L’imposizione di un doppio turno di lavoro a tutta la platea dei dipendenti costituisce una discriminazione indiretta del datore di lavoro poiché penalizza in misura significativamente maggiore le lavoratrici madri con figli minori rispetto ai lavoratori non genitori o con figli autosufficienti.

Nota a Trib. Bologna decr. 31 dicembre 2021, n. 7559

Sonia Gioia

In materia di parità di trattamento sul luogo di lavoro, la scelta della società datrice di adottare un nuovo orario di lavoro organizzato su due turni, in sostituzione del turno unico precedente, per la generalità dei prestatori integra una discriminazione indiretta basata sul sesso, dal momento che tale regime orario risulta “effettivamente e concretamente” pregiudizievole per i genitori lavoratori e, in particolare, per le lavoratrici madri rispetto ai dipendenti senza figli o con figli autonomi ed autosufficienti, “rendendo estremamente difficoltosa”, se non  impossibile,  la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro ed “esponendo gli stessi figli minori a gravi disagi ed alterazioni dei ritmi e abitudini di vita, potenzialmente forieri di conseguenze sul loro benessere psico- fisico”.

È quanto stabilito dal Tribunale di Bologna, decr. 31 dicembre 2021, n. 7559 investito della questione, ai sensi dell’art.  37, co. 2 e 4, D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (c.d. Codice delle pari opportunità), dalla Consigliera di Pari Opportunità dell’ Emilia Romagna che lamentava una discriminazione indiretta operata nei confronti delle lavoratrici con figli minori da parte di un’impresa che, subentrata in un appalto di logistica, aveva imposto ai dipendenti già in forza presso l’azienda uscente un nuovo modello organizzativo basato su due turni (dalle ore 5:30 alle 13:30 e dalle 14:30 alle 22:30) in luogo del turno unico precedente (dalle ore 8:30 alle 17:30).

Al riguardo, il Tribunale ha osservato che si ha una discriminazione indiretta, vietata ai sensi dell’art. 25, co. 2, D.Lgs. n. 198 cit. (nella versione ratione temporis vigente, antecedente alle modifiche apportate dalla L. 5 novembre 2021, n. 162),  “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso”, salvo che tale diversità di trattamento sia giustificata da una finalità legittima e a condizione che i mezzi per il perseguimento di tale obiettivo siano appropriati e necessari.

In particolare, se nel caso di discriminazione diretta è la condotta tenuta che determina l’ingiustificata diversità di trattamento (art. 25, co.1, D.Lgs. n. 198 cit.), nell’ipotesi della discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un comportamento “che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, che costituiscono il fattore di rischio della discriminazione, determina invece una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona” a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 20204/2019; Cass. n. 6575/2016).

Quanto all’onere della prova, nei giudizi antidiscriminatori è prevista un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, che non è tenuto a fornire, seppur in via presuntiva, una piena prova del fatto, ai sensi dell’art. 2729 c.c.,  ma è sufficiente che alleghi elementi fattuali, anche di carattere statistico, da cui possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo, per far scattare l’onere per il datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della violazione del principio di parità di trattamento, ex art. 28, co.4, D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, e art. 19, Direttiva 2000/78/CE (v. Cass. n. 23338/2018, annotata in q. sito da A. LARDARO; Cass. n. 25543/2018; Cass. n. 14206/2013).

Nel caso di specie, secondo il giudice, il passaggio da un orario di lavoro su turno unico centrale – sostanzialmente coincidente con gli orari scolastici – ad un orario su doppio turno costituisce una disparità di trattamento, basata sul sesso, poiché impatta “molto più pesantemente sui lavoratori con figli minori e in particolare sulle lavoratrici madri, tradizionalmente impegnate nella cura della prole” rispetto agli altri dipendenti non genitori o con figli autonomi ed autosufficienti.

Tale diversità di trattamento è giustificata dal perseguimento, da parte dell’azienda, di finalità legittime,  dal momento che  la modifica del regime orario, che rientra nella libertà di impresa, costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 41 Cost., era stata introdotta per adattare l’organizzazione del lavoro ai nuovi e più ridotti spazi a disposizione per l’esecuzione delle attività appaltate e per garantire una più efficiente organizzazione del lavoro, incardinando le attività specifiche dell’appaltatrice in un flusso di processi più ampi e complementari svolti dalle altre società della filiera in regime di doppio turno.

Tuttavia, siffatta modifica, ad avviso del giudice, pur essendo idonea ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi soprarichiamati, eccede quanto strettamente necessario al loro perseguimento.

Ciò, non solo perché l’impresa non aveva dimostrato che le esigenze organizzative non potevano essere soddisfatte se non mediante l’imposizione del doppio turno di lavoro a tutti i dipendenti ma anche perché, dalle stesse allegazioni di parte datoriale, era emersa la possibilità di adibire un certo numero di lavoratrici al turno unico centrale, senza oneri aggiuntivi per l’azienda e senza che ciò potesse pregiudicare la funzionalità, nel suo complesso, della nuova organizzazione del magazzino basata sul doppio turno.

Peraltro, neppure gli accordi sindacali, che prevedevano la possibilità di assegnazione di lavoratori e lavoratrici al turno centrale o altro orario concordato in un’unica ipotesi, ossia solo in presenza di figli di età inferiore ad un anno, sono apparsi “realmente idonei ed efficaci” a mitigare le conseguenze pregiudizievoli del nuovo orario di lavoro, poiché stabilivano delle condizioni così stringenti per l’accesso al turno unico centrale da non consentire a nessuna lavoratrice madre di accedervi, vanificando, in sostanza, la deroga apparentemente concessa.

Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha ritenuto che l’imposizione del doppio turno di lavoro alla generalità dei dipendenti costituisce una discriminazione indiretta, in quanto la decisione aziendale, seppur legittima ed appropriata, non risulta strettamente necessaria al soddisfacimento delle esigenze imprenditoriali, con conseguente condanna della società a definire e attuare un piano di rimozione degli effetti pregiudizievoli del comportamento censurato nel rispetto dei seguenti criteri: assegnazione delle lavoratrici madri con figli di età inferiore ai 12 anni ad un turno centrale o altro orario concordato, a scorrimento e nei limiti della capienza massima dei locali aziendali, in forme comunque compatibili con la funzionalità aziendale e salvo il rispetto delle normative emergenziali anti- Covid di tempo in tempo vigenti.

Doppio turno di lavoro e discriminazioni di genere
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