Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 marzo 2022, n. 8788

Settore edile, Retribuzione virtuale prevista dall’art. 29,
L. n. 341/1995, Accertamento della violazione dell’obbligo contributivo,
Erogazione di retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali

 

Rilevato che

 

con verbale di accertamento ispettivo redatto il 30
dicembre 2005 nei confronti di C.M. s.r.I., l’Inps aveva contestato alla
medesima società: 1) il pagamento di retribuzioni inferiori al minimale
previsto dalla contrattazione di categoria; 2) il versamento dei contributi in
misura inferiore alla retribuzione virtuale prevista dall’art. 29 I. n.
341/1995 (Retribuzione minima imponibile nel settore edile); 3) l’omessa
presentazione del modello DM/10 relativo al mese di agosto 2002;

proposta opposizione dalla società, il Tribunale di
Salerno accolse la domanda solo nella parte riferita all’accertamento della
violazione dell’obbligo contributivo conseguente all’erogazione di retribuzioni
inferiori ai minimi contrattuali per periodi non individuati ed alle relative
sanzioni, ritenendola del tutto generica, mentre rigettò la domanda di
accertamento negativo relativa alla affermata violazione dell’art. 29 I. n. 341
del 1995, nonché il capo riferito all’omessa presentazione del modello DM/10 riguardante
il mese di agosto 2002;

il tribunale, rispondendo alla specifica questione
posta dall’opponente, precisava che il verbale non conteneva contestazioni
relative ai permessi fruiti ai sensi della I. n. 104/1992 dal dipendente D.R.
per cui il motivo d’opposizione non poteva trovare accoglimento; riteneva poi
fondato il capo dell’opposizione relativo alle sanzioni, che dovevano essere
quelle previste per l’omissione contributiva e non per l’evasione;

la Corte d’appello di Salerno, decidendo sull’appello
principale proposto da C.M. s.r.l. (riferito alla mancata valutazione del fatto
che la pretesa  contributiva era stata
correlata erroneamente ad assenze non retribuite e ad un contratto part time) e
sull’appello incidentale proposto dall’INPS, ha rigettato l’impugnazione
principale ed ha accolto quella incidentale ed, in riforma parziale della
sentenza di primo grado, ha rigettato l’opposizione proposta da C.M. srl
avverso il verbale di accertamento redatto il 30.12.2005;

avverso tale sentenza ricorre per cassazione C.M.
s.r.I., sulla base di cinque motivi:

l’Inps ha rilasciato procura speciale in calce alla
copia notificata del ricorso per cassazione;

 

Considerato che

 

con il primo motivo si deduce la violazione
dell’art. 112 c.p.c. (omessa pronuncia su motivo d’appello), in relazione
all’art. 360 n.5 c.p.c., in ragione del fatto che l’art. 29 d.l. n. 244 del
1995, in punto di retribuzione virtuale ai fini del minimale contributivo, non
fosse applicabile relativamente ai lavoratori D.R. (in regime di part time) e
M. (beneficiario di permessi ex I. 104/1992);

con il secondo motivo, si denuncia l’omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra
le parti (art. 360, primo comma n.5, c.p.c.), in ragione del fatto che la Corte
d’appello avrebbe comunque omesso di considerare il contenuto del verbale
ispettivo ed, in particolare, era stata omessa la valutazione della circostanza
che, mentre i due lavoratori figuravano nel prospetto contenuto alla pagina 2
del verbale citato con le rispettive peculiarità, il medesimo verbale dava atto
che il numero dei lavoratori in part time fosse pari a zero, e ciò nonostante
anche nell’atto d’appello tale discrasia fosse stata evidenziata;

con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione
dell’art. 9, comma 1 d.l.gs. n. 61 del 2000; dell’art. 29 d.l. n. 244 del 1995
conv. in I. 344/1995;

dell’art. 33 I. n. 104 del 1992; del d.l. n. 338 del
1989 conv. in I. n. 389 del 1989, in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c., in
quanto dalla omessa considerazione della peculiare posizione dei suddetti
dipendenti D.R. – che fruiva di un contratto part time a sedici ore settimanali
dal 23 ottobre 2003 e che, quindi, rientrava nella previsione previdenziale
dell’art. 9 d.lgs. n. 61 del 2000, come riconosciuto dall’Istituto con le
proprie circolari nn. 269 del 1995 e 6 del 2010 – e M. che aveva fruito dei
permessi previsti dalla legge n. 104 del 1992 ne conseguiva che per tali
periodi non poteva esservi inclusione nel computo dell’orario ordinario utile
al calcolo del minimale contributivo;

con il quarto motivo si deduce l’omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, primo comma n.5)
c.p.c., relativamente alla affermata genericità dell’accertamento ispettivo,
già rilevata dal primo giudice, ma negata dalla Corte d’appello che ha ritenuto
sufficiente la specificazione delle singole pretese (agganciata alle diverse
posizioni dei singoli lavoratori) emergente dai prospetti allegati al verbale.
La ricorrente lamenta la mera apparenza della motivazione in quanto i prospetti
non indicherebbero i singoli mesi della contribuzione evasa, ma, bensì,
l’entità della evasione annuale ad eccezione dei primi due modelli; con il
quinto motivo, si denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 29 d.l.
n. 244 del 1995, dell’art. 1 I. n. 338 del 1989, in relazione all’art. 360 n. 3
c.p.c. La ricorrente si duole del fatto che l’INPS non avrebbe mai esibito il
c.c.n.I utilizzato come parametro dell’inadempimento contributivo contestato e ciò
pur avendo la società affermato di aver sempre rispettato i minimi di paga;

il primo motivo, oltre che erroneamente qualificato
ai sensi dell’art. 360 c.p.c., trattandosi semmai di error in procedendo
previsto dal n. 4 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. e non del vizio di
motivazione cui al n. 5, è infondato perché la sentenza, come riconosce lo
stesso ricorrente, ha deciso sul motivo d’appello ma non nel senso suggerito
dalla parte; in particolare, la sentenza ha interpretato il verbale ispettivo
nel senso della esclusione dall’ambito delle contestazioni della posizione dei
due dipendenti e da ciò ha ritenuto non pertinenti le doglianze mosse
dall’appellante;

il secondo ed il terzo motivo, da trattare
congiuntamente in quanto connessi, sono fondati;

la ricorrente, nel rispetto degli oneri di
specificità ed allegazione richiesti dall’art. 366 c.p.c. quali condizioni di
ammissibilità del ricorso per cassazione, ha riportato in modo preciso (vd.
pagg. 14 e 17 del ricorso) i punti del proprio ricorso in appello ove aveva
sollevato le questioni, allegando al presente ricorso l’intero verbale
ispettivo cui le questioni si riferivano;

l’esame degli atti indicati conferma la mancata
considerazione, da parte della sentenza impugnata, del fatto che i lavoratori
D.R. e M., rispettivamente in regime di part time ed assente per permessi ex I.
104/1992, siano poi stati conteggiati come in regime ordinario di 40 ore
settimanali ai fini del calcolo della retribuzione virtuale;

ciò incide sulla complessiva determinazione dell’inadempimento
contributivo in ragione del fatto che questa Corte di legittimità ha affermato
che solo il superamento del numero di contratti part time, nell’ambito
dell’attività edilizia svolta dal datore di lavoro, impone la piena
applicazione della regola della retribuzione < virtuale> di cui all’art.
29 d.l. n. 244 del 1995 conv. in I. n. 34 del 1995 per i rapporti di lavoro
stipulati in eccedenza; ciò necessariamente postula la rilevanza dei contratti
part time esistenti nei limiti previsti (Cass. 8794 del 2020);

quanto poi alla fruizione dei permessi ex art. 33 I.
n. 104/1992 si tratta pacificamente di contribuzione figurativa, ai sensi
dell’art. 42 del d.lgs. n. 151 del 2001, di cui non si fa carico il datore di
lavoro;

da tali considerazioni discende che la sentenza
impugnata va cassata sul punto, essendo necessario procedere al concreto
accertamento, sulla base delle risultanze acquisite agli atti del processo,
della incidenza, sul complessivo credito contributivo fatto valere dall’INPS,
della posizione dei dipendenti D.R. e M.;

il quarto motivo è infondato;

la stessa ricorrente riconosce che, seppure in
parte, i modelli DM10 allegati al verbale ispettivo riferiscono dati mensili e
ciò rende reale e non apparente la motivazione, che al più potrebbe essere
ritenuta insufficiente pur dovendosi considerare che la Corte territoriale ha
esercitato una valutazione di merito sulle potenzialità contenutistiche degli
atti esaminati anche mediante l’utilizzo di una logica deduttiva non
adeguatamente criticata;

questa Corte di legittimità ha più volte affermato
(Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014; Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 22598 del
2018) che in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.,
disposta dall’art. 54 del dl. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n.
134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di
contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito
impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta
circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo
costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., individuabile
nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4,
c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della
motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”,
di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile
contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”,
al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per
omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di
discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione
della controversia;

il quinto motivo è inammissibile;

la parte lamenta la violazione di legge dell’intero
complesso normativo sopra indicato facendola derivare dalla affermata
circostanza dell’omessa allegazione nei gradi di merito, da parte dell’INPS,
del contratto collettivo nazionale di lavoro preso a parametro dell’individuazione
del minimale contributivo preteso;

la ricorrente, però, dimentica che, alla luce della
ricostruzione normativa dell’istituto del minimale contributivo (vd. Cass.
19284 del 2017), l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo
dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che
ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei
contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative
su base nazionale (cosiddetto minimale contributivo), secondo il riferimento ad
essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dall’art. 1
del d.l. n. 338 del 1989, convertito dalla I. n. 389 del 1989„ senza le
limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 Cost.
(cosiddetto minimo retributivo costituzionale), che sono rilevanti solo quando
a detti contratti si ricorre – con conseguente influenza sul distinto rapporto
di lavoro – ai fini della determinazione della giusta retribuzione; né è configurabile
la violazione dell’art. 39 Cost., alla stregua dei principi espressi con la
sentenza della Corte costituzionale n. 342 del 1992, per via dell’assunzione di
efficacia “erga omnes” dei contratti collettivi nazionali, essendo
l’estensione limitata – secondo la previsione della legge – alla parte
economica dei contratti soltanto in funzione di parametro contributivo minimale
comune, idoneo a realizzare le finalità del sistema previdenziale ed a
garantire una sostanziale parità dei datori di lavoro nel finanziamento del
sistema stesso;

dunque, il contenuto economico del c.c.n.l. assume
rilevanza di elemento normativo, richiamato dal precetto posto dall’art. 1
della I. n. 389 del 1989, con l’effetto che in questo senso la sentenza
impugnata richiama il detto c.c.n.l. ed i contenuti del verbale ispettivo che
allo stesso fanno riferimento; a fronte di ciò, la parte ricorrente avrebbe
dovuto esplicitare per quale ragione ritiene violate le disposizioni del
complesso normativo oggetto di denuncia;

tale onere di specificazione non è soddisfatto dalla
mera allegazione della mancata allegazione del c.c.n.I o da generiche deduzioni
di errore nei calcoli e da qui deriva l’inammissibilità del vizio di violazione
di legge formulato;

le SS.UU. n. 23745 del 2020, n. 18998 del 2021,
hanno infatti precisato che in tema di ricorso per cassazione, l’onere di
specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., impone
al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c.,
a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui
intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di
raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata,
che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste
ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte
il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che
trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si
pongono in contrasto con essa;

in definitiva, accolti il secondo ed il terzo
motivo, rigettati i restanti, la sentenza va cassata per quanto di ragione e la
causa va rinviata alla Corte d’appello di Salerno, in diversa composizione, per
l’accertamento sopra indicato, nonché per la regolazione delle spese del
giudizio di legittimità;

 

P.Q.M.

 

accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso,
rigetta i restanti motivi, cassa in parte qua la sentenza impugnata e rinvia
alla Corte d’appello di Salerno in diversa composizione, anche per le spese del
giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 marzo 2022, n. 8788
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