Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 novembre 2022, n. 45135

Infortunio sul lavoro, Reato di lesioni colpose, Mancato
adempimento degli obblighi di manutenzione delle attrezzature di lavoro,
Responsabilità del datore di lavoro e del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione

Ritenuto che

 

1. Con sentenza del 29 aprile 2022, la Corte di
appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – ha riformato la sentenza
emessa il 29 giugno 2021 dal Tribunale di Taranto limitatamente alla concessione
agli imputati del beneficio della non menzione della condanna di cui all’art.
175 cod. pen. La sentenza di primo grado è stata confermata nel resto e,
pertanto, P.L. e M.E. sono stati ritenuti responsabili del reato di cui
all’art. 590, commi 1 e 3, cod. pen. in danno di G.S., dipendente della «S.E.
s.r.l.» società della quale L. era legale rappresentante e nella quale E.
rivestiva la qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
La sentenza di primo grado è stata confermata anche con riferimento alle
statuizioni civili.

2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul
lavoro verificatosi il 26 febbraio 2014 presso lo stabilimento U. di Taranto.
Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, la «S.E. s.r.l.» aveva
ricevuto in appalto dall’Uva il compito di provvedere alla registrazione e al
tamponamento delle porte di chiusura dei forni. Per svolgere questo lavoro (che
richiedeva di portarsi fino a sette metri di altezza rispetto alla passerella
dell’impianto) la S. si avvaleva di piattaforme di lavoro elevabili «Pid 8.5
cingolate» costruite e commercializzate dalla s.n.c. «S.C.». Queste piattaforme
consentivano la presenza in quota di un solo lavoratore che operava all’interno
di un cestello munito di cinture di sicurezza ed era coadiuvato dal basso da un
collega. Intorno alle 14:30 del 26 febbraio 2014 G.S. si trovava sulla
piattaforma n. 25, a circa tre metri di altezza, e stava procedendo alla
registrazione e al tamponamento della porta di chiusura del forno n. 126. Sulla
passerella sottostante si trovava il caposquadra G.V. che lo coadiuvava. Il
turno di lavoro era iniziato alle sette del mattino e, come stabilito, V. aveva
eseguito una «cecklist visiva» della piattaforma n. 25 e delle altre
piattaforme in uso (n.22, n. 26 e n. 27) verificando la tensione delle funi,
delle catene di stilo, delle carrucole delle catene, del serraggio delle viti;
monitorando il livello dell’olio idraulico nel serbatoio e il livello delle
batterie; verificando il regolare funzionamento del tasto di emergenza. S.
stava applicando del collante con un pennello e non aveva portato sulla
piattaforma altra attrezzatura che quella necessaria a tal fine.
Improvvisamente, le catene che consentono lo spostamento verticale della
piattaforma si spezzarono determinandone il brusco abbassamento. Poiché faceva
uso delle cinture di sicurezza, S. non fu sbalzato fuori, ma, a causa del
contraccolpo dovuto alla caduta della piattaforma, riportò la frattura di
entrambe le gambe. La malattia conseguente ebbe una durata complessiva di 202
giorni.

Secondo l’ipotesi accusatoria, P.L. e M.E., nelle
rispettive qualità sopra indicate, sarebbero responsabili dell’infortunio per
aver omesso di disporre le «visite trimestrali di controllo su funi e catene» e
non aver «tenuto conto di tale specifico obbligo di legge, previsto dall’art.
71 comma 3 d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, anche ai fini della predisposizione del
piano di lavoro e di sicurezza».

La sentenza di appello ha escluso che nel caso di
specie potesse trovare applicazione l’art. 71 comma 3 d.lgs. n. 81/08 «con
riferimento alla mancata colposa adozione delle cautele imposte dall’allegato
VI n. 3.1.2.» perché questa norma ha ad oggetto le attrezzature da lavoro
deputate al sollevamento dei carichi. Ha ritenuto tuttavia che il richiamo
all’art. 71 comma 3 d.lgs. n.81/08 avesse valenza più generale e ha
sottolineato che, «in ragione di quanto previsto dall’allegato VI punto 1»,
questa norma impone comunque l’adozione di tutte le cautele necessarie a
eliminare o almeno a ridurre i rischi connessi alle attrezzature da lavoro. Ha
conseguentemente ritenuto che L. ed E. dovessero essere ritenuti responsabili
del reato loro ascritto per «aver consentito l’impiego» della piattaforma
ancorché la stessa non fosse stata «adeguatamente monitorata».

3. Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso
contro la sentenza della Corte di appello. Si tratta di un unico atto di
ricorso articolato in tre motivi che non espongono le doglianze in termini
lineari e accavallano profili di censura diversi, non sempre in ordine logico.
I motivi di ricorso, tuttavia, (come previsto dall’art. 173 comma 1 d.lgs. 28
luglio 1989 n. 271) possono essere sintetizzati nei limiti strettamente
necessari alla decisione nei termini che seguono.

3.1 Col primo motivo i ricorrenti lamentano
violazione di legge e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta
sussistenza di una condotta colposa rilevante ai sensi dell’art. 590 cod. pen.
La difesa osserva che la Corte territoriale ha ritenuto la responsabilità degli
imputati per colpa generica (la sentenza impugnata parla di «imprudenza per
aver consentito l’impiego della attrezzatura senza che la stessa fosse stata
adeguatamente monitorata») ancorché fosse emerso nel dibattimento che la
piattaforma era oggetto di puntuale monitoraggio e di manutenzione e fosse
stata provata solo l’omissione di visite trimestrali di controllo su funi e
catene che la Corte di appello ha riconosciuto non essere dovute.

La difesa sottolinea che la piattaforma non fu
destinata ad usi impropri; potevano utilizzarla solo lavoratori in possesso di
specifico attestato di formazione; ne era vietato il sovraccarico; era previsto
un check visivo da parte del caposquadra all’inizio di ogni turno di lavoro;
era previsto che fossero rispettate le istruzioni di utilizzo previste dal
fabbricante. Ricorda che la piattaforma era dotata di attestazione di
conformità alla direttiva CE di riferimento e che la stessa aveva positivamente
superato il collaudo da parte dei tecnici INAIL, sicché nessun addebito per colpa,
neppure per generica negligenza, imprudenza o imperizia potrebbe essere
formulato a carico degli imputati. Sostiene che tale addebito comporta comunque
una immutazione del fatto, atteso che agli imputati era stata contestata la
violazione dell’art. 71, comma 3, d.lgs. n. 81/08 ritenuta non sussistente
dalla Corte di appello.

Quanto alle cause del sinistro, il difensore dei
ricorrenti osserva che, secondo la Corte territoriale, sia per la polverosità
dell’ambiente che per l’uso intensivo, le catene delle piattaforme avrebbero
dovuto essere oliate con particolare frequenza, ma il costruttore non aveva
previsto alcuna indicazione in tal senso. Rileva che, secondo i tecnici della
prevenzione incaricati delle indagini, la piattaforma non era stata sovraccaricata.
Sostiene che la Corte di appello ha individuato la causa della rottura delle
catene in un difetto di manutenzione senza che tale circostanza sia stata
accertata: in primo luogo perché non è stata eseguita una perizia sulle cause
dell’incidente; in secondo luogo, perché non si è tenuto conto delle
testimonianze a discarico, dalle quali emerge che il controllo tecnico delle
piattaforme avveniva con cadenza almeno mensile e si è ritenuto che
l’esecuzione di tali controlli potesse essere provata solo attraverso
produzioni documentali.

Con specifico riferimento alla posizione di M.E., la
difesa osserva che egli era responsabile del servizio di prevenzione e
protezione, aveva quindi il compito di fornire supporto tecnico al datore di
lavoro, ma non aveva compiti gestionali. Sostiene che la sentenza impugnata non
ha spiegato se E. sia stato inadempiente ai propri obblighi di consulenza e
neppure se tale ipotizzata inadempienza sia stata causa dell’infortunio.

3.2. Col secondo motivo, i ricorrenti lamentano vizi
di motivazione e violazione di legge riguardo alla decisione adottata dal
giudice di primo grado, e confermata dal giudice di appello, di non disporre
una perizia volta a verificare le cause della rottura delle catene e le ragioni
per le quali la piattaforma non era dotata di un sistema di sicurezza idoneo ad
evitare che, in caso di rottura, la piattaforma potesse precipitare. La difesa
osserva che i giudici di merito hanno ritenuto tale attività istruttoria non
indispensabile alla decisione: da un lato perché, pur in assenza del sistema di
blocco, la piattaforma era stata ritenuta conforme alla normativa, munita del
marchio “CE” e collaudata; dall’altro, perché si è ritenuto che la
mancata esecuzione da circa un anno di interventi di manutenzione documentati
avesse impedito di rilevare l’usura delle catene. Il difensore sostiene che
tale motivazione è manifestamente illogica e contraddittoria: perché, se la
macchina fosse stata munita di sistemi di blocco, l’evento non si sarebbe
verificato; perché solo una perizia avrebbe potuto individuare nell’usura la
causa della rottura delle catene; perché la circostanza che la manutenzione non
fosse regolarmente eseguita è stata smentita dalle deposizioni testimoniali,
secondo le quali le piattaforme erano sottoposte a verifiche periodiche e, in
ogni caso, a controllo visivo eseguito dal caposquadra all’inizio di ogni turno
di lavoro.

Secondo la difesa, in assenza di un accertamento
tecnico sulla causa della rottura, sarebbe impossibile affermare che
l’infortunio fu determinato da difetto di controlli e di manutenzione. La
sentenza impugnata sarebbe quindi viziata da carenza di motivazione quanto alla
sussistenza del nesso causale tra la condotta asseritamente omessa e l’evento
lesivo.

3.3. Col terzo motivo, i ricorrenti si dolgono del
trattamento sanzionatorio. Sostengono che la scelta di applicare la pena della
reclusione anziché quella della multa non sarebbe stata adeguatamente motivata.

 

Considerato in diritto

 

1. I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.

2. Per ragioni di logica espositiva, deve essere
esaminato per primo il secondo motivo col quale i ricorrenti si dolgono del
mancato espletamento di una perizia volta a verificare le cause della rottura
delle catene e le ragioni per le quali la piattaforma non era dotata di un
sistema di blocco idoneo ad evitare che, in casi simili, la piattaforma potesse
precipitare; una doglianza ha carattere preliminare perché riguarda la
ricostruzione dei fatti sui quali è stata fondata l’affermazione della penale
responsabilità.

Sul punto, la motivazione delle sentenze di merito –
che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo
corpo decisionale in virtù dei ripetuti richiami che la sentenza d’appello
opera alla sentenza di primo grado (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv.
277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, A., Rv. 257595) – non appare né
lacunosa né, tanto meno, intrinsecamente contraddittoria. La perizia richiesta
dalla difesa, infatti, è stata ritenuta non «assolutamente necessaria» alla
luce degli accertamenti compiuti dai tecnici della prevenzione che hanno svolto
le indagini, dai quali è emerso: che la catena si era rotta e che la
piattaforma non era dotata di un sistema di blocco idoneo a prevenire danni in
questa eventualità (pur esistente in altri macchinari simili). I giudici di
merito hanno preso atto che, pur in assenza di tale sistema di blocco, la
piattaforma era stata dotata di marcatura “CE” e regolarmente
collaudata ai fini della messa in opera e hanno ritenuto che l’informazione
probatoria fosse completa. Hanno osservato, infatti, che non poteva ipotizzarsi
il malfunzionamento di un sistema di blocco inesistente (e non indispensabile),
ma era stata accertata la rottura delle catene; e tale rottura, essendo stato
escluso un sovraccarico della piattaforma, non poteva che essere dipesa da
usura. In altri termini, i giudici di merito hanno individuato la causa della
rottura delle catene nell’usura cui le stesse erano sottoposte e hanno ritenuto
per questo di dover concentrare la propria attenzione sulla manutenzione del
macchinario. Di ciò hanno fornito una motivazione coerente e completa che
comporta la manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso.

Altro e diverso problema è quello che riguarda
l’effettivo svolgimento dell’attività di manutenzione, che non era la perizia a
dover accertare. Com’è evidente, questo argomento attiene alla prova del fatto,
che i ricorrenti ritengono insussistente ed è quindi oggetto, insieme ad altri,
del primo motivo di ricorso.

3. Nell’esaminare il primo motivo si deve premettere
che nel ricorso si lamentano vizi di motivazione e violazioni di legge, ma, in
concreto, anche le denunciate violazioni di legge si esauriscono in una critica
alla motivazione adottata dai giudici di merito per sostenere l’esistenza della
colpa e del nesso causale. È utile perciò ricordare che, ai sensi dell’art.
606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il sindacato del giudice di legittimità
sul provvedimento impugnato deve essere volto a verificare: che la motivazione
della pronuncia sia “effettiva” e non meramente apparente, cioè
realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base
della decisione adottata; non sia “manifestamente illogica”, perché
sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti
errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente
“contraddittoria”, sia quindi esente da insormontabili incongruenze
tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in
essa contenute; non risulti fondata su argomenti logicamente
“incompatibili” con «altri atti del processo specificamente indicati
nei motivi di gravame» in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente
inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di cassazione è preclusa – in
sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi
parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati
dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una
migliore capacità esplicativa. Un tal modo di procedere, infatti,
trasformerebbe la Corte da giudice di legittimità nell’ennesimo giudice del
fatto (tra tante: Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, F., Rv. 273217; Sez. 2, n.
9106 del 12/02/2021, C., Rv. 280747).

3.1. La sentenza impugnata ha escluso che la
responsabilità a titolo di colpa potesse essere fondata sulla violazione
dell’art. 71 comma 3 d.lgs. n. 81/08 «con riferimento alla mancata colposa
adozione delle cautele imposte dall’allegato VI n. 3.1.2.», contestata nel capo
di imputazione e ritenuta sussistente dal Tribunale. Ha ritenuto infatti
(accogliendo un motivo di appello) che il punto 3 dell’allegato VI faccia
esclusivo riferimento alle «attrezzature di lavoro deputate al sollevamento dei
carichi, tra le quali non possono essere ricomprese quelle utilizzate per il
sollevamento delle persone». Non per questo, però, ha ritenuto sussistente solo
una colpa generica. Ha sottolineato, infatti: in primo luogo, che l’allegato VI
(richiamato dall’art. 71, comma 3, d.lgs. n. 81/08) impone al punto 1
l’adozione di tutte le cautele necessarie a eliminare o ridurre i rischi
connessi all’uso delle attrezzature da lavoro; in secondo luogo, che fu
imprudente consentire l’impiego della piattaforma «senza che la stessa fosse
stata adeguatamente monitorata» (pag. 9 della motivazione della sentenza
impugnata).

La Corte territoriale ha argomentato sull’assenza di
controlli e di attività manutentive adeguate. Ha rilevato, infatti:

– che, come prova la documentazione acquisita nel
corso delle indagini, le catene della piattaforma n. 25 furono controllate in
officina «un considerevole numero di mesi» prima del fatto;

– che il continuativo e stabile impego di quella
piattaforma e le condizioni di lavoro connotate dalla abbondante presenza di
polvere, esponevano gli ingranaggi «a maggior attrito in mancanza di reiterata
oliatura, e quindi a un rischio di rottura superiore»;

– che, secondo le indicazioni fornite dai testimoni
a discarico, sulle piattaforme utilizzate dai dipendenti della S. veniva
compiuta una generalizzata e cadenzata attività di manutenzione, ma nessun
testimone è stato in grado di riferire tale attività manutentiva in termini
specifici e temporalmente dettagliati alla piattaforma in questione (pag. 10
della sentenza impugnata).

La difesa obietta che, nel parlare di tale attività
di manutenzione, i testi l’hanno riferita a tutte le piattaforme e quindi anche
alla piattaforma n. 25, ma tale argomentazione non contrasta col dato, valutato
decisivo dalla sentenza impugnata, che, come risulta dalla documentazione
acquisita, le catene di quella piattaforma erano state sottoposte a controllo
meccanico e sostituite per usura molto tempo prima dei fatti (precisamente –
come riportato a pag. 9 della sentenza di primo grado – il 6 febbraio 2013 e il
22 febbraio 2013, date in cui nelle schede di manutenzione fu annotato:
«controllo catene e pulegge consumate»).

Si tratta di motivazioni complete, scevre da profili
di contraddittorietà o manifesta illogicità e dunque non censurabili in questa
sede. Si deve ricordare, in proposito che, ai sensi dell’art. 71, comma 4,
lett. b) d.lgs. n. 81/08, le attrezzature da lavoro devono essere «oggetto di
idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti
di sicurezza di cui all’articolo 70» e che, come affermato da questa Corte di
legittimità, «l’obbligo di “ridurre al minimo” il rischio di
infortuni sul lavoro (art. 71, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) impone al datore di
lavoro di verificare e garantire la persistenza nel tempo dei requisiti di
sicurezza delle attrezzature di lavoro messe a disposizione dei propri
dipendenti […], non essendo sufficiente, per ritenere adempiuto l’obbligo di
legge, il rilascio, da parte di un organismo certificatore munito di
autorizzazione ministeriale, della certificazione di rispondenza ai requisiti
essenziali di sicurezza» (Sez. 3, n. 46784 del 10/11/2011, L., Rv. 251620).

È così superato anche l’argomento, solamente
enunciato nei motivi di ricorso, secondo il quale la piattaforma era stata
verificata dall’Inail. Come risulta dalla sentenza di primo grado, infatti,
tale verifica era avvenuta il 5 aprile 2013, quando erano passati meno di due
mesi dall’ultimo controllo in officina di catene e pulegge; ma trascorsero più
di dieci mesi tra questa verifica e l’infortunio.

3.2. L’argomento secondo il quale l’affermazione
della penale responsabilità degli imputati sarebbe avvenuta ritenendo una colpa
generica ed escludendo i profili di colpa specifica espressamente contestati è
privo di pregio. Non soltanto perché – come sottolineato dalla sentenza
impugnata – la colpa generica era stata contestata; ma soprattutto perché, con
la motivazione sopra illustrata, la Corte territoriale ha ritenuto violate le
norme di prevenzione contenute nell’art. 71 e nell’allegato VI del d.lgs. n.
81/08.

La Corte territoriale ha ritenuto tali violazioni
determinanti sotto il profilo causale osservando che, se la piattaforma fosse
stata sottoposta a regolari controlli di manutenzione, l’evento non si sarebbe
verificato. Ha ritenuto, inoltre, che, in assenza di regolari controlli,
l’evento fosse prevedibile ed evitabile. Ha sottolineato, in proposito che,
meno di due anni prima (il 16 aprile 2012), si era verificato un incidente
identico, determinato dalla rottura delle catene di una piattaforma, e sulla
non contraddittorietà o illogicità di tale motivazione non occorre spendere
parole.

3.3. Ai sensi degli artt. 17 e 28 d.lgs. n. 81/08
incombe sul datore di lavoro l’obbligo di verificare la conformità dei
macchinari alle prescrizioni di legge e di impedire l’utilizzazione di quelli
che, per qualsiasi causa – inidoneità originaria o sopravvenuta – siano
pericolosi per l’incolumità del lavoratore che li manovra (Sez. 4, n. 3917 del
17/12/2020, dep. 2021, D.N., Rv. 280382).

Quanto ad E., responsabile del servizio di
prevenzione e protezione, la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno
ritenuto che egli non avesse adempiuto puntualmente al proprio ruolo non avendo
raccomandato a L. verifiche periodiche sull’integrità delle catene, non avendo
vigilato perché tali verifiche fossero compiute e non avendo predisposto un
piano di lavoro e di sicurezza contenente previsioni in tal senso. Tali
conclusioni sono conformi ai principi di diritto che regolano la materia. Si è
ritenuto, infatti che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
possa essere considerato responsabile del verificarsi di un infortunio, anche
in concorso col datore di lavoro, «ogni qual volta questo sia oggettivamente
riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di
conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione faccia seguito
l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a
neutralizzare tale situazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune
da censure la sentenza che aveva riconosciuto la responsabilità del RSPP per
non avere segnalato nell’ultimo DVR il rischio di caduta nel vuoto per il
cattivo stato di manutenzione dei parapetti di un balcone, in concorso con
quella ascritta al datore di lavoro per non avere sollecitato la società
proprietaria dell’immobile ad eseguire i necessari lavori di manutenzione,
ritenendo irrilevante, ai fini dell’esclusione della responsabilità del primo,
la circostanza che il rischio non segnalato fosse noto al datore di lavoro)
(Sez. 4, n. 24822 del 10/03/2021, S., Rv. 281433; nello stesso senso Sez. 4, n.
32195 del 15/07/2010, S., Rv. 248555; sull’argomento si veda anche: Sez. U, n.
38343 del 24/04/2014, E. Rv. 261107).

4. La sentenza impugnata sostiene che l’evento
lesivo fu causato dall’usura (e conseguente rottura) delle catene che
sostenevano la piattaforma e che E. e L. lo resero possibile non adempiendo
puntualmente ai rispettivi obblighi. La Corte territoriale osserva che E. non
svolse i propri compiti consultivi in modo corretto perché non segnalò a L. la
necessità di una attenta manutenzione e perciò lo ritiene responsabile dell’evento.
Individua, inoltre, la regola di prevenzione violata nella carenza di una
adeguata manutenzione periodica.

La motivazione non è carente, contraddittoria o
illogica, e certamente non contrasta con i principi di diritto che disciplinano
la materia. Non è, quindi, censurabile né sotto il profilo dell’identificazione
del rischio concretizzatosi, né per quanto riguarda le regole cautelari
applicabili. Neppure è censurabile, perché coerente con le emergenze
istruttorie, l’identificazione della condotta alternativa doverosa, individuata
nell’adempimento dell’obbligo di manutenzione e, per Esposto, nella
programmazione del controllo meccanico delle catene e pulegge (pag. 9 della
sentenza di primo grado). La prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso,
inoltre, sono congruamente motivate sulla base della costatazione che un
infortunio identico si era verificato due anni prima e l’ultimo controllo su
catene e pulegge era stato eseguito nel febbraio 2013.

5. Col terzo e ultimo motivo i ricorrenti si dolgono
dell’entità della pena inflitta determinata dal giudice di primo grado, per
ciascun imputato, in mesi due di reclusione, previa applicazione delle
circostanze attenuanti generiche. Il motivo è inammissibile essendo stato
proposto per la prima volta nell’atto di ricorso. Nell’impugnare la sentenza di
primo grado, infatti, gli appellanti non avevano censurato l’entità della pena
inflitta in primo grado, ma solo la mancata concessione del beneficio della non
menzione e tale motivo di appello è stato accolto in sede di gravame. Si deve
ricordare allora che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «non
sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano
costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in
sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad
un punto della decisione rispetto al quale si configura “a priori” un
inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto
alla cognizione del giudice di appello» (fra le tante: Sez. 2, n. 29707 del
08/03/2017, G., Rv. 270316; Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, T., Rv. 280306;
Sez. 3, n. 27256 del 23/07/2020, M., Rv. 279903; Sez. 2, n. 46765 del
09/12/2021, B., Rv. 282322).

6. Poiché i ricorsi sono inammissibili, non deve
essere dichiarata la prescrizione del reato che sarebbe maturata dopo la
sentenza d’appello. La giurisprudenza di questa Corte di legittimità, infatti,
ha più volte ribadito che l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta
alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido
rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e
dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen
(così Sez. U. n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266 relativamente ad un caso
in cui la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza
impugnata con il ricorso; conformi, Sez. U., n. 23428 del 2/3/2005, B., Rv.
231164, e Sez. U. n. 19601 del 28/2/2008, N., Rv. 239400; Sez. 2, n. 28848 del
8/5/2013, C., Rv. 256463).

7. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la
condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Tenuto conto della sentenza della Corte
costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000 e rilevato che non sussistono elementi
per ritenere che i ricorrenti non versassero in colpa nella determinazione
della causa di inammissibilità, deve essere disposto a carico di ciascuno di
loro, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di versare la somma di €
3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, somma così determinata in
considerazione delle ragioni di inammissibilità.

Infine, gli imputati devono essere condannati in
solido alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalla parte
civile costituita il cui difensore ha partecipato all’udienza e depositato
conclusioni scritte. Si ritiene equo procedere alla liquidazione nella misura
indicata in dispositivo.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila
ciascuno in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, inoltre, gli imputati
in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel
presente giudizio dalla parte civile S.G. che liquida in complessivi euro
3.000,00 oltre accessori di legge.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 novembre 2022, n. 45135
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