Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2023, n. 3692

Lavoro, Demansionamento, Svilimento della professione, Danno da mobbing, Danno alla professionalità, Straining, Ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, Danno esistenziale, Risarcimento, Accoglimento

 

Rilevato che

 

1. con sentenza n. 1438/2016 del 24 novembre 2016, la Corte d’appello di Catanzaro, decidendo sulle impugnazioni proposte da F.R. e dall’Università della Calabria, confermava la pronuncia del Tribunale di Cosenza nella parte in cui aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal R., dipendente amministrativo dell’Università con livello D, riconosciuto il demansionamento lamentato e disposto la reintegra nelle mansioni corrispondenti all’inquadramento posseduto con condanna dell’università al danno non patrimoniale e pari alla “differenza” tra l’importo di euro 35.189,31 (per il danno biologico permanente accertato, a mezzo ctu medico–legale, sulla base di una percentuale pari al 20%) e quello liquidabile a titolo di danno biologico in applicazione delle tabelle Inail, oltre alla somma di euro 4.121,00 per indennità temporanea ed euro 310,00 per rimborso delle spese mediche sostenute;

riteneva la Corte territoriale che effettivamente vi fosse stata l’assegnazione a mansioni inferiori del R. ed in relazione a questa che fosse stato provato il danno biologico;

escludeva la fondatezza della domanda di risarcimento del danno da mobbing, ritenendolo insussistente;

al riguardo evidenziava che in sede di ricorso di primo grado il R. non aveva allegato quale fosse il suo bagaglio di conoscenze professionali, (indicandone puntualmente il contenuto) che era andato irrimediabilmente perduto a causa del progressivo svuotamento delle mansioni né aveva allegato quali erano stati i corsi di aggiornamento ai quali aveva richiesto di partecipare e che gli avrebbero consentito – in considerazione dell’oggetto – di accrescere il suo bagaglio professionale;

quanto alle altri voci di danno, escludeva che il danno morale potesse essere risarcito sulla base della generica affermazione della lesione di un interesse costituzionalmente tutelato, mentre in ordine al danno esistenziale (quale lesione della vita di relazione sub specie di allontanamento dalla vita politica alla quale prima partecipava) rilevava che il teste L. (cfr. deposizione resa in primo grado) non aveva riferito nulla di significativo, essendosi limitato ad affermare solo che ad un certo punto il R. si allontanò dalla vita politica, affermazione che, però, non consentiva di mettere in alcuna correlazione tale evento con le vicende lavorative;

2. avverso tale statuizione ha proposto ricorso F.R. con tre motivi;

3. l’Università della Calabria ha resistito con controricorso;

4. il ricorrente ha depositato memoria.

 

Considerato che

 

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 cod. civ., 1218 cod. civ., e 2087 cod. civ., in relazione all’art. 2059 cod. civ., – ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. -; violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 cod. civ. e ss., dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione alla mancata valutazione delle prove raggiunte in primo grado – ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; violazione e falsa applicazione dell’art. 1226 cod. civ. e 432 cod. proc. civ. in relazione alla mancata valutazione in via equitativa del danno – ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; violazione e falsa applicazione, dell’art. 35 Cost.;

premette che le norme la cui violazione è denunciata sono poste dal legislatore a tutela di un diritto assoluto del lavoratore, quello inerente alla propria personalità e professionalità;

censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la proposta domanda risarcitoria con riferimento al “danno alla professionalità” derivante dal demansionamento subito;

deduce che la colpevole condotta dell’U. ha determinato un danno alla sua professionalità, quale dipendente di elevato inquadramento addetto, con corrispondente grado di responsabilità, alla “gestione amministrativa e contabile” di un Dipartimento universitario ed ha comportato, per la forzata inattività cui egli è stato costretto, una inevitabilmente l’obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in anni peraltro in cui si sono verificate straordinari interventi legislativi di riforma delle università e della regolamentazione fiscale e contabile degli Enti pubblici periferici e autonomi;

aggiunge che, per la mancata assegnazione di mansioni, esso ricorrente ha perso la chance di aggiudicarsi i premi di produttività, sempre ricevuti negli anni passati;

rileva che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che il danno alla professionalità, considerata quale insieme di conoscenze teorico-pratiche che il lavoratore può acquisire prestando la sua attività lavorativa in mansioni confacenti, conseguente al demansionamento o alla dequalificazione debba essere dimostrato in giudizio dal lavoratore anche attraverso presunzioni semplici, come statuito dall’art. 2729 cod. civ.;

assume che vi erano state precise allegazioni e così: la natura e la durata del demansionamento, la gravità dello stesso, la conoscibilità dell’evento all’esterno, la perdita della professionalità sulla base delle quali ritenere presuntivamente sussistente il pregiudizio;

inoltre, era stato dedotto il mancato guadagno del premio annuale di produttività a causa del conseguimento di una valutazione bassissima, in luogo delle precedenti di livello nettamente superiore, causata essenzialmente dal demansionamento subito, a partire dal 2003, e dalla perdita dei compiti rilevanti che ne avevano da sempre caratterizzato la prestazione lavorativa;

aggiunge che nel corso del giudizio era stato provato che: a) le mansioni assegnate al ricorrente in epoca successiva all’inizio del 2003 erano state mansioni minime (fare fotocopie, compilare lettere prestampate e completare mandati di pagamento) o addirittura nulle; b) la suddetta condizione si era protratta dagli inizi del 2003, e quindi da oltre 7 anni; c) i colleghi di lavoro del ricorrente e i suoi superiori erano a conoscenza del suo livello di inquadramento prima, e delle mansioni (o della totale privazione delle stesse) assegnate dopo (cfr. testi C., P., A. e S.); d) il ricorrente non aveva più avuto dal 2003 in poi la possibilità di partecipare ad attività formative;

2. il motivo è fondato;

a fronte di un accertato sostanziale svuotamento di mansioni e di uno svilimento dei compiti assegnati al R., ridotti ad attività meramente esecutive, prive di ogni autonomia concettuale (v. pag. 8 della sentenza impugnata) e degli elementi allegati a sostegno del danno professionale (caratteristiche dei compiti svolti fino al 2003, durata e gravità del demansionamento, veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in ragione degli interventi legislativi di riforma delle Università e della regolamentazione fiscale e contabile degli Enti pubblici periferici e autonomi cui aveva anche aggiunto la perdita di chances di aggiudicarsi i premi di produttività), vi era quanto richiesto da questa Corte di legittimità per integrare una deduzione presuntiva giuridicamente valida;

come da questa Corte anche di recente affermato (v. Cass. 8 aprile 2022, n. 11499), ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni ex art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e più grave figura della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego;

è stato anche puntualizzato, sempre in tema di mansioni, (v. Cass. 18 maggio 2012, n. 7963) che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 cod. civ. (e così anche l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento si traduce in una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie

capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa;

è stato, inoltre, affermato, nella specifica materia del pubblico impiego privatizzato, che, ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass., 26 novembre 2008, n. 28274; si vedano, nel medesimo senso, Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25743; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 23 luglio 2019, n. 19923; Cass. 2 ottobre 2019, n. 24585);

nella specie, dunque, non si trattava di riconoscere un danno alla professionalità per il solo fatto del demansionamento (come se si trattasse di un danno in re ipsa) ma di valutare tutti gli elementi allegati (e così il contenuto in termini di professionalità e di elevata responsabilità dei compiti svolti per lunghi anni prima del lamentato demansionamento, la prolungata e ingiustificata emarginazione e pressoché totale inoperosità, la veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in anni caratterizzati da interventi legislativi riformatori, i dinieghi opposti alle richieste di partecipazione corsi di formazione) quali elementi utili ai fini della prova, anche presuntiva, della lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità sul luogo di lavoro (art. 1, 2 Cost.) e di degrado della professionalità acquisita e dei conseguenti riflessi sulla sua vita sociale e di relazione;

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ. e 2043 cod. civ. in relazione all’art. 2059 cod. civ. relativamente all’esclusione della figura del mobbing – art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. relativamente alla mancata valutazione delle prove espletate in giudizio – art. 360, n. 3, cod. proc. civ.; insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia – art. 360, n. 5, cod. proc. civ.;

censura la sentenza nella parte in cui ha escluso la sussistenza del mobbing nella vicenda lavorativa che ha interessato esso ricorrente;

rileva che sulla base del corposo materiale probatorio acquisito in giudizio (attestante che: – il suo trasferimento aveva determinato non solo un insopportabile demansionamento ma anche una totale privazione delle mansioni; si era trattato di un trasferimento che – come evidenziato nella relazione del Collegio dei Probiviri – non solo non era stato debitamente motivato ma conteneva anche taluni passaggi così contraddittori tra loro da suscitare l’impressione di una certa pretestuosità; – la vicenda lavorativa era stata caratterizzata anche dall’esercizio della potestà disciplinare in maniera altrettanto pretestuosa e vessatoria), la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere la sussistenza di un comportamento datoriale violativo dell’obbligo di tutela di cui all’art. 2087 cod. civ. realizzatosi attraverso una condotta sistematica e protratta nel tempo che aveva finito per assumere le forme di una prevaricazione o persecuzione psicologica con conseguenti mortificazione morale ed emarginazione tipiche del mobbing;

aggiunge che il lavoratore non era – e non è – tenuto a dimostrare l’elemento soggettivo della condotta persecutoria tenuta dal datore di lavoro, come erroneamente statuito dalla Corte territoriale;

4. il motivo è fondato nei termini di seguito illustrati;

secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C. si può ritenere che è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo;

è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164);

al di là di denominazioni destinate ad avere più che altro valenza sociologica, è illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilità colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioè nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’art. 2087 cod. civ.;

è, infatti, comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 cod. civ.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1509) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972) e questa S.C. ha del resto già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e, prima Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.P.R. n. 1124/1965 e d.lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. “costrittività organizzativa”), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’art. 2087 cod. civ.;

ed è evidente che, se il datore di lavoro abbia tenuto un comportamento consono al contesto, per escludere il danno dovrebbe in realtà vietarsi l’attività, il che non può essere se non quando la legge lo stabilisca (v. anche Cass. 1509/2021, cit.);

tutto ciò permette alcune precisazioni, nel solco di cui a Cass. 3291/2016, cit.;

nella specie, la Corte territoriale, ha accertato un grave e protratto demansionamento causativo di danno alla salute e, dunque, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.; muovendo da ciò, è allora evidente che anche gli altri episodi denunciati, lungi dal poter essere negletti e sviliti ad episodi non denotanti, in sé, un intento persecutorio avrebbero dovuto necessariamente essere apprezzati nel quadro generale della vicenda lavorativa, al fine di valutare la complessiva legittimità o meno dei comportamenti datoriali anche rispetto all’obbligo (del pari riconducibile all’art. 2087 cod. civ.) di evitare lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente “stressogeno”;

quello che andava indagato era l’esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato nella quale il R. avesse subìto azioni ostili, anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo – quindi non rientranti, tout court, nei parametri tradizionali del mobbing – tali, comunque, da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul suo diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare, non solo il demansionamento ed ancor più, come nella specie, una privazione delle mansioni, ma anche situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291);

la denunciata violazione dell’art. 2087 cod. civ., norma che tende a realizzare la tutela di un interesse di carattere generale ed impone di adoperare le cautele che rendano sicuro l’ambiente di lavoro siccome come comprensivo di tutti i luoghi in cui il lavoratore ha possibilità di accesso, quale che ne sia il motivo ed a prescindere dalla ricorrenza in concreto di esigenze connesse alle mansioni espletate;

in questa cornice, l’art. 2087 cod. civ. postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che esulano il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente essendo estese all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato;

diviene imprescindibile, in quest’ottica, porre attenzione a tutti i comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi;

5. con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 cod. civ. relativamente all’esclusione del danno morale ed esistenziale – art. 360, n. 3, cod. proc. civ. -; violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. relativamente alla mancata valutazione delle prove espletate in giudizio – art. 360, n. 3, cod. proc. civ. -; violazione e falsa applicazione dell’art. 35 Cost; insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia;

censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza del danno esistenziale e, in generale, disconosciuto la sussistenza del danno morale in capo al R.;

rileva che la svolta prova aveva consentito di acclarare che il R. aveva subito anche danni di tipo esistenziale, essendosi modificate le sue abitudini di vita (non solo professionale), con conseguente frustrazione delle aspettative maturate in ordine al rapporto lavorativo oggetto di causa;

6. il motivo, in quanto afferente ad una riconsiderazione di tutti gli aspetti di violazione dell’art. 2087 cod. civ. sopra considerati, è assorbito nella decisione dei due motivi che precedono;

7. da tanto consegue che vanno accolti i primi due motivi di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, assorbito il terzo; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame tenendo conto dei principi sopra affermati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità;

8. non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater d.P.R. n. 115 del 2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie i primi due motivi di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 febbraio 2023, n. 3692
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: