Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 31 marzo 2022, n. 10523

CORTE DI CASSAZIONE – Sez. lav.
– Sentenza 31 marzo 2022, n. 10523

Licenziamento collettivo, Violazione dell’applicazione dei
criteri di scelta, Comunicazione, Generico riferimento alle figure
professionali

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 3509 del 5.6.2019 la Corte
d’appello di Napoli, confermando la sentenza di primo grado, ha dichiarato
illegittimo il licenziamento collettivo intimato da Il N. di M. T. s.r.l., in
data 18.1.2017, a F. P., addetto al settore “contazione banconote”, ed ha
dichiarato risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti e condannato
la società al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità
dell’ultima retribuzione globale di fatto ex art. 18, comma 5, della legge n.
300 del 1970.

2. La Corte territoriale ha ritenuto che il
licenziamento – limitato al solo settore “contazione banconote” – risultava
affetto dalla violazione dell’applicazione dei criteri di scelta, in quanto,
nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991 diretta
al lavoratore, vi era un generico riferimento “alle figure professionali con
competenze complete e totalizzanti”, mera clausola di stile, che non rendeva
espliciti e comprensibili i punteggi concernenti le competenze
tecnico-professionali come attribuiti nella tabella allegata alla
comunicazione; rilevata la formazione del giudicato circa il regime
sanzionatorio applicato dal giudice di primo grado, respingeva il reclamo della
società proposto ex art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012.

3. Per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso la società sulla base di tre motivi; il lavoratore intimato ha
resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria.

4. Il Procuratore generale ha concluso per il
rigetto del ricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente
deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. violazione e
falsa applicazione degli artt. 4, comma 9, e 5, della legge n. 223 del 1991,
per errata valutazione, da parte della Corte territoriale, della indicazione
dei criteri di scelta, avendo ritenuto che la “griglia” generale dei lavoratori
da licenziare non corrispondesse alla concreta realtà aziendale e fosse
generica, senza indagine sulla posizione del P., sul suo inserimento in azienda
e sul concreto atteggiarsi della suddivisione del lavoro nella società; la
Corte territoriale ha dichiarato illegittimo il licenziamento solamente sulla
base del controllo “formale” della procedura, che invece è stata corretta e si
è conclusa con la sottoscrizione di un accordo con le sigle sindacali.

2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
dell’art. 2697 c.c. in riferimento agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991,
avendo, la Corte territoriale, respinto tutte le censure avanzate dal
lavoratore in ordine alla forma e alla tempistica della comunicazione, della
partecipazione sindacale e del coinvolgimento degli enti territoriali preposti
e non essendo emerso alcun concreto pregiudizio subito dal lavoratore, anche in
raffronto ai casi concernenti colleghi nella graduatoria.

3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per manifesta
illogicità della motivazione avendo, la Corte territoriale, ritenuto provato,
sulla scorta di prove immaginarie poiché mai assunte, il pregiudizio in danno
al lavoratore poiché i criteri di scelta sarebbero stati formulati ed applicati
in maniera erronea, vaga e non comparabile con la posizione degli altri
colleghi.

4. I motivi di ricorso, che possono essere esaminati
congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili. 4.1. In
disparte i pur decisivi profili di difetto di specificità (mancando la trascrizione
della comunicazione di cui alla legge. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9,
documento sul quale si fondano i rilievi, nonché della “griglia” dei lavoratori
addetti al settore ove è stata effettuata la riduzione del personale e,
inoltre, dei passaggi significativi degli atti difensivi del giudizio di merito
e della sentenza di primo grado al fine di valutare la rituale devoluzione
della questione alla Corte di Appello), la verifica della adeguatezza della
comunicazione inviata al lavoratore e alle parti sindacali, sotto il profilo
della specificità dei criteri di individuazione dei lavoratori da licenziare
nell’ambito della stessa unità produttiva, costituisce valutazione di merito
non censurabile in sede di legittimità, ove sia assistita, come nel caso di
specie, da motivazione esente dalle anomalie denunciabili ex art. 360, n. 5,
cod. proc. civ. nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 54
del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla
legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile nella specie ratione temporis (ex
plurimis Cass. n. 11254 del 2010; Cass. n. 11957 del 2015; Cass. n.25737 del
2018).

4.2. Infatti, il giudice di appello ha ritenuto la
inadeguatezza del criterio con cui è stato attribuito il punteggio (di peso
considerevole, ossia da 1 a 10, come sottolineato dalla sentenza impugnata) per
le competenze tecnico-professionali, in assenza di parametri concreti ai quali
ancorare la relativa verifica se non quello del generico riferimento “alle
figure professionali con competenze complete e totalizzanti”, genericità
aggravata dalla circostanza che si trattava di licenziamento che andava ad
incidere su lavoratori appartenenti allo stesso settore, settore che non è
stato eliminato ma solamente ridimensionato. Tale valutazione di genericità non
è inficiata dalle deduzioni della odierna ricorrente secondo la quale il grado
di precisione dei criteri di individuazione dei lavoratori da licenziare doveva
essere verificato non, come avvenuto, in astratto, bensì in concreto, sulla
base di elementi oggettivi e verificabili, e, nello specifico sulla base della
posizione occupata dal P.: invero, tale prospettazione è priva di fondamento
normativo ponendosi in insanabile contrasto con la garanzia, di natura
essenzialmente procedimentale, riconosciuta alla disciplina dettata dalla legge
n. 223 del 1991 cit., garanzia destinata ad operare su un duplice piano di
tutela – delle prerogative sindacali e delle garanzie individuali – assolvendo
alla funzione di porre le associazioni sindacali in condizioni di contrattare i
criteri di scelta dei lavoratori da sospendere ma altresì di assicurare al
lavoratore, potenzialmente interessato al licenziamento, la previa
individuazione dei criteri di scelta e la verificabilità dell’esercizio del
potere privato del datore di lavoro (Cass. n. 19618 del 2011; Cass. n. 15694
del 2009).

4.3. In coerenza con la disciplina e le finalità
della legge n. 223 del 1991 cit., la verifica del rispetto degli obblighi
procedurali non può che collocarsi logicamente e cronologicamente in un momento
antecedente a quello della concreta selezione dei lavoratori da sospendere e
della applicazione della rotazione e quanto ora osservato assorbe ogni rilievo
formulato dalla società in punto di necessità di verifica “in
concreto”, necessariamente successiva, del grado di precisione dei criteri
di individuazione dei lavoratori da licenziare.

4.4. La generica indicazione dei criteri dei
lavoratori da licenziare, in particolare del criterio relativo alle competenze
tecnico-professionali, impedendo ogni verifica di coerenza tra i detti criteri
e la concreta applicazione degli stessi, non offre alcun parametro comparativo
rispetto alla posizione di altri lavoratori, idoneo ad escludere la sussistenza
di ingiustificati trattamenti più favorevoli, come, invece, sostenuto dalla
società nel prospettare la necessità di un’indagine prognostica per la verifica
della sussistenza in concreto dell’interesse ad agire in relazione al
pregiudizio subito.

5. La violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile
per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto
nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una
parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione
delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e
non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia
svolto delle prove proposte dalle parti (cfr. Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n.
13395 del 2018; Cass. n. 18092 del 2020), mentre nella sentenza impugnata non è
in alcun modo ravvisabile un sovvertimento dell’onere probatorio, interamente
gravante sul datore di lavoro che ha l’onere di allegazione dei criteri di
scelta e di prova della loro piena applicazione nei confronti dei lavoratori
licenziati, non essendo ravvisabile alcun onere in capo al lavoratore ove il
datore di lavoro si sia limitato a comunicare dei criteri assolutamente vaghi,
inidonei a consentire al lavoratore di contestare le scelte operate e di comparare
la propria posizione con quella degli altri dipendenti che hanno conservato il
posto di lavoro (cfr. Cass. n. 27165 del 2009).

6. Infine, la valutazione della correttezza della
motivazione rientra nel diverso paradigma impugnatorio previsto nel n. 5, dell’art.
360 c.p.c. (come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b, del decreto-legge
22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto
2012, n. 134) a norma del quale è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il
vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014), profili non
denunciati né ricorrenti in questa sede.

7. In conclusione, il ricorso va dichiarato
inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato
dall’art. 91 cod.proc.civ.

8. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma
1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge
di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la
società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di
legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per
compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da
distrarre a favore del difensore antistatario. Ai sensi dell’art. 13, comma
1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1,
comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei
presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto
per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

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