Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2022, n. 20127

Rapporto di lavoro,Contratto di appalto, Infortunio del
lavoratore, Dispositivo di sicurezza non conforme al d.lgs n.81 del 2008 ed
alla UNI 1417/1997, Delitto di lesioni colpose, Posizione di garanzia,
Accertamento, Condotta esorbitante del lavoratore, Esclusione

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con sentenza del 10.12.2018 il Tribunale di
Firenze, in composizione monocratica, ha ritenuto C.A., nella sua qualità di
Presidente del C.d.A. della R. s.p.a., P.P., in qualità di consigliere delegato
alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori e S.L., in qualità di
responsabile della produzione, colpevoli del delitto di cui agli artt. 113 e
590, 1,2 e 3 comma cod.pen. e li ha condannati alla pena di mesi sei di
reclusione (A.) e mesi quattro di reclusione (P. e L.) oltre al risarcimento
dei danni in favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio
civile disponendo altresì una provvisionale immediatamente esecutiva.

Interposto gravame da parte degli imputati, la Corte
d’appello di Firenze con sentenza del 29.10.2020, in parziale riforma della
sentenza di primo grado, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche, equivalenti alle aggravanti contestate, ha rideterminato la pena in
giorni quaranta di reclusione per ciascun imputato, confermando per il resto la
sentenza impugnata.

Il procedimento trae origine dall’infortunio occorso
il 14.1.2014 a K.L., formalmente dipendente della società cooperativa STF ma di
fatto impiegato presso la R. s.p.a. in località Signa (in base ad un contratto
di appalto stipulato tra le due società con mansioni di facchinaggio e
stoccaggio) allorché, azionando una macchina con grossi cilindri accoppiati,
denominata masticatrice (macchina che serviva per formare lastre sottili di
para destinata alla produzione del mastice), rimaneva con la mano schiacciata
tra i due organi in movimento subendo in conseguenza l’amputazione del primo e
secondo dito della mano destra. Al lavoratore veniva riconosciuta una
invalidità del 21% ed una pensione di circa Euro 330,00 al mese.

Le sentenze di merito hanno fondato la condanna
degli odierni imputati sui seguenti elementi: 1) il K. aveva azionato il
macchinario avente un quadro comandi distante quattro metri arrestandolo con un
dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo per averlo imparato da
altri risultando impossibile che lo stesso lo avesse appreso casualmente per
averlo visto fare da aItri; 2) è impensabile una manovra abnorme in quanto non
si comprende per quale motivo il K. avrebbe dovuto mettere in moto la macchina
per inserirvi la para; 3)il macchinario era vecchio e non conforme alla
normativa vigente e si trovava all’esterno sotto una tettoia ed il quadro era
posto a circa quattro metri di distanza; 4) il dispositivo di sicurezza di cui
era dotato era una corda a strappo azionabile solo con un movimento volontario
inoltre al momento del controllo il cordino era allentato. Tale dispositivo non
era conforme alla disciplina del d.lgs n.81 del 2008 ed alla normativa UNI
1417/1997;6) in ordine alle posizioni soggettive A. era presidente del C.d.A.,
della R. s.p.a. con delega al compimento di tutti gli atti di ordinaria
amministrazione, che aveva sottoscritto sia il contratto di appalto con STF sia
il D.; P. era consigliere delegato alla prevenzione dei rischi sul lavoro; L.
era un impiegato dipendente ma di fatto svolgeva compiti direttivi della
produzione nello stabilimento dando istruzioni sul lavoro quotidiano da
svolgere.

2. Avverso la pronuncia d’appello proponevano due
separati ricorsi per cassazione gli imputati a mezzo dei loro difensori.

2.1 Ricorso nell’interesse di C.A.:

Lamenta il ricorrente: 1) “Art. 606 comma 1
lett. e cod.proc.pen.. Mancanza e manifesta illogicità della motivazione
risultante dal testo del provvedimento”. Deduce a riguardo che la sentenza
d’appello va censurata per mancanza di motivazione ravvisandosi un’acritica
adesione alla sentenza di primo grado senza esaminare le censure contenute
nell’atto di appello; inoltre la motivazione risulta anche manifestamente
illogica laddove si afferma che i motivi di appello posso dirsi già esaminati e
disattesi dagli argomenti spesi con la sentenza di primo grado.

2) “Sulla riferibilità soggettiva del reato
all’imputato A. Art. 606 comma 1, lett. b) cod.proc.pen.. Erronea applicazione
di legge penale ed extrapenale: violazione ex art. 590 cod.pen. e 2 d.lgs n.
81/2008. “Art. 606 comma 1, lett. e) cod.proc.pen.. Mancanza e manifesta
illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento”.
Deduce a riguardo che con specifico riferimento alla figura dell’A. nelle due
sentenze di merito vi è una totale carenza motivazionale in ordine al suo
contributo causale e partecipativo. Inoltre si evidenziano profili di manifesta
illogicità in quanto il contratto di appalto risale a tre anni prima
dell’infortunio e ha ad oggetto servizi di facchinaggio. Inoltre nessuna
censura viene mossa con riguardo alla delega conferita al P.”.

3) ”Sull’elemento soggettivo. Art. 606 comma 1,
lett. b) cod.proc.pen.. Erronea applicazione di legge penale: violazione ex
artt. 43 e 590 comma III cod.pen.; art. 606 comma 1, lett. e) cod.proc.pen..
Mancanza e manifesta illogicità della motivazione risultante dal
provvedimento”. Deduce a riguardo che nessuna delle due sentenze ed in
particolare quella di appello dà alcuna spiegazione della pretesa
consapevolezza dell’A. sull’utilizzo del macchinario.

2.2. Ricorso nell’interesse di P.P. e S.L.:

Lamentano i ricorrenti: 1) “Mancanza e
contraddittorietà e illogicità della motivazione anche sub specie di
travisamento della prova – in relazione alla ricostruzione della condotta
dell’infortunato come accertata in sede testimoniale dibattimentale e
conseguente inosservanza dell’art. 192, comma 1, c.p.p.”.

Deducono che la Corte d’appello di Firenze nella
sentenza oggetto di impugnazione omette qualsiasi sviluppo motivazionale circa
la inattendibilità dei testi sentiti nel corso del dibattimento. Inoltre la
Corte ha utilizzato il concetto di “impossibilità” riguardo
l’azionamento della macchina senza specificare quale sarebbe la difficoltà per
l’operatore derivante dalla distanza di quattro metri dal quadro elettrico
nonché con riguardo alla conoscenza indiretta del funzionamento della macchina.
Deducono inoltre che l’omissione motivazionale si concretizza nel travisamento
della prova.

2) “Carenza di motivazione in ordine alla
onerosità della pena inflitta ed alla contestuale violazione dell’art. 133
c.p.”. Deduce che seppure nel rispetto della discrezionalità del giudice
sussiste l’obbligo di motivare se si discosta dalla pena base mentre la Corte
ha omesso ogni valutazione circa la condotta tenuta dagli imputati L. e P..

3. Il Procuratore generale ha concluso per il
rigetto dei ricorsi.

 

Considerato in diritto

 

1. Osserva il Collegio che sussistono i presupposti
per poter rilevare, ai sensi dell’art. 129, comma 1, cod. proc. pen.,
l’intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, atteso che i
ricorsi in esame non presentano profili di inammissibilità, per la manifesta
infondatezza delle doglianze ovvero perché basati su censure non deducibili in
sede di legittimità, così da consentire la valida instaurazione di un rapporto
processuale.

Ciò premesso, il reato per cui si procede non è
prescritto atteso che in relazione alla data di commissione del fatto
(14.1.2014) e tenuto conto del termine massimo di prescrizione nonché delle
sospensioni verificatesi nel giudizio di primo grado (giorni 147) si giunge
alla data dell’8.12.2021. Tuttavia, deve tenersi conto anche del periodo di
sospensione verificatosi nel giudizio di appello poiché all’udienza del
18.6.2020 il processo è stato rinviato al 25.9.2020 per trattative finalizzate
al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile ed all’udienza del
25.9.2020 il processo è stato nuovamente rinviato per il perfezionamento
dell’accordo risarcitorio all’udienza del 29.10.2020 di talché in ragione di
tali ulteriori periodi di sospensione ( giorni 99 e giorni 34 ) il reato non è
prescritto.

1.1. Passando ora ad esaminare il primo ricorso, la
prima censura è infondata.

La sentenza impugnata va, infatti, considerata come
una “doppia conforme” della decisione di primo grado, cosicché ai
fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, le due sentenze
possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo
argomentativo. Secondo un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di
legittimità, ricorre la cd. “doppia conforme” quando – come nel caso
in esame – i giudici dell’appello, esaminando le censure proposte
dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando
frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza,
concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a
fondamento della decisione (Sez. 2, n. 37295 del 12/6/2019, E., Rv. 277218;
Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).

Deve, inoltre, essere ricordato che, nella
motivazione della sentenza, il giudice del gravame di merito non è tenuto a
compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere
in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo, invece,
sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in
modo logico e adeguato, le ragioni dei suo convincimento, dimostrando di aver
tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che, in tal caso, debbono
considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non
espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione
adottata (cfr., Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià, Rv. 254107).

Quanto al controllo sulla motivazione che l’art.
606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. demanda a questa Corte, va, inoltre,
rammentato che: a) la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della
motivazione, come vizi denunciabili in sede di legittimità, devono risultare di
spessore tale da essere percepibili ictu ocuti, dovendo il sindacato di
legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando
ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni
difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico
ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (Sez. U, n. 24
del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv.
216260; Sez. U, n, 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

L’indagine di legittimità sul discorso
giustificativo della decisione ha, dunque, un orizzonte circoscritto, dovendo
il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa
volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato
argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è
avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle
acquisizioni processuali (vedi in motivazione Sez. 6, n. 34532 del 22/6/2021,
Depretis, Rv. 281935).

1.2. I motivi secondo e terzo, da scrutinarsi
congiuntamente in quanto entrambi afferenti all’attribuibilità soggettiva del
fatto all’A., sono infondati.

Con riguardo alla posizione soggettiva dell’A., la
sentenza impugnata pone in rilievo la circostanza che lo stesso abbia firmato
il contratto di appalto con la STF nonché il D.

Valutando complessivamente le motivazioni delle
sentenze di merito, che costituiscono un unico apparato motivatorio, e
segnatamente esaminando la sentenza di primo grado, si ricava che la posizione
dell’A. è stata compiutamente analizzata delineandone il ruolo. In particolare
l’A., quale presidente del C.d.A. della R. s.p.a. con delega al compimento
degli atti di ordinaria amministrazione aveva sottoscritto il contratto di
appalto con la STF nonché il documento unico di valutazione dei rischi da
interferenza (D.) e quindi aveva messo a disposizione i lavoratori STF presso
la R. s.p.a., impiegati peraltro per mansioni diverse da quelle previste ed in
assenza dì coordinamento da parte di personale della STF.

Lo stesso inoltre avrebbe dovuto accertare se il D.
fosse rispondente ai rischi esistenti nella sede della R. s.p.a. tenuto conto
delle mansioni in concreto svolte e che in quanto delegato del Cd.A. per il compimento
di tutti gli atti di ordinaria amministrazione era certamente consapevole della
modalità illegale di attuazione dell’appalto.

La giurisprudenza di legittimità, invero, ha
chiarito che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al
principio di effettività, assume la posizione di garante colui il quale di
fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del
preposto (Sez. 4, n.22079 del 20.2.2019, Cava lari, Rv. 276265). L’art. 299 del
d.lgs. n. 81/2008 vale invero ad elevare a garante colui che di fatto assume e
svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto, mentre non
può essere invocato in funzione restrittiva degli obblighi che la normativa
prevenzionistica assegna ai soggetti regolarmente investiti di tali poteri. Il
principio di effettività di cui al citato art. 299 (che così recita: «Le
posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’art. 2, comma 1, lett.
b), d) ed e), gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare
investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei
soggetti ivi definiti») è stato dettato dal legislatore in chiave ampliativa
del novero dei soggetti gravati dalla posizione di garanzia, come reso evidente
dalla presenza dell’avverbio “altresì” in funzione qualificativa del
verbo “gravare”; si tratta, insomma, di una ipotesi alternativa di
tipicità della fattispecie incriminatrice, che certamente non vale ad escludere
da responsabilità il soggetto titolare dei relativi obblighi prevenzionistici.

La giurisprudenza di legittimità è costante
nell’interpretare l’art. 299, d.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione
dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli
infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì
sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla
carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Sez. 4, n.
10704 del 7 febbraio 2012, Corsi, Rv. 252676; Sez. 4, n. 18090 del 12 gennaio
2017, Amadessi ed altro, Rv. 269803). Secondo il diritto vivente, pertanto, la
disposizione in esame concretizzerebbe, dal punto di vista normativo, il
principio di effettività (Sez. 4, n. 22606 del 4 aprile 2017, Minguzzi, Rv.
269973; Sez. 4, n. 18200 del 7 gennaio 2016, Grosso ed altro, non massimata).

Con riguardo alla circostanza che il contratto di
appalto sottoscritto tra la R. s.p.a. e la STF fosse risalente a tre anni prima
e che avesse ad oggetto servizi di facchinaggio, si tratta di fatti
rispettivamente irrilevanti e non contestati nei gradi di merito.

La questione del contenuto della delega conferita al
P. è invece una questione nuova in quanto non dedotta nei motivi di appello e
come tale inammissibile.

2.2. Esaminando il secondo ricorso, il primo motivo
è infondato.

Con riguardo alla condotta della persona offesa, che
in base al contratto di appalto doveva essere adibita a mansioni di
facchinaggio o al più di pulizia dei macchinari, è stato oggetto di discussione
da parte delle difese degli imputati se la condotta del K. possa essere
ritenuta se non condotta abnorme quantomeno condotta esorbitante ovvero al dì
fuori dall’ambito delle proprie mansioni e delle disposizioni impartite nel
contesto lavorativo del momento. Secondo tale ultima tesi il K. nell’ambito
della propria attività di pulizia della macchina avrebbe imprevedibilmente
deciso di agevolare l’operazione mettendo in moto la stessa per far girare i
rulli contrapposti.

Ebbene, a fronte di tale prospettazione, che
all’evidenza richiama la giurisprudenza di legittimità in tema di condotta
esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, la sentenza d’appello
motiva in maniera succinta che “la versione fornita dagli altri dipendenti
non può essere ritenuta attendibile” concludendo quindi che lo stesso
sapeva già come usare la macchina per averlo appreso da altri. Si legge invero
nella sentenza di appello che gli altri lavoratori sentiti come testimoni
avevano escluso che il K. avesse mai utilizzato la macchina per lavoro mentre
il K. aveva dichiarato di aver già usato la macchina una decina di volte.

La sentenza d’appello, confermando le conclusioni
del giudice di primo grado, ha invero ritenuto con motivazione adeguata, scevra
da contraddizioni e da salti logici che il K. era stato di fatto adibito
all’utilizzo del macchinario e che proprio per le caratteristiche dello stesso
con un dispositivo di sicurezza dal funzionamento non intuitivo (un cordino
posto in alto non attivabile con movimento involontario) ed un quadro comandi
distante quattro metri non fosse possibile ipotizzare che si trattasse del
primo approccio al macchinario.

Non ricorre pertanto il denunciato vizio di
motivazione né tantomeno il travisamento della prova in relazione alla
ricostruzione della condotta dell’infortunato avendo la Corte dato conto
dell’iter logico seguito per giungere alle suesposte conclusioni nonché delle
prove acquisite.

Ed invero il vizio di travisamento della prova per
omissione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e)
ccd. proc. pen., è configurabile quando manchi la motivazione in ordine alla
valutazione di un elemento probatorio acquisito nel processo e potenzialmente
decisivo ai fini della decisione (Sez. 6, n. 8610 del 5/2/2020, Rv. 278457).

2.1. Il secondo motivo è del pari infondato.

Ed invero, la determinazione della pena tra il
minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di
merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media
e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia
limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali
sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.

In conclusione i ricorsi devono essere rigettati ed
i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2022, n. 20127
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