Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2131

Lavoro, Licenziamento collettivo, Criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, Rito cd. “Fornero”, Progetto di ristrutturazione aziendale riferito a più unità produttive, Scelta dei lavoratori da licenziare, Regime sanzionatorio, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. Con sentenza n. 884 depositata il 4.3.2021 la Corte di appello di Roma, anche richiamando le pronunce di altre Corti territoriali sul medesimo caso, per quello che ancora interessa in questa sede, ha respinto il reclamo proposto da E.T. s.p.a. avverso la sentenza con cui il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il licenziamento collettivo intimato a M.C. con lettera del 21.7.2017 e ne aveva ordinato la reintegra nel posto di lavoro con riconoscimento delle tutele ex art. 18 comma 4 legge n. 300 del 1970.

2. La Corte di merito ha preliminarmente respinto il motivo di gravame con il quale si deduceva un errore commesso dal primo giudice dell’opposizione che aveva provveduto al deposito del solo dispositivo di sentenza in udienza, e, quindi, aveva in sostanza depositato una sentenza senza motivazione in violazione della disciplina compiutamente prevista dalla legge n. 92 del 2012 sulla fase di decisione, così rigettando l’eccezione di asserita nullità della pronuncia.

3. La Corte distrettuale poi – ritenuta infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata con riguardo al diverso regime sanzionatorio conseguente alla violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi e dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, considerata l’assoluta differenza tra le due tipologie di recesso – ha, poi, accertato l’illegittimità del licenziamento in considerazione della immotivata (in quanto non illustrata nella comunicazione di avvio della procedura) limitazione della platea dei dipendenti a talune sedi aziendali, anche a fronte di un progetto di ristrutturazione che ricomprendeva tutto il complesso aziendale e in assenza di allegazioni e prova circa la infungibilità (e dunque, la impossibilità di reimpiego in altri settori aziendali) del lavoratore.

4. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a cinque motivi la società, richiedendo la rimessione della causa alle sezioni unite della Corte o, subordinatamente, in pubblica udienza. Ha resistito il lavoratore con controricorso.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. Con il primo motivo di ricorso la società denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5 della legge n. 223 del 1991 e 41 Cost. (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato una lettura della normativa che escluda l’esigibilità della comparazione tra i dipendenti quando questa risulti oggettivamente incompatibile con le esigenze aziendali per ragioni geografiche, essendo collocate le diverse sedi operative della società a centinaia di chilometri l’una dall’altra e imponendo, la valutazione globale dell’azienda, conseguenze irrazionali quali i trasferimenti di decine di dipendenti a notevole distanza dalle rispettive sedi di assegnazione. La determinazione dell’ambito del licenziamento collettivo deve, invece, essere rimessa unicamente alla scelta del datore di lavoro ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico-produttive, in virtù del fondamentale principio di libertà di iniziativa economica dettato dall’art. 41 Cost.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto che non potessero privilegiarsi, tra i vari criteri di scelta dei lavoratori, quelli delle esigenze tecnico-produttive a fronte delle esigenze, sottolineate dallo stesso giudice di merito, delle esigenze di rinnovamento delle strategie aziendali per mantenere competitività sul mercato, trattandosi dunque di una riduzione “mirata” a specifici profili tecnici e non certo di personale fungibile.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4, 5 e 7 della legge n. 300 del 1970 e degli artt. 5 4, 5 e 17 della legge n. 223 del 1991 (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3 cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente applicato la tutela reintegratoria posto che l’esubero del profilo di appartenenza del lavoratore sussisteva e, dunque, la violazione del criterio di scelta ha configurato un vizio meramente formale e non sostanziale. Nel caso di specie, non è stata lamentata la violazione dei criteri di scelta bensì questioni relative alla ‘collocazione aziendale e ai profili delle mansioni, la cui violazione determina l’applicazione del comma 7 dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Inoltre, la Corte territoriale non ha verificato, in concreto, che il lavoratore non fosse in esubero, limitandosi ad effettuare una valutazione in astratto.

4. La ricorrente denuncia, con il quarto motivo, la violazione e falsa applicazione degli artt. 5, comma 3 della legge n. 223 del 1991, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, in contrasto con gli artt. 3, 24, 41 Cost. per violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza e della libertà di iniziativa economica privata (ex art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, cod. proc. civ.). Deduce che la sentenza impugnata ha erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, ai licenziamenti collettivi (reintegrazione nel posto di lavoro) e ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo (risarcimento del danno), non sussistendo alcuna esigenza razionale di diversificare fattispecie che hanno il medesimo impatto sociale e che applicano i medesimi criteri di scelta.

5. Con il quinto motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 co. 57 legge n. 92 del 2012, nonché degli artt. 111 Cost. 132 cpc e 118 disp. att. in tema di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cpc, per avere errato la Corte di appello nel non avere ravvisato la nullità/annullabilità del provvedimento reso dal giudice dell’opposizione del rito cd. “Fornero” in fase di decisione che, contrariamente a quanto disposto dal comma 57 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012, aveva provveduto, nel giorno dell’udienza di discussione, al deposito del solo dispositivo, come previsto dall’art. 429 cpc, provvedendo, poi, al deposito della sentenza integrale solo successivamente.

6. Il ricorso non merita accoglimento, né deve ritenersi ricorrano i requisiti per l’assegnazione della controversia alle Sezioni Unite, non rappresentando – le questioni sottoposte al vaglio di questo Collegio – profili di originalità rispetto agli orientamenti consolidati di questa Corte.

6.1. Va, invero, disattesa l’istanza della società di rimessione del ricorso, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite ex art. 374 c.p.c., al primo presidente, al quale avrebbe dovuto essere rivolta ai sensi e nei termini dell’art. 376, comma 2, c.p.c. e 139 disp. att. c.p.c.; posto che, anche laddove proposta dal pubblico ministero ex art. 376, u.c., c.p.c., la stessa rappresenta una mera sollecitazione all’esercizio di un potere discrezionale (Cass. n. 12962 del 2016; Cass. n. 8016 del 2012), nell’istanza non vengono evidenziate questioni di diritto che siano state decise in senso difforme dalla sezione semplice, né il ricorso presenta una questione di massima di particolare importanza che non sia stata già decisa da conforme giurisprudenza di questa Corte dalla quale non si ravvisa ragione per discostarsi.

6.2. Analogamente va respinta la richiesta di trattazione in pubblica udienza, rientrando la valutazione degli estremi per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, u.c., c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); il collegio ben può escludere, nell’esercizio di tale valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza proprio “in ragione del carattere consolidato dei 8 principi di diritto da applicare al caso di specie” (cfr. Cass. SS.UU. n. 14437 del 2018).

6.3. Inoltre, deve specificarsi che il tema della illegittimità del licenziamento collettivo intimato dalla società ricorrente è già stato più volte affrontato da ‘questa Corte con varie pronunce (tra le altre Cass. n. 1382/2022; Cass. n. 1242/2022; Cass. n. 2390/2022; Cass. n. 1244/2022; Cass. n. 2711/2022) che questo Collegio ritiene condivisibili per le pregevoli argomentazioni svolte e che espressamente vengono richiamate.

7. Iniziando la disamina dal primo e dal secondo motivo del ricorso, che concernono le esigenze tecnico-produttive dedotte dalla società a base del licenziamento collettivo (e proseguendo, successivamente, con la valutazione dei motivi attinenti al regime sanzionatorio), le censure non risultano fondate in quanto non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha evidenziato la carenza della comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991 di avvio della procedura con specifico riferimento alla necessità della società di circoscrivere la procedura alla sede territoriale.

8. Invero, questa Corte ha già affermato, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, che – ferma la regola generale di cui al primo comma dell’art. 5, l. n. 223 del 1991, secondo cui “l’individuazione dei lavoratori da licenziare” deve avvenire avuto riguardo al “complesso aziendale” (cfr. Cass. n. 5373 del 2019) – la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore o sede territoriale ove ricorrano rito cd. “Fornero”, tuttavia è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991 ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015, Cass. n. 2429 e 22655 del 2012, Cass. n. 9711 del 2011). Invero, il datore di lavoro ben può circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (Cass. n. 4678 del 2015).

Qualora, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna produttive da intimati sono dell’obbligo di specificazione delle unità sopprimere, i licenziamenti illegittimi per violazione specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (cfr. Cass. n. 4678 cit., Cass. n. 22178 del 2018, Cass. n. 12040 del 2021).

9. La delimitazione della platea dei lavoratori destinatari del provvedimento di messa in mobilità o di licenziamento è, peraltro, condizionata – come anche recentemente ribadito da questa Corte (cfr. Cass. n. 981 del 2020, Cass. n. 14800 del 2019) – agli elementi acquisiti in sede di esame congiunto, non potendo rappresentare l’effetto dell’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma dovendo essere giustificata dalle esigenze organizzative fondanti la riduzione del personale adeguatamente esposte nella comunicazione di cui all’art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni che determinano l’esubero di personale e le unità lavorative che l’azienda intenda concretamente espellere (ex plurimis Cass. n. 32387 del 2019, Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 22825 del 2009; Cass. n. 880 del 2013).

10. Ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, infatti, è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991, ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (sin da Cass. n. 8474 del 2005 e, più di recente, Cass. n. 15953 del 2021; Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015; Cass. nn. 2429 e 22655 del 2012; Cass. n. 9711 del 2011), ma anche che gli addetti prescelti non svolgessero mansioni fungibili con quelle di dipendenti assegnati ad altri reparti o sedi (cfr., tra le altre, Cass. n. 13783 del 2006; Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 15953 del 2021).

11. Nel caso di specie, la Corte territoriale, con accertamento insindacabile in questa sede di legittimità, ha rilevato che le ragioni tecnico-produttive che richiedevano la delimitazione territoriale della platea del lavoratori da licenziare non hanno costituito oggetto della comunicazione di apertura della procedura ex lege n. 223 del 1991, ove invece si faceva riferimento esclusivo alle esigenze di ristrutturazione di tutto il complesso aziendale, traendone quindi le conseguenze conformi alla giurisprudenza di legittimità citata.

12. La Corte territoriale, ritenendo – nel caso in esame – indispensabile per un effettivo controllo sindacale della decisione di mobilità anche la comunicazione, in sede di apertura della relativa procedura, delle specifiche condizioni in cui lavoravano gli addetti delle altre sedi, ragioni per cui non si era ritenuto di estendere la selezione pure agli addetti alle altre strutture che gestiva, ha rispettato i principi sopra enunciati della necessaria verifica della compatibilità, quanto al contenuto della comunicazione preventiva, della disciplina di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991 estesa anche alla chiusura di un insediamento produttivo, con i risultati in concreto perseguibili in relazione a tale chiusura.

13. In ordine, poi, alla questione, pure agitata nel ricorso, del trasferimento di sede geografica dei lavoratori interessati dalla procedura, si osserva che, per quanto innanzi precisato, non si affatto escluso che le ragioni tecnico-organizzative possano condurre alla limitazione della platea dei licenziabili ad una determinata sede territoriale, potendo assumere rilievo anche il fatto, da accertarsi sulla base delle circostanze concrete, che il mantenimento in servizio dei dipendenti appartenenti all’unità soppressa esigerebbe il loro trasferimento in altra sede (cfr., da ultimo, Cass. n. 36451 del 2021); tuttavia è pur sempre indispensabile che il datore “indichi nella comunicazione prevista dall’art. 4, terzo coma, I. n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti” (ancora Cass. n. 12040/2021 cit.).

14. Pertanto, va ribadito il principio secondo cui, di per sé, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo, ai fini dell’esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l’azienda e interferenza sull’assetto organizzativo”, non contemplandosi, tra i parametri dell’art. 5, I. n. 223 del 1991, “la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all’esigenza di assicurare che i procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa, preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro” (v. Cass. n. 17177 del 2013; Cass. n. 32387 del 2019).

15. La sentenza impugnata non è neppure in contrasto con il principio per il quale, in tema di licenziamento collettivo, l’annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della I. n. 223 del 1991 non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi (Cass. n. 13871 del 2019; Cass. n. 24558 del 2016), atteso che detto canone evidentemente opera laddove la platea dei lavoratori licenziabili sia stata correttamente limitata e, nell’ambito più ristretto così definito, i criteri di scelta adottati si assumano malamente applicati; detto principio non si attaglia, invece, alla fattispecie sottoposta all’attenzione del laddove la limitazione della platea dei licenziabili, non estesa all’intero complesso aziendale, è stata ritenuta, a monte, illegittima.

16. Confermato il capo di sentenza che ha ritenuto illegittimo il licenziamento, possono essere esaminate le censure concernenti il regime sanzionatorio:

invero, “in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale debba riferirsi a più unità produttive ma il datore di lavoro, nella fase di individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, tenga conto unilateralmente dell’esigenza aziendale collegata all’appartenenza territoriale ad una sola di esse, si determina violazione dei criteri di scelta per la quale l’art. 5, comma 1, della I. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, della I. n. 92 del 2012, prevede l’applicazione del comma 4 dell’art. 18 novellato della l. n. 300 del 1970” (v. Cass. n. 18847 del 2016; Cass. n. 20502 del 2018).

17: Da tempo, infatti, questa Corte (Cass. n. 12095 del 2016; Cass. n. 19320 del 2016; Cass. n. 2587 del 2018; Cass. n. 19010 del 2018) ha interpretato il comma 3 dell’art. 5 della I. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, comma 46, I. n. 92 del 2012, distinguendo il “caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12”, per il quale opera la tutela meramente indennitaria, dal “caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”, per il quale si applica la tutela reintegratoria: mentre la non corrispondenza della comunicazione al modello legale di cui al comma 9 dell’art. 4 della I. n. 223 del 1991 costituisce “violazione delle procedure”, il diverso “caso di violazione dei criteri di scelta” si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o ‘illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive.

18. Del tutto coerentemente la Corte territoriale ha ritenuto che, nella specie, non ricorresse una mera violazione procedurale per incompletezza delle comunicazioni prescritte bensì una violazione sostanziale rappresentata dall’applicazione di criteri di scelta ad una platea di licenziabili illegittimamente delimitata rispetto all’intero complesso aziendale, con conseguente applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 4, I. n. 300 del 1970, come novellato dalla I. n. 92 del 2012.

19. Parte ricorrente illustra, come autonomo motivo di censura, la circostanza che la Corte di Appello avrebbe erroneamente respinto la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla società, concernente il diverso regime sanzionatorio riservato, in caso di violazione dei criteri di scelta, ai licenziamenti collettivi rispetto ai licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo, non ravvedendosi – secondo l’opinione dell’istante – “alcuna esigenza di diversità tra le due fattispecie”.

20. La doglianza non ha pregio.

20.1. E’ opportuno premettere che, secondo questa Corte (da ultimo v. Cass. n. 14666 del 2020, con la giurisprudenza ivi richiamata), non può costituire motivo di ricorso per cassazione la prospettazione di una questione di legittimità costituzionale, in quanto è riservata al potere decisorio del giudice la facoltà di sollevare o meno la questione dinanzi alla Corte costituzionale, mentre alle parti non è attribuito alcun potere di iniziativa al riguardo, potendo, eventualmente, limitarsi a sollecitare il giudice a sollevare la questione di costituzionalità, che non solo non può costituire unico e diretto oggetto del giudizio, ma soprattutto può sempre essere proposta, o riproposta, dalla parte interessata, oltre che prospettata d’ufficio, in ogni stato e grado del processo; ne deriva l’inammissibilità del motivo di ricorso per cassazione formulato come diretto esclusivamente a prospettare una questione di legittimità costituzionale oppure a censurare il concreto esercizio del potere che compete al Giudice in materia, perché non può essere configurato al riguardo un vizio del provvedimento impugnato idoneo a determinarne l’annullamento in sede di legittimità.

21. Ove la censura della società sia intesa nel senso che la disciplina di tutela, così come interpretata da questa Corte ed applicata dai giudici del merito, ponga dubbi di legittimità costituzionale, sollecitando in tal modo la rimessione alla Corte costituzionale, il Collegio reputa che la questione, per come prospettata, sia priva di fondamento.

21.1. Sin dalla sentenza n. 194 del 1970 il Giudice delle leggi ha affermato che l’attuazione dei principi cui si ispira l’art. 4 della Costituzione, volti al contenimento della libertà del recesso del datore di lavoro, resta “affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi e dei modi” (nello stesso senso, successivamente, v. C. cost. n. 55 del 1974, n. 189 del 1975, n. 2 del 1986, n. 194 del 2018); più di recente, nel sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale proprio l’art. 18 novellato dalla I. n. 92 del 2012, la Corte costituzionale ha precisato che “la molteplicità dei possibili rimedi contro i licenziamenti illegittimi e l’assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non escludono che le difformità tra i regimi di tutela debbano essere sorrette da giustificazioni razionali”, sottolineando che “nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, è vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza”, tenuto conto delle disposizioni costituzionali “sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma, Cost.) e sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.)” (cfr. C. cost. n. 59 del 2021).

21.2. Orbene, evidenziato che l’interpretazione patrocinata dalla società ricorrente si tradurrebbe invece in un trattamento deteriore per la persona del lavoratore, che è proprio la parte del rapporto di lavoro che le richiamate pronunce della Corte costituzionale hanno inteso salvaguardare, ben può il legislatore prevedere un diverso regime sanzionatorio in caso di illegittimità di un licenziamento collettivo rispetto al caso di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo plurimo, rientrando tale scelta nell’ambito della sua potestà legislativa; né tale scelta appare irragionevole, sub specie di una ingiustificata diversità di trattamento, ponendo a confronto discipline tra loro così eterogenee, qual è quella del licenziamento ex lege n. 223 del 1991 che ha procedure e presupposti diversi rispetto alla disciplina del licenziamento ex lege n. 604 del 1966; tanto è confermato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte che ha da tempo escluso la “conversione” del licenziamento collettivo in licenziamento individuale, proprio sull’argomento che “dopo l’entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo che si distingue dal licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, essendo specificatamente caratterizzato in base alle dimensioni occupazionali dell’impresa, al numero dei licenziamenti, all’arco temporale entro cui gli stessi sono effettuati, ed essendo inderogabilmente collegato al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell’azienda” (Cass. n. 5794 del 2004; Cass. n. 25353 del 2009; Cass. n. 22167 del 2010; Cass. n. 24566 del 2011).

22. Il quinto motivo, infine, è anche esso infondato.

23. Il dato da cui partire è rappresentato dal principio, affermato più volte in sede di legittimità, secondo cui che la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione; ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (cfr. per tutte Cass. n. 26419/2020).

23.1. Nella fattispecie, la ricorrente non ha subito alcun pregiudizio nel suo diritto di difesa atteso che, successivamente, la sentenza integrale (comprensiva anche della motivazione) è stata regolarmente depositata tanto è che la società ha presentato rituale ricorso per cassazione.

23.2. Né risulta, ovvero sia stato allegato, che il dispositivo erroneamente depositato alla fine dell’udienza di discussione fosse diverso da quello della sentenza integrale successivamente pubblicata per cui, in sostanza, la sua preliminare emissione rappresenta effettivamente, come sostenuto dalla Corte distrettuale, un mero quid pluris rispetto alla disciplina speciale, non sanzionato peraltro a pena di nullità.

23.3. E’ opportuno, infine, sottolineare che anche un eventuale tardivo deposito della sentenza, oltre i termini previsti dal codice di rito (qualificati pacificamente come ordinatori), non è sanzionato con alcuna nullità per cui la loro inosservanza non può avere alcun rilievo ai fini della decisione (Cass. n. 14194/2002; Cass. n. 7000/1986).

24. In conclusione, il ricorso deve rigettarsi.

25. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione ai Difensori del controricorrente dichiaratosi antistatari.

26. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi e in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi in favore dei Difensori del controricorrente dichiaratisi antistatari. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 gennaio 2023, n. 2131
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: