Nelle piccole aziende sono necessarie più adeguate tutele contro il licenziamento illegittimo.

Nota a Corte Cost. 22 luglio 2022, n. 183

Francesco Belmonte

La scelta della soluzione più appropriata per rimediare all’evidente deficit di adeguatezza che caratterizza l’attuale disciplina dei licenziamenti, in relazione alle tutele applicabili nelle grandi e piccole imprese, implica inevitabili valutazioni discrezionali che competono al legislatore e non alla Corte. Tuttavia, “un’ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile” ed indurrebbe la Consulta “ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.

Tale è il monito espresso dalla Corte Cost. 22 luglio 2022, n. 183, nell’ambito di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Roma (ord. n. 84/2021) in relazione ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato in una piccola impresa dopo il 7 marzo 2015.

Il Tribunale dubita della conformità al dettato costituzionale (artt. 3, co. 1; 4; 35, co. 1 e 117, co. 1, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea del 1996) delle previsioni di cui agli artt. 3 e 9 del D.LGS. n. 23/2015, che dimezzano l’indennizzo spettante al lavoratore ingiustamente licenziato e pongono il limite invalicabile delle sei mensilità dell’ultima retribuzione percepita.

In particolare, per il rimettente, in tale sistema “l’indennità dovrebbe essere individuata nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità e sarebbe inidonea, pertanto, a soddisfare il test di adeguatezza e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata”.

“Il tenore letterale della disposizione censurata sarebbe inequivocabile e non si presterebbe ad alcuna interpretazione costituzionalmente orientata, che consenta di salvaguardare l’adeguatezza e la dissuasività del rimedio previsto dal legislatore”.

Ciò in quanto, “la previsione di un indennizzo così esiguo … e senza neppure l’alternativa della riassunzione, non attuerebbe un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. La previsione censurata, difatti, nella parte in cui determina un limite massimo del tutto inadeguato e per nulla dissuasivo, non garantirebbe un’equilibrata compensazione e un adeguato ristoro del pregiudizio e non svolgerebbe la necessaria funzione deterrente.

La Corte rigetta la questione di legittimità costituzionale, tuttavia rivolge un monito specifico al legislatore di attivarsi per colmare le lacune evidenziate dal Tribunale.

Il Giudice delle Leggi, in particolare, sulla scorta delle precedenti pronunce rese in materia di licenziamento (Corte Cost. n. 194/2018, annotata in q. sito da P. PIZZUTI e Corte Cost. n. 150/2020, in LG, 2020, 964, con nota di C. CESTER, Una pronuncia scontata: vizi formali e procedurali del licenziamento e inadeguatezza delle sanzioni e in Labor, 2021, n. 1, con nota di M. R. MEGNA, Il Jobs Act di nuovo sotto esame: la Corte Costituzionale dichiara illegittimo anche l’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 in materia di vizi formali e procedurali del licenziamento), ribadisce “che la modulazione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi è demandata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato al rispetto del principio di eguaglianza, che vieta di omologare situazioni eterogenee e di trascurare la specificità del caso concreto.”

«In una vicenda che vede direttamente implicata la persona del lavoratore, si rivela di importanza primaria la valutazione del giudice, chiamato, nell’alveo dei criteri individuati dalla legge, ad attuare la necessaria “personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza”» (Corte Cost. n. 194/2018 e n. 150/2020).

Tra tali criteri, rilevano anche il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti, tipizzati dall’art. 8 L. n. 604/66 e confermati dalla legge n. 108/90 e largamente sperimentati nell’esperienza applicativa.

Per la Consulta, un rimedio adeguato, che assicuri un serio ristoro del pregiudizio arrecato dal licenziamento illegittimo e dissuada il datore di lavoro dal reiterare l’illecito, si impone in forza della “speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, in quanto fondamento dell’ordinamento repubblicano (art. 1 Cost.)” (Corte Cost. n. 125/2022, annotata in q. sito da F. BELMONTE).

Tali esigenze di effettività e di adeguatezza della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni.

Già in passato, la Corte, nel dichiarare non fondati i dubbi di legittimità costituzionale della disciplina, che per tali datori di lavoro escludeva la reintegrazione, “ha posto l’accento sulla natura fiduciaria del rapporto di lavoro nell’ambito delle descritte realtà organizzative, sull’opportunità di non gravarle di oneri eccessivi e, infine, sulle tensioni che l’esecuzione di un ordine di reintegrazione potrebbe ingenerare” (Corte Cost. n. 2/86, n. 189/75 e n. 152/75).

L’assetto delineato dal Jobs Act è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle più risalenti pronunce della Consulta, in quanto, ora, la reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.

In un simile sistema, imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative, “che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.”

Emergono, in particolare, le disarmonie insite nella predeterminazione dell’indennità per le piccole imprese che traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati.

Alla luce di tali argomentazioni, il Giudice delle Leggi ritiene che “un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.”

“Si deve riconoscere, pertanto, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.”

Tuttavia, la stessa Corte afferma che non può porre rimedio al vulnus riscontrato, in quanto non ravvisa “una soluzione costituzionalmente adeguata, che possa orientare l’intervento correttivo e collocarlo entro un perimetro definito, segnato da grandezze già presenti nel sistema normativo e da punti di riferimento univoci.”

Diversamente, il legislatore “ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano”.

Licenziamento illegittimo e piccole imprese
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