La comunicazione del licenziamento collettivo deve essere contestuale, decorre dal primo licenziamento e non può essere parcellizzata.

Nota a Cass. (ord.) 5 aprile 2022, n. 11004

Paolo Pizzuti

In tema di licenziamento collettivo, il termine di 7 giorni, previsto dall’art. 4, 9° co., L. n.  223/1991, come modificato dalla L. n. 92/2012, per l’invio delle comunicazioni ai competenti uffici del lavoro ed alla Commissione regionale per l’impiego nonché alle organizzazione sindacali: a) decorre dalla comunicazione del primo licenziamento, come risulta dal tenore letterale della disposizione, che fa espresso riferimento alla “comunicazione” dei recessi e non già alla data di loro ricezione; b) è cogente e perentorio (al pari di come era stato interpretato il requisito della “contestualità” nel regime anteriore alla riforma del 2012).

Lo ribadisce la Corte di Cassazione (ord. 5 aprile 2022, n. 11004; conf. ad App. Palermo n. 290/2019; v. anche Cass. n. 25807/2019 e Cass. n. 29183/2018) sottolineando che:

– il carattere cogente e perentorio del termine comporta, in caso di violazione, l’invalidità del licenziamento, “a prescindere dalla circostanza che i lavoratori abbiano successivamente avuto conoscenza di tutti gli elementi che la comunicazione deve comunque avere ovvero che non sia stato dimostrato il danno derivante dalla mancata comunicazione; atteso che detta comunicazione è finalizzata a consentire alle organizzazioni sindacali (e, tramite queste, anche ai singoli lavoratori) il controllo tempestivo sulla correttezza procedimentale dell’operazione posta in essere dal datore di lavoro, anche al fine di acquisire ogni elemento di conoscenza e non comprimere lo spatium deliberandi riservato al lavoratore per l’impugnazione del recesso nel termine di decadenza di cui all’art. 6 I. 604/1966)”;

– la comunicazione de qua “per assolvere alla funzione cui è normativamente preordinata, non può essere parcellizzata in tante comunicazioni (ciascuna limitata ai lavoratori fino a quel momento licenziati ed effettuata entro sette giorni dai singoli licenziamenti) ma deve essere unica, così da esprimere l’assetto definitivo sull’elenco dei lavoratori da licenziare e sulle modalità di applicazione dei criteri di scelta” (v. Cass. n 23034/2018).

Nella fattispecie, la Corte territoriale, in parziale riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa sede, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato all’esito della procedura di mobilità messa in atto dal datore di lavoro e dichiarato risolto, a far data dal recesso, il rapporto di lavoro, condannando la società al pagamento di una indennità (c.d. forte) pari a 8 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Come noto, la tutela indennitaria “forte” senza reintegrazione (art. 3, co. 1, D.LGS. n. 23/2015, come mod. dall’ art. 3, co. 1, D.L. n. 87/2018, conv. dalla L. n. 96/2018) consiste nella risoluzione del rapporto di lavoro con pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria per l’appunto “forte” (non assoggettata a contribuzione previdenziale) di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità.

La Corte Costituzionale (8 novembre 2018, n. 194, in q. sito, con nota di P. PIZZUTI) ha dichiarato incostituzionale tale meccanismo di quantificazione del risarcimento, ancorato (unicamente) all’anzianità di servizio del prestatore licenziato ed ha stabilito che l’importo dell’indennità (comunque compreso tra 6 e 36 mensilità) dovrà essere quantificato dal giudice secondo parametri ulteriori all’anzianità lavorativa, quali: il numero di dipendenti occupati dall’impresa, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.

Licenziamento collettivo e comunicazione
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