Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 novembre 2022, n. 33005

Rapporto di lavoro, Collocazione in CIGS, Genericità dei
criteri di scelta, Illegittimità, Risarcimento del danno

Rilevato che

 

con la sentenza impugnata è stata confermata la pronuncia
del Tribunale di Bari con la quale la “N. S.p.A.” é stata condannata
a risarcire i danni patiti da G.C. in misura pari alla differenza tra la
retribuzione spettante nel periodo dal 14 luglio 2008 fino al 4 maggio 2014 ed
il trattamento di integrazione salariale percepito, attesa la illegittimità
della sospensione e contestuale collocazione in CIGS del lavoratore;

per la cassazione della decisione ha proposto
ricorso la “N. S.p.A.”, affidato a undici motivi;

G.C. ha resistito con controricorso; entrambe le
parti hanno depositato memoria;

il P.G. non ha formulato richieste.

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente – denunciando
nullità della sentenza per omessa pronuncia in ordine alla eccepita violazione
da parte del giudice di prime cure del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., nonché mancanza della esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ex art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
– si duole che il giudice di appello non si sia pronunciato sul motivo di
gravame incentrato sul rilievo che la sentenza di primo grado fosse entrata nel
merito della legittimità dei criteri di cui all’accordo del 10 ottobre 2013
(nonché della relativa proroga) benché nel ricorso introduttivo non vi fosse
nessuna specifica censura sulla correttezza/legittimità di detti criteri, in
relazione alla posizione soggettiva del lavoratore;

con il secondo motivo – denunciando violazione e
falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– lamenta che la predetta Corte abbia ritenuto non assoggettati al termine di
prescrizione quinquennale il credito del lavoratore e l’azione di annullamento
dell’atto di gestione del rapporto;

con il terzo motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che
il giudice del gravame abbia omesso di considerare che l’inerzia del lavoratore
– tradottasi nella mancata assunzione di alcuna iniziativa

volta a contestare i provvedimenti datoriali e/o a
rivendicare ipotetiche differenze retributive – nei circa sei anni di
collocazione in CIGS aveva determinato la perdita del diritto;

con il quarto motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1219, primo comma, c.c.,
in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– si duole che la Corte territoriale    abbia
ritenuto insussistente l’obbligo, per il lavoratore, di costituire in mora il
datore di lavoro, mediante una intimazione o richiesta fatta per iscritto;

con il quinto motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente in ordine alle argomentazioni esposte dalla
Corte territoriale quanto alla illegittimità della CIGS, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che
la predetta Corte, dopo aver dato atto del passaggio in giudicato dei capi di
sentenza di primo grado relativi alle richieste correlate agli accordi
antecedenti a quello del 10 ottobre 2013 per mancanza di impugnativa sul punto,
abbia erroneamente assimilato quest’ultimo accordo a quelli precedenti, da un
lato obliterando la circostanza che l’accordo in questione prevedeva, a
differenza degli altri, i criteri di scelta dell’anzianità di servizio, dei
carichi di famiglia e delle esigenze tecnico organizzative e produttive ai fini
dell’individuazione dei lavoratori da collocare in CIGS, nonché, dall’altro,
omesso di valutare che il citato accordo, sempre a differenza degli altri, non
prevedeva un meccanismo di rotazione;

con il sesto motivo – denunciando violazione o falsa
applicazione dell’art. 1, comma
7, della I. n. 223 del 1991, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice di appello, nella
parte in cui ha affermato che «le parti contrattuali si sono limitate a
richiamare i criteri di scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella
procedura di licenziamento collettivo di cui all’art. 5 della legge 223.1991»,
abbia omesso di considerare che la legge non prevede alcun tipo di sanzione
nell’ipotesi di mancata indicazione dei criteri dell’accordo, peraltro non
obbligatorio, attenendo la genericità alla comunicazione, però dal lavoratore
mai dedotta; lamenta, poi, che il predetto giudice, nella parte in cui ha
affermato che «le parti contrattuali si sono limitate a richiamare i criteri di
scelta dei lavoratori in esubero da licenziare nella procedura di licenziamento
collettivo di cui all’art. 5
della legge 223.1991», abbia omesso di considerare, da un lato, che la
legge non prevede che in sede di accordo debbano essere indicate le concrete
modalità applicative dei criteri di scelta e, dall’altro, che la genericità dei
criteri deve ritenersi esclusa ove siano richiamati i parametri individuati
direttamente dal legislatore (che ha evidentemente ritenuto gli stessi
specifici), con la conseguenza che, nel caso – attesa l’assenza di una diversa
disposizione dell’accordo -, i criteri in questione dovevano essere applicati
in maniera concorrente (incidenza di 1/3 per ogni criterio); evidenzia, infine,
la legittimità delle proroghe della Cassa Integrazione per riorganizzazione
aziendale ricomprese fra il 16.10.2013 ed il 15.10.2014 nonché tra il
16.10.2014 ed il 15.10.2015;

con il settimo motivo – denunciando violazione o
falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– si duole che la Corte territoriale abbia posto in capo al datore di lavoro un
onere che questi non aveva, in quanto la dimostrazione del mancato rispetto, da
parte del datore medesimo, dei principi generali di correttezza e buona fede
nella scelta dei lavoratori da sospendere, grava sul lavoratore – che, nel
caso, in primo grado non aveva sollevato alcuna contestazione specifica
sull’applicazione dei criteri di cui all’accordo nei propri confronti – il
quale deve non solo provare l’esistenza di diversi criteri di selezione, ma
anche dimostrare che la loro applicazione avrebbe comportato la sospensione di
altro lavoratore;

con l’ottavo motivo – denunciando nullità della
sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art.
360, primo comma, n. 4, c.p.c. – lamenta che la predetta Corte, nel
motivare, non abbia tenuto conto del fatto che i criteri fissati erano stati
oggetto di discussione nell’ambito degli incontri tenutisi presso il Ministero
del Lavoro e condivisi con le OO.SS. firmatarie dell’accordo, così come
evidenziato nell’atto di appello, senza che detta circostanza sia stata oggetto
di contestazione ad opera della controparte;

con il nono motivo – denunziando nullità della
sentenza per omessa pronuncia in ordine alla applicabilità alla fattispecie del
disposto di cui all’art. 1227 c.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.
– si duole che il giudice del gravame non si sia pronunciato sulla richiesta,
contenuta nell’atto di appello, di abbattimento del risarcimento “anche in
applicazione dell’art. 1227 c.c.”;

con il decimo motivo – denunziando violazione o
falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
– lamenta che il predetto giudice sia incorso in vizio di ultrapetizione, in
quanto, a fronte di una domanda del lavoratore volta all’accertamento
dell’illegittimità della sospensione e contestuale sua collocazione in CIGS,
avrebbe fondato la propria decisione di rigetto del motivo di gravame fondato
sulla necessità della rideterminazione del compendio risarcitorio – essendo
stata la società ammessa al trattamento di CIGS in ragione di provvedimenti
amministrativi validi ed efficaci, sicché i lavoratori, comunque, ruotando,
sarebbero stati collocati in CIGS, ancorché per un minor periodo rispetto al
sofferto – sulla base di una richiesta, mai formulata, di «disapplicazione
“incidenter tantum” del provvedimento amministrativo concessorio
della CIGS»;

con l’undicesimo motivo – denunciando nullità della
sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma,
n. 4, c.p.c. – si duole che la predetta Corte abbia rigettato la richiesta
di divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i dipendenti, e di
conseguente riduzione del compendio risarcitorio, con motivazione apparente,
ossia sul presupposto della «violazione delle (…) disposizioni sulla
indicazione e sulla comunicazione alle organizzazioni sindacali di adeguati
criteri di scelta del personale da sospendere e di adozione di meccanismi di
rotazione nella sospensione», attesa, per converso, la legittimità dei criteri
determinati in sede di accordo sottoscritto in data 10 ottobre 2013 fra società
e OO.SS e la previsione di non dar corso alla rotazione.

 

Ritenuto che

 

il primo motivo è da disattendere, poiché, quanto al
dedotto vizio di omessa pronunzia, vale il principio che esso non è
configurabile su questioni processuali (cfr., tra le altre, Cass. 25/01/2018,
n. 1876); peraltro, alla pag. 8 della impugnata sentenza si legge che
«Vanamente la N. deduce che non è stata censurata dagli istanti la legittimità
dei criteri né sono stati addotti presunti profili di discriminazione o
violazione dei principi di correttezza e buona fede. I lavoratori hanno
denunciato l’assoluta genericità dei criteri di cui agli accordi – di per sé
violativi degli obblighi di trasparenza di cui si è detto a fronte di scelte
datoriali non verificabili – al di là delle modalità attuative adottate,
discrezionalmente, dalla società»; sicché vi è risposta al motivo di gravame,
con motivazione che certamente soddisfa i requisiti normativamente previsti;

il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui
è introdotta la questione dell’avvenuta prescrizione quinquennale dell’azione
di annullamento dell’atto di gestione del rapporto, non risultando dal ricorso
per cassazione (né dalla sentenza impugnata) che la questione predetta sia
stata fatta oggetto di gravame in appello; per il resto, è da disattendere in
quanto, per giurisprudenza costante, la richiesta del lavoratore di
risarcimento danni per l’illegittima sospensione a seguito di collocamento in
C.i.g.s. ha ad oggetto un credito da inadempimento contrattuale (costituito
dall’atto di gestione del rapporto non conforme alle regole), soggetto
all’ordinaria prescrizione decennale (così, tra le altre, Cass. 13/12/2010, n. 25139; v., da ultimo, Cass. 20/04/2021, n. 10376, in motivazione);

il terzo motivo va disatteso, perché l’orientamento
nettamente prevalente di questa Corte è nel senso che la mera inerzia non è
sufficiente a determinare la perdita del diritto in capo al creditore,
occorrendo un “quid pluris” che valga ad esprimere una chiara e certa
volontà abdicativa (cfr., sul punto, Cass.
21/09/2011, n. 19235: «In materia di cassa integrazione guadagni
straordinaria, la mancata iniziativa del lavoratore diretta a sollecitare
l’attuazione della clausola di rotazione non preclude il diritto del medesimo
di far valere la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per
l’inadempimento di detta clausola (non riconducibile alla figura del contratto
a favore di terzo), poiché la mera inerzia ad esercitare un proprio diritto non
prova di per sé una volontà abdicativa, dovendo ogni rinuncia essere espressa o
ricavarsi da condotte univoche. Né può ritenersi che la non immediata
proposizione dell’azione risarcitoria integri una concausa del verificarsi del
fatto generatore del danno e, quindi, giustifichi una riduzione del
risarcimento a norma dell’art. 1227 c.c.»; v.,
altresì, di recente, Cass. 5/02/2018, n. 2739: «La rinuncia ad un diritto oltre
che espressa può anche essere tacita; in tale ultimo caso può desumersi
soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli in modo
univoco la sua effettiva e definitiva volontà abdicativa; al di fuori dei casi
in cui gravi sul creditore l’onere di rendere una dichiarazione volta a far
salvo il suo diritto di credito, il silenzio o l’inerzia non possono essere
interpretati quale manifestazione tacita della volontà di rinunciare al diritto
di credito, la quale non può mai essere oggetto di presunzioni»; in senso
analogo v. Cass. 13/02/2020, n. 3657: «La
rinuncia al compenso da parte dell’amministratore può trovare espressione in un
comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua
volontà dismissiva del relativo diritto; a tal fine è pertanto necessario che
l’atto abdicativo si desuma non dalla semplice mancata richiesta
dell’emolumento, quali che ne siano le motivazioni, ma da circostanze esteriori
che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto»);

il quarto motivo è inammissibile, non risultando dal
ricorso per cassazione che la questione sia stata fatta oggetto di gravame, né
l’effettuato esame della stessa emerge dalla sentenza impugnata, nella quale è
affrontato il solo tema della mancata offerta della prestazione lavorativa,
mediante il corretto richiamo a Cass. 4/05/2009,
n. 10236 (ove è affermato che «In caso di intervento straordinario di
integrazione salariale per l’attuazione di un programma di ristrutturazione,
riorganizzazione o conversione aziendale che implichi una temporanea eccedenza
di personale, ove il provvedimento di sospensione dall’attività lavorativa sia
illegittimo, è questo stesso atto negoziale unilaterale, con il rifiuto di
accettare la prestazione lavorativa, a determinare la “mora credendi”
del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore non è tenuto ad offrire la
propria prestazione ed il datore medesimo è tenuto a sopportare il rischio
dell’estinzione dell’obbligo di esecuzione della prestazione»);

il quinto motivo è da rigettare, poiché la sentenza
impugnata esplicita chiaramente le ragioni della ritenuta genericità dei
criteri di scelta (cfr., tra l’altro, il seguente passo della motivazione, non
riportata nel motivo: «Nella specie, gli accordi fanno riferimento a esigenze
tecnico-organizzative connesse al piano di riorganizzazione ma senza alcuna
indicazione dei criteri in base ai quali individuare i singoli soggetti che, in
ragione di quelle esigenze, andavano, di volta in volta, sospesi. (…) il
datore di lavoro ha adottato un criterio totalmente discrezionale, non
concordato, non desumibile dal generico richiamo alle esigenze
tecnico-produttive e, per certi aspetti, anche arbitrario (…). In definitiva,
la N. ha autonomamente individuato i lavoratori da sospendere senza aver dovuto
rispettare predeterminati criteri che stabilissero le priorità tra i vari
parametri considerati – anzianità, carichi, esigenze produttive -, le modalità
applicative dei criteri medesimi, la platea dei soggetti interessati in
riferimento alle qualifiche possedute e alle concrete mansioni esercitate in
funzione degli obiettivi aziendali di risanamento e riorganizzazione»);

il sesto motivo è da rigettare, già sol perché la
genericità dei criteri si riverbera, inevitabilmente, in chiave negativa, sugli
adempimenti prescritti dall’art.
1, comma 7, della I. n. 223 del 1991 (sicché la deduzione della predetta
genericità è idonea ad identificare il “petitum” coerente con la
previsione normativa); inoltre, la doglianza non si confronta con la intera
motivazione della sentenza impugnata, la quale, con riguardo al parametro delle
esigenze tecnico-organizzative, ha evidenziato che «La prova evidente
dell’assoluta genericità dei criteri è nelle stesse giustificazioni addotte
dall’appellante con l’atto di gravame: “… N. ha quindi provveduto ad
assegnare un punteggio per ciascuno dei tre criteri di cui sopra (anzianità
aziendale, carichi di famiglia, esigenze organizzative) a tutti i lavoratori
aventi mansioni fungibili, sospendendo coloro i quali, nella ponderazione dei
tre criteri di cui sopra (ciascuno con rilevanza di 1/3 ai fini della
graduatoria) avessero un punteggio più basso …. Dunque il datore di lavoro ha
adottato un criterio totalmente discrezionale, non concordato, non desumibile
dal generico richiamo alle esigenze tecnico-produttive e, per certi aspetti,
anche arbitrario»; sicché la illegittimità è stata ravvisata, in primo luogo,
nell’attribuzione assolutamente discrezionale dei predetti punteggi, che ha
inevitabilmente alterato l’applicazione in maniera concorrente dei tre
richiamati criteri; le stesse ragioni sono state poste a base, da parte dei
giudici di seconde cure, correttamente anche in relazione alla statuizione
concernente la illegittimità delle proroghe che comunque si riferivano ad un
accordo genetico viziato da una inammissibile genericità;

il settimo motivo è inammissibile perché,
riproponendo in parte le censure già contenute nel primo motivo (e sopra
disattese), di nuovo non si misura con la “ratio decidendi” della
sentenza impugnata, imperniata non sul mancato rispetto di criteri di scelta,
bensì sulla previsione di criteri generici e, quindi, illegittimamente
adottati;

l’ottavo motivo è inammissibile, poiché con esso – a
fronte di una motivazione che soddisfa (tenuto conto dei passaggi sopra
riportati) i requisiti minimi di cui all’art. 132
c.p.c. – si mira ad introdurre impropriamente il vizio di omesso esame di
una circostanza (“id. est.”: discussione dei criteri nell’ambito
degli incontri tenutisi presso il Ministero del Lavoro) non decisiva, essendo
la sentenza incentrata sull’assoluta genericità dei criteri (per come sopra
visto);

il nono motivo è inammissibile, non emergendo dal
ricorso che già in primo grado la ricorrente ebbe a dedurre l’applicabilità
(come noto esclusa, in materia, da costante giurisprudenza; cfr., sul punto, Cass. n. 19235 del 2011, sopra citata) dell’art. 1227, secondo comma, c.c., oppure che la
questione (non rilevabile di ufficio; cfr., tra le altre, Cass. 19/07/2018, n.
19218) ebbe ad essere comunque esaminata nel detto grado;

il decimo motivo è inammissibile, poiché esso si
risolve in una mera denunzia all’impianto argomentativo del giudice di merito
imperniato su una statuizione di questa Corte (sulla quale v. subito
“infra”, ove è contenuto il riferimento alla “disapplicazione
incidenter tantum del provvedimento amministrativo concessorio della
CIGS”), senza che possa in alcun modo ravvisarsi l’emissione di una
pronuncia oltre la domanda;

l’undicesimo motivo è infine da rigettare, poiché
sulla questione della divisione matematica del periodo di CIGS tra tutti i
dipendenti (sulla cui base il lavoratore comunque sarebbe stato assoggettato ad
un periodo di CIGS) il giudice del gravame ha reso effettiva motivazione
citando un precedente di questa Corte (Cass.
29/09/2011, n. 19618, ove si legge che «In materia di cassa integrazione
guadagni straordinaria, l’illegittimità del provvedimento concessorio
dell’intervento di integrazione salariale in ragione della mancata indicazione
e comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei
lavoratori da sospendere – di rotazione ovvero, ove tale meccanismo non sia
stato adottato per ragioni di ordine tecnico e organizzativo ritenute
meritevoli di accoglimento, dei criteri alternativi determinati ai sensi dell’art. 1, comma 8, legge n. 223 del 1991 – comporta
l’illegittimità della sospensione operata dal datore di lavoro dei lavoratori
stessi, i quali, vantando una posizione di diritto soggettivo, possono chiedere
al giudice ordinario l’accertamento, previa disapplicazione “incidenter
tantum” del provvedimento amministrativo di concessione della c.i.g.s.,
dell’inadempimento del datore di lavoro in ordine all’obbligazione retributiva
alla stregua dell’ordinario regime previsto dall’art.
1218 c.c., essendo venuta meno, quale ragione d’esonero dalle conseguenze
dell’inadempimento, l’elevazione al livello dell’impossibilità della
prestazione delle situazioni di ristrutturazione, riorganizzazione e riconversione
industriale») ed aggiungendo che «la N. non ha neanche provato che ricorrevano
tutti i presupposti per la messa in CIGS (anche) della parte ricorrente e per
quanto tempo»;

la motivazione, sul punto, non si rivela apparente,
in quanto chiarisce che, a fronte della genericità dei criteri adottati per la
messa in CIGS del dipendente, e, quindi della illegittimità della sospensione,
sarebbe stato onere della società provare le condizioni dell’ipotetico
abbattimento del risarcimento derivante dall’applicazione di un periodo minore
di cassa integrazione;

senza contare che la stessa censura – imperniata sul
rilievo che la questione non necessitava di alcuna prova “trattandosi di
conseguenze automatiche di fatti pacifici” – è mal posta, poiché, da un
lato, essa denunzia, nella sostanza, una errata applicazione del principio
dell’onere della prova in materia, e, dall’altro (ciò che più conta), non
illustra in maniera intelligibile, da un lato, in qual modo il ricorrente
avrebbe potuto essere comunque collocato legittimamente in CIGS a fronte della
accertata genericità dei criteri, e, dall’altro, come avrebbe potuto calcolarsi
in concreto l’ipotetico (e non plausibile, per quanto appena detto)
abbattimento della posta risarcitoria; le spese del presente giudizio,
liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida in euro 4.000,00 per compensi e in euro
200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

 

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 novembre 2022, n. 33005
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