Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 giugno 2022, n. 19623

Esposizione all’amianto, Risarcimento del danno biologico,
morale ed esistenziale, Sussistenza, Determinazione del quantum

 

Rilevato che

 

Con la sentenza n. 107/2017, il Tribunale di Massa,
in parziale accoglimento del ricorso riassunto da M.G., C.B. e L.B., quali
eredi di L.B, nei confronti della S.p.a. N.P. – alle cui dipendenze il loro
dante causa aveva prestato la propria attività lavorativa dal 24.7.1959 al
30.6.1990, con mansioni di saldatore -, diretto ad ottenere il risarcimento del
danno biologico, morale ed esistenziale subito dal congiunto in seguito
all’esposizione all’amianto, condannava la società al risarcimento dei danni
non patrimoniali;

la Corte di Appello di Genova, con sentenza
pubblicata il 30.11.2017, rigettava il gravame interposto, avverso la pronunzia
di primo grado, dalle eredi di L.B, sottolineando, tra l’altro, che non può
condividersi «quanto sostenuto dalle appellanti» circa il fatto che «il CTU non
abbia applicato i criteri di Helsinki relativi alla c.d. esposizione cumulativa
ad amianto, i quali prevedono un raddoppio del rischio nel caso di superamento
della dose di 25 ff/cc.>>; che «tali criteri si riferiscono all’ipotesi
in cui l’esposizione ad amianto non concorra con altri agenti cancerogeni»; che
«nel caso in questione, purtroppo, bisogna fare i conti con un altro importante
fattore di rischio del carcinoma polmonare cui il B., in vita, è stato esposto:
risulta infatti dalla documentazione medica in atti (cartelle mediche dei
ricoveri) che costui abbia fumato ca 15-20 sigarette al giorno sino ad un’epoca
collocabile tra il 2001 ed il 2003»,

per la cassazione della sentenza C.B. e L.B. hanno
proposto ricorso articolando due motivi;

la N.P. S.p.A. ha resistito con controricorso;

il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

Con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
degli artt. 1227, 2059
c.c., per errata determinazione del quantum del danno biologico rispetto a
quanto riconosciuto in sentenza; 2087 e 2697 c.c., per avere la Corte di Appello omesso di
considerare che la rilevanza causale dell’esposizione all’amianto provata e
documentata abbia rilevanza pari ed equivalente all’esposizione al fumo del
ricorrente; nonché violazione degli artt. 116 c.p.c.e 41 c.p.,
in ordine alla valutazione degli esiti della c.t.u.; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione
o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 32 Cost.; 2043, 2059, 2087, 2727 e ss. c.c.; 5 del d.P.R. n. 27 del 2009, per
avere la Corte di Appello negato il diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale vantato dalle ricorrenti, nella specie escludendo la sussistenza
del danno morale e/o esistenziale (lesione di interessi costituzionalmente
garantiti), ritenendo non applicabile il ricorso alle presunzioni, anche
semplici; e ciò, senza considerare che «a mente della sentenza 24217/17 della sezione lavoro della
Cassazione, il danno da paura di ammalarsi può essere provato attraverso le
presunzioni e deve essere risarcito»; le ricorrenti lamentano, inoltre, che la
sentenza impugnata non tenga conto delle deduzioni ed allegazioni di cui al
ricorso di primo grado – in cui «il ricorrente ha allegato che: il fatto di
sapere di essere stato esposto per tutta la durata del rapporto di lavoro ad
agenti morbigeni; di venire a conoscenza che moltissimi colleghi di lavoro
hanno contratto gravi patologie, e molti sono deceduti, ha generato nel
ricorrente l’incertezza del proprio vivere, modificando in peius la propria
vita quotidiana, mettendo in primo piano la necessità di doversi sottoporre a
molti esami clinici e controlli medici, con la conseguenza di un continuo
ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi morire»;

il primo motivo – che solo apparentemente censura
una violazione di legge, ma tende, nella sostanza, ad ottenere una nuova
valutazione del merito, non consentita in questa sede – non è fondato, poiché,
come correttamente sottolineato dai giudici di seconda istanza, nella fattispecie
sussiste un «concorso di cause di lesione, cagionante un evento patologico
unitario ed indivisibile, in presenza del quale non può che essere applicato il
principio di equivalenza delle concause ex artt. 40
e 41 c.p.», non essendo possibile effettuare una ripartizione causale tra i
due fattori cancerogeni, «entrambi egualmente responsabili della causazione
dell’evento dannoso». Pertanto, applicando il principio di equivalenza delle
concause, la responsabilità del datore di lavoro «che non ha usato adeguate
precauzioni idonee a contenere l’esposizione all’amianto entro limiti non
pericolosi, e quella del tabagismo nella causazione dell’evento sono
equivalenti, senza alcuna prevalenza dell’una sull’altra»;

dunque, correttamente, la Corte di merito afferma
che «la ripartizione tra i due fattori di rischio non riguarda la
responsabilità nella causazione del danno, ma l’entità del risarcimento del
danno», che, nel caso di specie, è stata ridotta, per quanto innanzi
esplicitato, rispetto alla richiesta delle ricorrenti;

quanto alle censure che investono la «valutazione
degli esiti della c.t.u.», vanno ribaditi gli ormai consolidati arresti
giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da
questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed a cui, ai sensi
dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso
richiamo (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 18358/2017; 3881/2006; 3519/2001) -,
alla stregua dei quali, ove il giudice di merito «condivida i risultati della
consulenza tecnica di ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le
ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle
risultanze» della stessa «implica valutazione ed esame delle contrarie
deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente,
delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione
adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità»; peraltro, nella
fattispecie, la Corte di merito ha fornito ampie argomentazioni circa
l’adesione alle conclusioni del C.t.u., non confutate efficacemente dal primo
mezzo di impugnazione;

infine, alla stregua della costante giurisprudenza
di legittimità (cfr., per tutti, Cass., SS.UU., 15486/2017), «La violazione
degli artt. 115 e 116 c.p.c. può essere dedotta
come vizio di legittimità solo lamentando che il giudice ha dichiarato
espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha
giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua
iniziativa fuori dai poteri officiosi riconosciutigli. A tanto va aggiunto che,
in linea di principio, la violazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei
limiti del vizio di motivazione di cui all’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. (tra le varie, Cass. n. 24434/2016), dovendosi
peraltro ribadire che, in relazione al nuovo testo di questa norma, qualora il
giudice abbia preso in considerazione il fatto storico rilevante, l’omesso
esame di elementi probatori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di
un fatto decisivo (Cass., SS.UU. n. 8053/2014)»;

il secondo motivo è fondato; al riguardo, va
premesso che le SS.UU. di questa Corte (sent. n.
6572/2006) hanno sottolineato che, in caso di violazione dell’art. 2087 c.c., il risarcimento del danno non
patrimoniale, nella cui sfera deve essere ricondotto il danno morale, data la
natura unitaria del primo, «è dovuto soltanto qualora sia fornita la prova
della sussistenza del pregiudizio, che può essere offerta anche tramite
presunzioni»; ed inoltre che (Cass., SS.UU. n.
26972/2008) «l’art. 2059 c.c. opera
esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non
patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge (illecito astrattamente
configurabile come reato; illecito non qualificabile come reato, ma che per
espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale;
illecito che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela
costituzionale), lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva
dell’illecito ex art. 2043 c.c.: la condotta
illecita, l’ingiusta lesione degli interessi tutelati dall’ordinamento, il
nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto
pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso»;

pertanto, il danno non patrimoniale, quale
«dannoconseguenza», va allegato e provato ai fini risarcitori – in quanto non
può essere considerato in re ipsa -, ma ciò può avvenire anche mediante
presunzioni (v., ex plurimis, Cass. nn. 33123/2021; 7471/2012;
13614/2011; 20987/2007), poiché, «costituendo il danno morale un paterna
d’animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è
accertabile con metodi scientifici e, dall’altra, come per tutti i moti
d’animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo
diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni
che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua
configurabilità» (v., tra le altre, Cass. nn. 8546/2008; 13754/2006;
11001/2003);

nella fattispecie, per quanto doviziosamente
specificato nel ricorso, sono state allegate le basi del ragionamento
inferenziale per pervenire, attraverso il ricorso alle presunzioni, alla
configurazione del danno morale personalizzato, costituito dall’offesa della
personalità morale del lavoratore, sottoposto quotidianamente a pericolo per la
propria incolumità, da cui, all’evidenza, è derivata una patente lesione –
autonoma rispetto al danno biologico – di diritti inviolabili della persona,
oggetto di tutela costituzionale (v., in particolare, artt. 2, 3 e 32 Cost.).
Al proposito, va altresì osservato che, con la sentenza n. 2611/2017, le
Sezioni Unite hanno ulteriormente chiarito che «il danno derivante dallo
sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente
dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla
lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera
e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di
diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo», sottolineando, ancora, che «la prova del pregiudizio
subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di
comune esperienza, perché la dimostrazione del pregiudizio può essere ricavata
anche dall’esame della natura e dall’entità delle immissioni a cui è sottoposto
il danneggiato»;

nel caso di specie, i giudici di appello non hanno
fatto corretta applicazione dei menzionati principi di diritto, anche in
considerazione del fatto che, nell’atto introduttivo del giudizio,
espressamente richiamato nel ricorso di legittimità, erano stati allegati (v.,
pure, quanto specificato nel secondo motivo, sopra riportato) gli elementi da
utilizzare ai fini della prova presuntiva della sofferenza morale;

dunque, per tutte le considerazioni innanzi svolte,
la sentenza va cassata, in relazione al secondo motivo di ricorso – rigettato
il primo -, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Genova, in diversa
composizione, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito, ai principi
innanzi affermati, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese del
giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 385,
terzo comma, c.p.c.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo di ricorso; rigettato il
primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla
Corte di Appello di Genova, in diversa composizione, anche per la
determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 17 giugno 2022, n. 19623
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