizione economica del nucleo» (art. 1).

5.1.1.- Le novità in tema di assegno unico
universale, prestazione erogata a decorrere dal 1° marzo 2022, non incidono sui
giudizi a quibus, concernenti fattispecie che si sono perfezionate nella
vigenza della disciplina anteriore e che – al metro di tale disciplina – devono
essere valutate.

Non è necessario, pertanto, che questa Corte
restituisca gli atti al rimettente, allo scopo di consentirgli di rinnovare la
valutazione in punto di rilevanza.

5.2.- Per le medesime ragioni tale necessità non si
ravvisa neppure con riguardo alle modificazioni introdotte dall’art. 3 della
legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2019-2020),
che ha ridefinito le condizioni di accesso dei cittadini dei Paesi terzi alle
prestazioni sociali in termini generali e con specifico riguardo all’assegno di
natalità e all’assegno di maternità.

5.2.1.- Nella formulazione originaria, considerata
anche dalla Corte rimettente, l’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, con
riguardo all’accesso alle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale,
equiparava ai cittadini italiani «[g]li stranieri titolari della carta di
soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché
i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di
soggiorno».

In virtù delle modificazioni introdotte dall’art. 3,
comma 1, lettera a), della legge n. 238 del 2021, l’equiparazione oggi concerne
«[g]li stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo, i titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno
diversi da quelli di cui ai commi 1-bis e 1-ter del presente articolo e i
minori stranieri titolari di uno dei permessi di soggiorno di cui all’articolo
31».

5.2.2.- Quanto al richiamato art. 41, comma 1-bis,
del d.lgs. n. 286 del 1998, inserito dall’art. 3, comma 1, lettera b), della
legge n. 238 del 2021, esso regola la «fruizione delle prestazioni costituenti
diritti alle quali si applica il regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi
di sicurezza sociale» e, in tale ambito, equipara ai cittadini italiani «[g]li
stranieri titolari di permesso unico di lavoro e i titolari di permesso di
soggiorno per motivi di studio, che svolgono un’attività lavorativa o che
l’hanno svolta per un periodo non inferiore a sei mesi e hanno dichiarato la
loro immediata disponibilità allo svolgimento della stessa ai sensi
dell’articolo 19 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 150, nonché gli
stranieri titolari di permesso di soggiorno per motivi di ricerca».

5.2.3.- L’art. 41, comma 1-ter, del d.lgs. n. 286
del 1998, inserito dal già citato art. 3, comma 1, lettera b), della legge n.
238 del 2021, reca una deroga alla previsione generale del comma precedente,
con specifico riguardo alle «prestazioni familiari di cui all’articolo 3,
paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 29 aprile 2004».

Quanto a tali prestazioni, beneficiano
dell’equiparazione ai cittadini italiani i soli «stranieri titolari di permesso
unico di lavoro autorizzati a svolgere un’attività lavorativa per un periodo
superiore a sei mesi, nonché gli stranieri titolari di permesso di soggiorno
per motivi di ricerca autorizzati a soggiornare in Italia per un periodo
superiore a sei mesi».

5.2.4.- L’art. 3, comma 3, lettera a), della legge
n. 238 del 2021 modifica le disposizioni in tema di assegno di maternità, oggi
erogato «alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o familiari
titolari della carta di soggiorno di cui agli articoli 10 e 17 del decreto
legislativo 6 febbraio 2007, n. 30, o titolari di permesso di soggiorno ed
equiparate alle cittadine italiane ai sensi dell’articolo 41, comma 1-ter, del
testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, ovvero titolari
di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».

L’assegno di maternità non è più concesso, dunque,
alle sole madri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo, secondo la limitazione censurata nell’odierno giudizio, ma anche alle
madri titolari di permesso unico di lavoro autorizzate a svolgere un’attività
lavorativa per un periodo superiore a sei mesi e a quelle titolari di permesso
di soggiorno per motivi di ricerca autorizzate a soggiornare in Italia per un periodo
superiore a sei mesi.

5.2.5.- La medesima estensione dei requisiti
soggettivi concerne anche l’assegno di natalità, in base alle novità introdotte
dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021.

5.3.- Le richieste di assegno di natalità e di assegno
di maternità devono essere valutate alla luce della disciplina vigente al tempo
della loro presentazione. Non viene in rilievo, pertanto, la normativa
sopravvenuta, che, secondo i principi generali (art. 11 delle preleggi),
dispone soltanto per l’avvenire, in mancanza di univoche indicazioni di segno
contrario.

6.- Esclusa la necessità di restituire gli atti ai
giudici a quibus, si devono vagliare le eccezioni di inammissibilità formulate
dalla difesa dello Stato.

6.1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, in
tutti i giudizi, imputa alla Corte rimettente di aver prefigurato una pronuncia
additiva, che esula, tuttavia, dalle soluzioni costituzionalmente obbligate.
L’introduzione del requisito del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno
un anno, in sostituzione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo, rappresenterebbe il frutto di una discrezionalità del legislatore non
vincolata dalla Costituzione.

6.1.1.- L’eccezione non è fondata.

6.1.2.- Il giudice a quo richiama la norma di
chiusura dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 sulla equiparazione degli
stranieri ai cittadini italiani, allo scopo di suffragare l’irragionevolezza
della deroga ai principi generali in tema di accesso alle prestazioni di
assistenza sociale.

La Corte rimettente, lungi dall’indicare una
soluzione eccentrica, fa leva su una disposizione che costituisce il necessario
paradigma del sindacato di ragionevolezza delle scelte del legislatore e impone
una «specifica, trasparente e razionale» giustificazione delle eventuali
deroghe (sentenza n. 432 del 2005, punto 5.2. del Considerato in diritto).

Anche l’evoluzione normativa conferma la rilevanza
sistematica dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998. Il legislatore, con la
citata legge n. 238 del 2021, ha scelto di ridefinire in una prospettiva più
ampia le condizioni di accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza
sociale e, in armonia con tali previsioni, ha innovato anche la disciplina in
tema di assegno di natalità e di assegno di maternità.

6.1.3.- La discrezionalità che compete al
legislatore nel definire le condizioni di accesso alle misure di assistenza
sociale non esime questa Corte dal compito di vagliare la conformità a
Costituzione delle scelte di volta in volta compiute.

6.2.- In secondo luogo, la difesa dello Stato ha
eccepito l’inammissibilità di tutte le questioni proposte, per la carente
motivazione in ordine al presupposto della rilevanza.

Il giudice a quo non avrebbe svolto alcuna indagine
sui requisiti di reddito che le disposizioni censurate prescrivono per la
concessione dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità.

6.2.1.- Neppure tale eccezione è fondata.

La Corte di cassazione ha offerto una motivazione
sufficiente circa la necessità di applicare le disposizioni censurate e ha
argomentato che esse precluderebbero l’accoglimento della domanda, in virtù del
tenore letterale inequivocabile che le contraddistingue.

Il giudice a quo ha osservato che sussistono gli
ulteriori presupposti richiesti per il conseguimento delle provvidenze in
esame. Né, in difetto di specifici motivi di ricorso, spettava alla Corte di
cassazione rivalutare nel merito tali presupposti. Con argomentazione che non
si può reputare implausibile, la Corte rimettente soggiunge che soltanto la
mancanza del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo,
previsto dalle disposizioni impugnate, si frappone all’accoglimento delle
richieste.

Trova così conferma la rilevanza dei dubbi di
costituzionalità.

6.3.- Le questioni, infine, sarebbero inammissibili,
in quanto il rimettente non avrebbe tenuto conto dell’art. 30, comma 2, del
d.lgs. n. 286 del 1998, che esclude chi sia titolare del permesso di soggiorno
per motivi familiari dalle prestazioni di assistenza sociale, quale è l’assegno
di natalità.

6.3.1.- Anche questa eccezione deve essere
disattesa.

Le censure non si incentrano sulle peculiarità del
soggiorno per motivi familiari, ma sul diverso profilo della titolarità del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. A tale riguardo, la
Corte rimettente ha illustrato in maniera esaustiva il quadro normativo di
riferimento. Non si riscontrano, pertanto, le lacune eccepite
dall’interveniente.

6.3.2.- La Corte di cassazione ha ponderato il
quadro normativo, anche alla luce delle implicazioni del diritto dell’Unione
europea, e ha dedotto il contrasto della disciplina nazionale sia con i
parametri costituzionali sia con le previsioni della CDFUE.

7.- Spetta dunque a questa Corte accertare se le
disposizioni censurate infrangano, in pari tempo, i principi costituzionali e
le garanzie sancite dalla CDFUE, nel loro vicendevole integrarsi, in un
arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali (ordinanza n.
182 del 2020, punto 3.1. del Considerato in diritto).

Le questioni, pertanto, sono ammissibili e devono
essere a questo punto scrutinate nel merito.

8.- Alla soluzione dei dubbi di costituzionalità
giova premettere l’inquadramento delle caratteristiche salienti dell’assegno di
natalità e dell’assegno di maternità.

8.1.- Introdotto allo scopo di «incentivare la
natalità e contribuire alle spese per il suo sostegno», l’assegno di natalità è
stato riconosciuto inizialmente «per ogni figlio nato o adottato tra il 1°
gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017» ai genitori appartenenti a un nucleo
familiare che si trovi «in una condizione economica corrispondente a un valore
dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) […] non
superiore a 25.000 euro annui» (art. 1, comma 125, della legge n. 190 del
2014).

L’importo, erogato mensilmente a decorrere dal mese
di nascita o adozione «fino al compimento del terzo anno di età ovvero del
terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell’adozione», è pari a
960 euro annui, importo raddoppiato quando il nucleo familiare del genitore che
lo richieda si trovi in una condizione economica corrispondente a un valore
dell’ISEE non superiore a 7.000 euro annui.

L’INPS provvede al controllo degli oneri che
derivano dall’attuazione delle previsioni della legge n. 190 del 2014 (art. 1,
comma 127, della medesima legge). Ove si verifichino o stiano per verificarsi
scostamenti rispetto alla previsione di spesa, un decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle
politiche sociali e con il Ministro della salute, dovrà rideterminare l’importo
annuo dell’assegno e i valori dell’ISEE stabiliti per accedere alla provvidenza
(il citato art. 1, comma 127, della legge n. 190 del 2014).

8.1.1.- L’art. 1, comma 248, della legge 27 dicembre
2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e
bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) ha accordato il beneficio anche
a «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018», pur
limitandone l’erogazione, dapprima di durata triennale, fino al compimento del
primo anno di età o del primo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito
dell’adozione.

8.1.2.- L’assegno di natalità è stato poi
riconosciuto – sempre fino al compimento del primo anno di età o del primo anno
di ingresso nella famiglia adottiva – a «ogni figlio nato o adottato dal 1°
gennaio 2019 al 31 dicembre 2019» (art. 23-quater, comma 1, del decreto-legge
23 ottobre 2018, n. 119, recante «Disposizioni urgenti in materia fiscale e
finanziaria», convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n.
136). L’importo dell’assegno è aumentato del venti per cento per ogni figlio
successivo al primo, nato o adottato dal 1° gennaio 2019 al 31 dicembre 2019.

8.1.3.- L’assegno di natalità è stato quindi riconosciuto
a beneficio di «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2020 al 31 dicembre
2020», sempre per il periodo di un anno a far data dalla nascita o
dall’ingresso nella famiglia di adozione (art. 1, comma 340, della legge 27
dicembre 2019, n. 160, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno
finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022»).

La prestazione, ispirata a un principio
universalistico, corrisponde a un ammontare graduato in proporzione al reddito
della famiglia e accresciuto, secondo una previsione già introdotta dal d.l. n.
119 del 2018, per ogni figlio successivo al primo.

8.1.4.- La disciplina dettata dalla legge n. 160 del
2019 è stata estesa, infine, a «ogni figlio nato o adottato dal 1° gennaio 2021
al 31 dicembre 2021» (art. 1, comma 362, della legge 30 dicembre 2020, n. 178,
recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e
bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023»).

8.1.5.- Le censure vertono sulla titolarità del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, rilasciato allo
straniero che documenti il «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di
soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non
inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e, nel caso di richiesta
relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati
nell’articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo» (art. 9, comma
1, del d.lgs. n. 286 del 1998). È richiesto, inoltre, il superamento di una
prova di conoscenza della lingua italiana (art. 9, comma 2-bis, del d.lgs. n.
286 del 1998).

8.2.- Alla titolarità del permesso di soggiorno UE
per soggiornanti di lungo periodo è condizionato anche il riconoscimento
dell’assegno di maternità, nella formulazione dell’art. 74 del d.lgs. n. 151
del 2001 applicabile ratione temporis alla fattispecie controversa.

L’assegno di maternità spetta alle donne che non
godono dell’indennità di maternità prevista per le lavoratrici dipendenti di
amministrazioni pubbliche o di privati datori di lavoro o socie lavoratrici di
cooperative (art. 22 del d.lgs. n. 151 del 2001), per le lavoratrici autonome e
per le imprenditrici agricole (art. 66 del d.lgs. n. 151 del 2001), oltre che
per le libere professioniste (art. 70 del d.lgs. n. 151 del 2001).

La prestazione in esame, legata al reddito del
nucleo familiare di appartenenza della donna (art. 74, comma 4, del d.lgs. n.
151 del 2001), è concessa dai Comuni e corrisposta dall’INPS (art. 74, comma 8,
del d.lgs. n. 151 del 2001).

9.- Le questioni sollevate investono anche il tema
della parità di trattamento per i cittadini dei Paesi terzi, definita dalla
richiamata direttiva 2011/98/UE, a sua volta strettamente connessa con l’art.
34 CDFUE.

Sui profili rilevanti per la soluzione dei dubbi di
legittimità costituzionale, questa Corte ha interpellato la Corte di giustizia
dell’Unione europea, in uno spirito di leale collaborazione, volto a
salvaguardare «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati
dal diritto dell’Unione» (art. 19 del Trattato sull’Unione europea, nella
versione consolidata successiva al Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre
2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009).

Nell’interpretare l’effettività della tutela
giurisdizionale in uno spirito di cooperazione, la Corte di Lussemburgo ha
puntualizzato che le questioni relative all’interpretazione del diritto
dell’Unione europea «godono di una presunzione di rilevanza» (citata sentenza 2
settembre 2021, causa C-350/20, O. D. e altri, punto 39). Una tale presunzione
si rafforza quando «il giudice del rinvio non è il giudice chiamato a
pronunciarsi direttamente sulle controversie principali, bensì un giudice
costituzionale a cui è stata rimessa una questione di puro diritto».

E questa Corte, nell’affrontare le questioni che le
sono sottoposte valutando sia le norme di diritto nazionale sia le norme del
diritto dell’Unione, nel caso di specie connesse con le disposizioni della
CDFUE, deve poi «fornire non solo al proprio giudice del rinvio, ma anche
all’insieme dei giudici italiani, una pronuncia dotata di effetti erga omnes,
vincolante tali giudici in ogni controversia pertinente di cui potranno essere
investiti» (punto 40).

9.1.- Nella ricostruzione del quadro normativo, la
citata direttiva 2011/98/UE riveste un ruolo cruciale. Essa persegue
l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che
soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva
di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di
«ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di
paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n.
19).

Ai cittadini di Paesi terzi che già «contribuiscono
all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte»
(considerando n. 19), la direttiva attribuisce «un insieme di diritti» e impone
agli Stati membri di salvaguardarli, nell’organizzare i rispettivi sistemi di
sicurezza sociale (considerando n. 26) nella maniera che essi reputano più
appropriata (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2020,
nella causa C-302/19, punto 23).

9.2.- In coerenza con tali finalità si devono
interpretare le prescrizioni che l’art. 12 della direttiva detta per «i
cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini
diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale,
ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di
soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1,
lettera b) e per «i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno
Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale»
(art. 3, paragrafo 1, lettera c).

A questi lavoratori l’art. 12, paragrafo 1, lettera
e), della direttiva riconosce «lo stesso trattamento riservato ai cittadini
dello Stato membro in cui soggiornano» per quel che concerne «i settori della
sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004».

La parità di trattamento non è dunque circoscritta
ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma è riconosciuta anche in favore
dei titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività
lavorativa che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante (Corte
di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 2 settembre 2021,
nella causa C-350/20, punto 49).

Il diritto alla parità di trattamento è riconosciuto
nei settori disciplinati dal regolamento (CE) n. 883/2004. Tale fonte si
applica – per quel che in questa sede rileva – alle «prestazioni di maternità e
di paternità assimilate» (art. 3, paragrafo 1, lettera b) e alle «prestazioni
familiari» (art. 3, paragrafo 1, lettera j), che l’art. 1, lettera z),
identifica in «tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a
compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni
alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati
nell’allegato I».

9.3.- Alla luce di tali premesse, la Corte di
giustizia ha esaminato l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, per
accertare se rientrino nell’ambito applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004
e del diritto alla parità di trattamento.

9.3.1.- Con riferimento all’assegno di natalità, essa
ha osservato, in primo luogo, che rappresenta una prestazione previdenziale. La
provvidenza in esame, difatti, è attribuita in base a criteri obiettivi,
attinenti al reddito e alla composizione del nucleo familiare e svincolati da
una valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali dei
beneficiari (citata sentenza 2 settembre 2021, nella causa C-350/20, punti 54,
55 e 56).

L’assegno di natalità, inoltre, deve essere
qualificato come prestazione familiare, nei termini tratteggiati dal regolamento
(CE) n. 883/2004. Pur nelle diverse configurazioni che ha assunto nel volgere
degli anni, la prestazione si atteggia come un contributo pubblico al bilancio
familiare, preordinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei
figli appena nati o adottati (punti 57 e 58), e non rientra nelle tassative
esclusioni menzionate nella parte II dell’allegato I al regolamento (CE) n.
883/2004, riguardanti gli assegni speciali di nascita e di adozione (punto 59).

Né tali caratteristiche sono contraddette dalla
concorrente natura premiale di incentivo alla natalità (punto 60).

9.3.2.- Anche l’assegno di maternità, concesso alle
madri che soddisfino taluni criteri definiti ex lege, a prescindere da ogni
valutazione individuale e discrezionale delle esigenze dell’interessata,
costituisce una prestazione previdenziale e attiene al settore della sicurezza
sociale e, in particolare, alle prestazioni di maternità di cui all’art. 3,
paragrafo 1, lettera b), del regolamento (CE) n. 883/2004.

9.4.- L’art. 12, paragrafo 2, lettera b), della
direttiva 2011/98/UE consente agli Stati membri di limitare la parità di
trattamento nei settori della sicurezza sociale, salvo che «per i lavoratori di
paesi terzi che svolgono o hanno svolto un’attività lavorativa per un periodo
minimo di sei mesi e sono registrati come disoccupati».

Quanto ai sussidi familiari, gli Stati membri
possono negare la parità di trattamento ai «cittadini di paesi terzi che sono
stati autorizzati a lavorare nel territorio di uno Stato membro per un periodo
non superiore a sei mesi, ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi a
scopo di studio o ai cittadini di paesi terzi cui è consentito lavorare in
forza di un visto».

9.4.1.- Nel sistema delineato dalla direttiva
2011/98/UE, il diritto alla parità di trattamento rappresenta la regola
generale, cui gli Stati membri possono apportare deroghe solo entro limiti
rigorosi. All’interpretazione restrittiva delle possibili deroghe fa riscontro
la necessità che gli Stati membri manifestino in modo inequivocabile la volontà
di limitare l’applicazione della parità di trattamento (Corte di giustizia
dell’Unione europea, sentenze 25 novembre 2020, nella causa C-302/19, Istituto
nazionale della previdenza sociale, punto 27, e 21 giugno 2017, nella causa C-449/16,
Kerly Del Rosario Martinez Silva, punto 29).

L’onere di dichiarazione espressa di eventuali
deroghe, nel corso dell’attività di trasposizione, emerge dal sistema
normativo, considerato nel suo insieme e nelle finalità che lo ispirano. Esso
si correla non soltanto alla salvaguardia dell’effetto utile della direttiva,
ma anche a una fruttuosa e trasparente fase di recepimento, che lo stesso
legislatore dell’Unione europea vuole contraddistinta dall’impegno degli Stati
membri a una costante interlocuzione con la Commissione e alla «notifica delle
loro misure di recepimento con uno o più documenti intesi a chiarire il
rapporto tra gli elementi di una direttiva e le parti corrispondenti degli
strumenti nazionali di recepimento» (considerando n. 32 della direttiva
2011/98/UE).

La Corte di giustizia dell’Unione europea, nella più
volte richiamata sentenza del 2 settembre 2021, ha ricordato che la Repubblica
italiana non si è avvalsa in alcun modo della facoltà di limitare la parità di
trattamento (punto 64).

10.- Questo è, nelle sue coordinate nazionali ed
europee, il quadro normativo in cui si collocano le questioni poste dal
rimettente.

Esse devono essere scrutinate alla luce della
«connessione inscindibile tra i princìpi e i diritti costituzionali evocati dalla
Corte di cassazione e quelli riconosciuti dalla CDFUE, arricchiti dal diritto
secondario, tra loro complementari e armonici» (ordinanza n. 182 del 2020,
punto 3.2. del Considerato in diritto).

Fra il divieto di discriminazioni arbitrarie e la
tutela della maternità e dell’infanzia (artt. 3 e 31 Cost.), da un lato, e le
indicazioni vincolanti del diritto dell’Unione europea in merito alla parità di
trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, dall’altro, intercorre «un rapporto
di mutua implicazione e di feconda integrazione» (ordinanza n. 182 del 2020,
punto 3.2. del Considerato in diritto).

Tale rapporto emerge in maniera nitida dagli stessi
parametri richiamati dalla Corte rimettente.

Nell’enunciare il diritto di accesso alle
prestazioni di sicurezza sociale, l’art. 34 CDFUE fa espresso richiamo alle
«legislazioni e prassi nazionali»; in questa prospettiva, non può non tenere
anche conto delle garanzie sancite dalle Costituzioni. D’altro canto, al
«costante evolvere dei precetti costituzionali» che si ricavano dagli artt. 3 e
31 Cost., il diritto dell’Unione europea offre un apporto che non può essere
trascurato (ordinanza n. 182 del 2020, il citato punto 3.2. del Considerato in
diritto), allo scopo di inverare – in contesti mutevoli e spesso inediti – il principio
di eguaglianza e la più ampia tutela della maternità e dell’infanzia.

In un quadro che vede interagire molteplici fonti, è
affidato a questa Corte il compito di assicurare una tutela sistemica, e non
frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la
Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una
prospettiva di massima espansione delle garanzie.

11.- Le questioni sollevate dalla Corte di
cassazione sono fondate, in riferimento agli artt. 3, 31 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE, così come concretizzato dal
diritto europeo secondario.

12.- La sentenza della grande sezione del 2
settembre 2021 ha accertato che non è compatibile con il diritto dell’Unione europea
e, in particolare, con il diritto alla parità di trattamento enunciato
dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, una
normativa nazionale che conceda l’assegno di natalità e l’assegno di maternità
ai soli titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo. Con riguardo alla fruizione delle prestazioni citate, il diritto
dell’Unione europea impone di riconoscere la parità di trattamento ai cittadini
di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a
norma del diritto dell’Unione o nazionale e ai cittadini di Paesi terzi che
sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa
a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che
sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n.
1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme
per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi.

12.1.- La restrizione dei benefici prevista dalle
disposizioni censurate contrasta dunque con l’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione al diritto europeo secondario e all’art. 34 CDFUE.

Tale ultima previsione, nel sancire il diritto
all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, mira a «garantire
un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse
sufficienti» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza
24 aprile 2012, nella causa C-571/10, Kamberaj).

Secondo l’art. 34, paragrafo 1, CDFUE, l’Unione
riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza
sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la
maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia,
oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite
dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e dalle prassi nazionali.

L’art. 34, paragrafo 2, CDFUE riconosce a ogni
persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione il diritto
alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, in conformità al
diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha
esaminato sia l’assegno di natalità sia l’assegno di maternità in una prospettiva
unitaria, per ricondurli entrambi dentro la sfera di protezione assicurata
dall’art. 34 CDFUE.

Essa ha affermato che il diritto alla parità di
trattamento nel settore della sicurezza sociale, definito nei suoi contenuti
essenziali dalla direttiva 2011/98/UE, «dà espressione concreta al diritto di
accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi
1 e 2, della Carta» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione,
sentenza 2 settembre 2021, punto 46).

13.- Il principio di parità di trattamento nel
settore della sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal
diritto derivato e poi ribaditi dalla Corte di giustizia dell’Unione europea,
si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 Cost. e ne avvalora e
illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una più ampia ed
efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi.

13.1.- La tutela dei valori primari della maternità
e dell’infanzia, tra loro inscindibilmente connessi (art. 31 Cost.), non
tollera distinzioni arbitrarie e irragionevoli.

Questa Corte è costante nell’affermare che spetta
alla discrezionalità del legislatore il compito di individuare i beneficiari
delle prestazioni sociali, tenendo conto del limite delle risorse disponibili.
Tale individuazione, nondimeno, è vincolata al rispetto del canone di
ragionevolezza. È dunque consentita l’introduzione di requisiti selettivi, a
patto che obbediscano a una causa normativa adeguata e siano sorretti da una
giustificazione razionale e trasparente (sentenza n. 222 del 2013, punto 7 del
Considerato in diritto).

Questa giustificazione deve essere indagata alla
luce delle caratteristiche della singola provvidenza e delle finalità che ne
condizionano il riconoscimento e ne delimitano la ratio (sentenza n. 172 del
2013, punto 3 del Considerato in diritto; di recente, in tema di edilizia
residenziale pubblica, sentenza n. 112 del 2021, punto 6 del Considerato in
diritto).

13.2.- L’assegno di natalità e l’assegno di
maternità sovvengono a una peculiare situazione di bisogno, che si riconnette
alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva.

La prima prestazione, originariamente concessa alle
famiglie meno abbienti, è graduata e varia notevolmente in proporzione al
reddito familiare anche nella modulazione universale introdotta dalla legge n.
160 del 2019 e confermata dalla legge n. 178 del 2020.

Quanto all’assegno di maternità, esso rappresenta
una tutela residuale, che opera nei soli casi in cui il nucleo familiare versi
in condizioni economiche precarie e la madre non possa reclamare l’indennità di
maternità in forza di uno specifico rapporto di lavoro.

Entrambe le provvidenze si prefiggono di concorrere
a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della
persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.), e, in particolare, rappresentano
attuazione dell’art. 31 Cost., che impegna la Repubblica ad agevolare con
misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e
l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose, e a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli
istituti necessari a tale scopo. Le prestazioni citate assicurano un nucleo di
garanzie e non possono essere equiparate alle provvidenze aggiuntive che
occasionalmente – e con diversi presupposti – sono state attribuite dalla
legislazione regionale già scrutinata da questa Corte (sentenza n. 141 del 2014).

Si deve inoltre rimarcare che le odierne misure di
sostegno al nucleo familiare e alla madre, indirizzate anche alla famiglia
adottiva, assolvono una finalità preminente di tutela del minore, che si
affianca alla tutela della madre, in armonia con il disegno costituzionale che
colloca in un orizzonte comune di speciale adeguata protezione, sia la madre,
sia il bambino (sentenza n. 205 del 2015, punto 4 del Considerato in diritto).

13.3.- Nel condizionare il riconoscimento
dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un
permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso
di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla
disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi
di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si
prefiggono di fronteggiare.

Nell’introdurre presupposti reddituali stringenti
per il riconoscimento di misure di sostegno alle famiglie più bisognose, le
disposizioni censurate istituiscono per i soli cittadini di Paesi terzi un
sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità
di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno
regolare e non episodico sul territorio della nazione.

Un siffatto criterio selettivo nega adeguata tutela
a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano
tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del
permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Un sistema così
congegnato pregiudica proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno
più pressante.

13.4.- Né sono proponibili nel caso di specie le
considerazioni svolte da questa Corte nella sentenza n. 50 del 2019 con
riguardo all’assegno sociale, peraltro escluso dall’ambito di applicazione
della direttiva 2011/98/UE e del correlato principio della parità di
trattamento. L’assegno sociale si colloca all’epilogo della carriera lavorativa
e rappresenta il corrispettivo per il contributo offerto al progresso della
comunità.

Tale caratteristica non si ravvisa nelle provvidenze
oggi all’esame di questa Corte. Esse presuppongono l’insorgere di una
situazione di bisogno, in una stagione della vita – quella della nascita di un
bambino o della sua accoglienza nella famiglia adottiva – che prescinde dal
contributo fornito al progresso della comunità.

13.5.- Gli elementi indicati confermano che un
criterio di attribuzione incentrato sulla titolarità del permesso per soggiornanti
UE di lungo periodo discrimina arbitrariamente sia le madri sia i nuovi nati e
non presenta alcuna ragionevole correlazione con la finalità che permea le
prestazioni in oggetto.

14.- Alla luce delle considerazioni svolte, si deve
dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, della legge
n. 190 del 2014, nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte
dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, e dell’art. 74 del d.lgs. n.
151 del 2001, nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3,
lettera a), della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla
concessione – rispettivamente – dell’assegno di natalità e dell’assegno di
maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini
lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi
terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma
del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono
in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n.
1030/2002.

15.- Restano assorbite le ulteriori censure
formulate dalla Corte rimettente, in riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione ad altre norme della CDFUE (artt. 20, 21, 24 e 33).

16.- Lo scrutinio di questa Corte – come si è già
rilevato nell’ordinanza n. 182 del 2020 – verte anche sulle proroghe
dell’assegno di natalità, da ultimo disposte fino al 31 dicembre 2021.

Difatti, anche le previsioni sopravvenute, pur nella
diversa modulazione del beneficio, lo subordinano alla titolarità del permesso
di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, che è all’origine delle
censure prospettate dalla Corte rimettente.

In applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, delle previsioni che hanno prorogato fino al 31 dicembre 2021
l’assegno di natalità, condizionandone l’erogazione al censurato requisito
della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo
periodo.

Tale declaratoria di illegittimità costituzionale in
via consequenziale investe, in particolare, l’art. 1, comma 248, della legge n.
205 del 2017, l’art. 23-quater, comma 1, del d.l. n. 119 del 2018, come
convertito, l’art. 1, comma 340, della legge n. 160 del 2019 e, infine, l’art.
1, comma 362, della legge n. 178 del 2020, nella formulazione antecedente
all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021.

17.- Non è fondata la richiesta che, in via gradata,
ha formulato la difesa statale, allo scopo di limitare pro futuro gli effetti
temporali della declaratoria di illegittimità costituzionale.

L’interveniente ha allegato in modo generico il
paventato pregiudizio agli equilibri di bilancio e non ha contestato gli
argomenti delle parti private in merito alla limitata incidenza della pronuncia
di accoglimento, che concerne una normativa superata dal richiamato ius
superveniens e un contenzioso in larga parte esaurito con l’immediato
riconoscimento delle prestazioni di sicurezza sociale agli stranieri.

 

P.Q.M.

 

Riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
1, comma 125, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di
stabilità 2015)», nella formulazione antecedente all’entrata in vigore
dell’art. 3, comma 4, della legge 23 dicembre 2021, n. 238 (Disposizioni per
l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione
europea – Legge europea 2019-2020), nella parte in cui esclude dalla
concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati
ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o
nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi
dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali
è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai
sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che
istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a
cittadini di Paesi terzi;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.
74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle
disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e
della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nel
testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3, lettera a), della
legge n. 238 del 2021, nella parte in cui esclude dalla concessione
dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi
nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini
di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a
norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che
sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n.
1030/2002;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale, in via
consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme
sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art.
1, comma 248, della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione
dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio
2018-2020), dell’art. 23-quater, comma 1, del decreto-legge 23 ottobre 2018, n.
119 (Disposizioni urgenti in materia fiscale e finanziaria), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 dicembre 2018, n. 136, dell’art. 1, comma 340,
della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), e
dell’art. 1, comma 362, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di
previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per
il triennio 2021-2023), nella formulazione antecedente all’entrata in vigore
dell’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono
dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono
stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o
nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi
dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali
è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai
sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002.

Giurisprudenza – CORTE COSTITUZIONALE – Sentenza 04 marzo 2022, n. 54
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