L’ente che, nonostante l’adozione di un modello organizzativo, utilizzi sistemi di controllo inidonei alla prevenzione dell’infortunio è responsabile ex art. 25-septies, co. 3, D.Lgs. n. 231 del 2001. Il requisito della commissione del reato nell’interesse dell’ente non richiede una sistematica violazione di norme antinfortunistiche ed è ravvisabile anche in relazione a trasgressioni isolate se altre evidenze fattuali dimostrano il collegamento finalistico tra la violazione e l’interesse dell’ente.

Nota a Cass. 15 settembre 2022, n. 33976

Alfonso Tagliamonte

In caso di infortunio sul lavoro dovuto al malfunzionamento della struttura organizzativa dell’ente, la quale dovrebbe essere volta – mediante adeguati modelli – a prevenire la commissione di reati, l’azienda risponde non per un fatto altrui “bensì per un fatto proprio e colpevole, la cui responsabilità è stata definita come una vera e propria responsabilità da colpa di organizzazione” (art. 25-septies, co. 3, D.Lgs. n. 231/2001, relativo alla responsabilità amministrativa da reato).

Questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (15 settembre 2022, n. 33976, conforme a Cass. SU. n. 38343/2014), la quale precisa che:

– nella fattispecie, la condotta di cui al reato posta in essere dall’azienda è consistita nel trarre un duplice vantaggio: 1) dal risparmio di spesa per il mancato esborso necessario alla messa in sicurezza dello strumento che ha causato l’infortunio, con oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quella della tutela dei lavoratori quale conseguenza delle cautele omesse; 2) “dall’adozione di una politica antinfortunistica carente: riducendo i costi per l’elaborazione di un modello organizzativo adeguato, risparmiando sugli oneri di consulenza, su quelli connessi ai necessari interventi strutturali e su quelli connessi all’attività di formazione, controllo e informazione del personale”;

– in tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione si fonda sulla mancata adozione delle “cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individui i rischi e delinei le misure atte a contrastarli” (Cass. S.U. n. 38343/2014, cit. e Cass. n. 23401/2021);

– in particolare, la giurisprudenza ha fatto riferimento, a titolo esemplificativo: al risparmio di materiale e di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; al vantaggio economico conseguente alla velocizzazione degli interventi di manutenzione, all’incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale (Cass. n. 43656/2019; n. 31210/2016 e n. 31003/2015), al risparmio sui costi di consulenza sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale (Cass. n. 18073/2015);

– con riguardo ai criteri d’imputazione soggettiva della citata responsabilità, laddove si dimostri il collegamento finalistico tra la violazione, l’interesse dell’ente può assumere rilievo anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un’iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche (Cass. nn. 22256/2021 e 29584/2020). Ciò, poiché l’art. 25-septies, D.Lgs. n. 231/2001 “non richiede la natura sistematica delle violazioni della normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell’ente derivante dai reati colposi ivi contemplati”… Sarebbe quindi eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari, considerato peraltro l’innegabile quoziente di genericità del concetto di sistematicità” (v. anche Cass. n.13218/2022).

Infortunio sul lavoro e colpa di organizzazione
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