Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 maggio 2022, n. 17721

Licenziamento per giusta causa, Illegittimità, Requisito di
specificità della contestazione disciplinare, Insussistenza

Rilevato che

 

1. la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza
impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato illegittimo
il licenziamento per giusta causa intimato a C.B. dalla F.lli C. s.n.c. di C.G.
e C. in data 5.12.2016 ed ha ordinato alla stessa di riassumere il lavoratore
nel posto di lavoro ovvero, in alternativa, di corrispondergli, a titolo di
risarcimento del danno, una indennità pari a 4,5 mensilità della retribuzione
globale di fatto, oltre accessori;

2. la Corte ha esaminato preliminarmente il motivo
di gravame riguardante la denunciata genericità della contestazione
disciplinare ed ha argomentato che, “nel caso in esame, la lettera del
21/11/2016 difetta delle indicazioni necessarie ed essenziali per individuare,
nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati tenuto conto del loro
contesto, non essendo precisato l’arco temporale nel quale gli ammanchi si
sarebbero verificati, il loro numero, l’entità economica e, soprattutto, la
loro riconducibilità al lavoratore incolpato”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la soccombente con 2 motivi; ha resistito con controricorso la società;

parte ricorrente ha comunicato memoria;

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo del ricorso si denuncia la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 434 cpc, nella parte in cui è stato
ritenuto ammissibile l’appello formulato dal sig. B. in punto di genericità
della contestazione disciplinare nonostante nell’atto di gravame – secondo
l’assunto di chi ricorre – non fosse stata svolta alcuna critica alla
motivazione della sentenza di primo grado riguardo a tale aspetto;

la censura è inammissibile in quanto nel motivo non
vengono riportati i contenuti della sentenza impugnata e del relativo appello,
quanto meno nelle parti degli atti processuali ritenuti rilevanti, violando il
principio di autonomia e di specificità del ricorso per cassazione;

come le Sezioni unite insegnano (n. 8077 del 2012)
neanche nell’ipotesi di errores in procedendo «viene meno l’onere per la parte
di rispettare il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un
corollario del requisito della specificità dei motivi d’impugnazione, ora
tradotto nelle più definite e puntuali disposizioni contenute negli artt. 366,
comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c.; sicché l’esame diretto degli atti
che la corte è chiamata a compiere è pur sempre circoscritto a quegli atti ed a
quei documenti che la parte abbia specificamente indicato ed allegato»; più di
recente si è ribadito, sempre nella composizione più autorevole della Corte,
che «allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del
fatto ed ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa; tuttavia è
necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e
caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e,
quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il
principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni e i riferimenti
necessari ad individuare la dedotta violazione processuale. Infatti, il
poteredovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non
significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece,
alla parte indicarli» (Cass. SS.UU. n. 5640 del 2019); così è stato
diffusamente argomentato che, pure in tali casi, si prospetta preliminare ad
ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione
ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che solo quando sia stata
accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la
fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di
quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere
direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali (Cass. n.
18 del 2015; Cass. n. 18037 del 2014, con la giurisprudenza ivi citata);
precisamente l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di
merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in
procedendo, presuppone che la parte, nel rispetto del principio di
autosufficienza, riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti
atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio
processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali
verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale
(Cass. n. 19410 del 2015; Cass. n. 11738 del 2016; Cass. n. 23834 del 2019);
tali principi sono stati ribaditi anche per le censure che riguardino i motivi
di appello (Cass. n. 86 del 2012; Cass. n. 12664 del 2012; Cass. n. 20924 del
2019; Cass. n. 29495 del 2020);

peraltro, le Sezioni unite civili (Cass. SS.UU. n.
27199 del 2017) hanno considerato, in relazione agli artt. 342 e 434 c.p.c.,
nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134
del 2012, come, per superare il vaglio di ammissibilità dell’appello, non
“occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un
progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”,
risultando sufficiente che l’impugnazione contenga “una chiara individuazione
delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi,
delle relative doglianze”; si è, in particolare, ribadito che “la riforma del
2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l’appello in un mezzo di
impugnazione a critica vincolata […] l’appello è rimasto una revisio prioris
instantiae; e i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad
esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso
svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l’appello in
una sorta di anticipato ricorso per cassazione”; secondo il Supremo Collegio
“la diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente
ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa
del 2012 la quale, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre
all’inammissibilità dell’appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e
348-ter cod. proc. civ.), ha nel contempo ristretto le maglie dell’accesso al
ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che impone di seguire
un’interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire
un’ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello
di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste”; tanto in
coerenza con la “regola generale” secondo cui “le norme processuali devono
essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga
ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo
costituiscono un’ipotesi residuale” (tra le successive conf. v. Cass. n. 13535
del 2018; Cass. n. 7675 del 2019);

2. con il secondo motivo si denuncia la violazione e
la falsa applicazione dell’art. 7 l. n. 300 del 1970 nonché l’omesso esame di
un fatto decisivo; si sostiene che la contestazione disciplinare formulata
dalla società aveva certamente le caratteristiche prescritte dalla disposizione
statutaria richiamata ed era tale da permettere al lavoratore di approntare
un’adeguata difesa; inoltre la Corte territoriale avrebbe completamente omesso
di valutare che al lavoratore non era stata contestata una condotta puntuale,
per la quale avrebbe avuto senso una migliore contestualizzazione
spazio-temporale, ma un inadempimento diffuso e ripetuto dell’obbligo di
diligenza sotteso al rapporto di lavoro consistito nel non aver correttamente
contabilizzato le riscossioni relative ai servizi di revisione;

la censura è inammissibile;

infatti, formalmente lamenta un error in iudicando
ma nella sostanza propone una diversa valutazione di merito in ordine al grado
di specificità della contestazione dell’addebito disciplinare; premesso che la
previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili
come disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e
deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato
quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare,
nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia
ravvisato infrazioni disciplinari, va ribadito che l’accertamento relativo al
requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di
un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità (cfr. tra le tante:
Cass. n. 1562 del 2003; Cass. n. 10154 del 2017; Cass. n. 9590 del 2018);

3. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228
del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per
il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte
ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro
200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%. Ai
sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel
testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228,
dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da
parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13.

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