Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 marzo 2023, n. 6838

Lavoro, Licenziamento, Organizzazione di tendenza, Licenziamento determinato da motivo di ritorsione, Illegittimità, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. il Tribunale di Savona, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, confermò – per quanto qui rileva – l’ordinanza con cui era stata dichiarata la nullità del licenziamento intimato dalla Associazione Albergatori di X. alla dipendente R.D. in data 13 ottobre 2017, con ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condanna al risarcimento del danno mediante versamento di una indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal recesso al ripristino del rapporto;

2. interposto reclamo dalla soccombente Associazione, la Corte di Apello di Genova ha confermato la pronuncia di primo grado; in estrema sintesi, ha ritenuto non sorretto da giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato; ha invece considerato, così come il primo giudice, che “la scelta di licenziare” la D. fosse da “interpretarsi come una reazione al suo rifiuto di rinunciare al superminimo”, qualificando il recesso come animato da intento ritorsivo; quanto alla tutela applicabile, infine, la Corte ha richiamato il principio stabilito da Cass. n. 19695 del 2016 secondo cui la tutela reale si applica anche alle cd. organizzazioni di tendenza nel caso di licenziamenti nulli “in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia”;

3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente con sette motivi; ha resistito con controricorso l’intimata;

le parti hanno comunicato memorie;

 

Considerato che

 

1. i motivi di ricorso possono essere sintetizzati come di seguito;

1. 1. con il primo si denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 4, comma 1, I. n. 108 del 1990, degli artt. 2082 e 2195 .c.c. dell’art. 18 I. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c,p,c. – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115, comma 1, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”; si censura il mancato riconoscimento della natura di “organizzazione di tendenza” all’Associazione ricorrente, criticando la conseguente applicazione della tutela reale per la nullità del licenziamento;

1.2. col secondo mezzo si denuncia la nullità della sentenza, a mente del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., lamentando la “inesistenza, mera apparenza o insanabile contraddittorietà della motivazione”, in ordine alla affermata natura imprenditoriale dell’associazione;

1.3. con il terzo motivo si deduce l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., criticando la sentenza impugnata per avere ritenuto non contestata dall’Associazione la circostanza circa “l’asserita disponibilità della lavoratrice a trasformare il suo contratto in part time”;

1.4. con il quarto motivo si critica “il medesimo punto della motivazione […] per violazione delle regole in materia di onere di specifica contestazione delle allegazioni avversarie, nonché di onere e valutazione della prova”;

1.5. con il quinto motivo si denuncia: “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 I. n. 604 del 1966, dell’art. 8, comma 1, I. n. 300 del 1970, dell’art. 30, comma 1, I. n. 183 del 2010, degli artt. 18, comma 1, 39 e 41 Cost., in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3, c.p.c.”; si censura l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte di Appello “laddove ha escluso la sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento nonostante fossero stati accertati giudizialmente I relativi presupposti”;

1.6. col sesto mezzo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 I. n. 604 del 1966, dell’art. 18, comma 1, I. n. 300 del 1970, in combinato disposto con l’art. 1345 c.c. e dell’art. 30, comma 1, I. n. 183 del 2010, sempre in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., criticando la Corte di Appello per avere ritenuto il licenziamento avere natura ritorsiva, “nonostante la motivazione dia atto che lo scopo di essa consisteva in realtà nella riduzione dei costi di gestione a fronte di una consistente diminuzione del numero degli associati e della riduzione dei ricavi”;

1.7. con il settimo motivo si denuncia: “violazione e/o falsa applicazione egli artt. 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”; si censura “l’erronea applicazione delle norme che individuano i requisiti della prova presuntiva e la sua valutazione giudiziale in relazione all’affermazione della natura ritorsiva del licenziamento”;

2. il ricorso che, con molteplici censure, critica diffusamente la sentenza impugnata sia in ordine alla dichiarata natura ritorsiva dell’atto di Recesso, sia avuto riguardo al regime sanzionatorio applicato, non può trovare accoglimento;

2.1. opportuno premettere in diritto che, secondo questa Corte (tra le più recenti v. Cass. n. 26399 del 2022; Cass. n. 26395 del 2022; Cass, n. 21465 del 2022, alle quali si rinvia anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.), per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causati e del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011);

2.2. dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 I. n. 604 del 1966, ma esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742 del 2018; Cass. n. 18283 del 2010); in particolare, ben può il giudice di merito valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass. n. 23583 del 2019);

2.3. è stato altresì specificato che l’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di avo o dall’onere di provare, ai sensi dell’art. 5 della I. n. 604 del 1966, l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso (Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 27325 del 2017; Cass. n. 26035 del 2018);

2.4. non è dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito, con un accertamento di fatto non suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano nella specie la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata (per tutte Cass. n. 26399 del 2022); né tanto meno può criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per il ragionamento presuntivo operato, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010); va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017);

3. tanto premesso in diritto, occorre esaminare i motivi del ricorso per cassazione secondo l’ordine logico-giuridico delle questioni, a partire dall’esistenza o meno di un giustificato motivo di licenziamento, con onere della prova a carico del datore di lavoro, passando poi all’esistenza o meno di un atto di licenziamento illecito per ritorsione, con onere della prova a carico della lavoratrice, per finire all’individuazione del regime sanzionatorio;

3.1. il quinto motivo di ricorso non può trovare accoglimento perché formalmente prospetta un errore di diritto concernente l’esclusione della sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento addotto dall’Associazione, mentre, nella sostanza, involge apprezzamenti di merito e valutazioni del materiale probatorio avuto riguardo al convincimento espresso dai giudici del merito che hanno ritenuto come la situazione di crisi (con conseguente necessità di ridurre i costi del personale) dedotta a fondamento del recesso non sia stata provata dalla datrice di lavoro, sulla quale ricadeva il relativo onere”;

l’assunto è coerente con la giurisprudenza di questa Corte che sebbene abbia affermato come, ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisca un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, ha tuttavia precisato che “ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta”; invero, resta “saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso”, ovviamente affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito: così, una volta necessariamente esplicitata la ragione organizzativa o produttiva posta a giustificazione causale della risoluzione del rapportò, anche ove il licenziamento sia motivato dall’esistenza di una crisi aziendale o di un calo del fatturato, “ed in giudizio si accerta invece che la ragione indicata non sussiste, il recesso può essere dichiarato illegittimo dal giudice del merito non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore; ovverosia l’inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento così come giudizialmente verificata rende in concreto il recesso privo di effettiva giustificazione” (cfr. Cass. n. 25201 del 2016 e Cass. n. 10699 del 2017);

3.2. una volta acclarata l’insussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, la Corte, confermando il convincimento già espresso dal rimo giudice, ha ritenuto che non concorresse, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito ed ha considerato provata la natura ritorsiva del recesso sulla scorta di una serie di elementi;

si tratta di un accertamento di fatto, non suscettibile di riesame in questa sede così come non lo è il ragionamento indiziario svolto dai giudici del merito (v. supra par. 2.4), con conseguente inammissibilità del sesto e del settimo motivo di ricorso;

le Sezioni unite civili hanno più volte ribadito l’inammissibilità di censure che “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, così travalicando “dal modello legale cli denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);

3.3. parimenti inammissibili risultano il terzo e quarto motivo di ricorso, concernenti il profilo della non contestazione della disponibilità della lavoratrice a trasformare il suo contratto in part time, sia perché involgono apprezzamenti di merito, sia perché vertono su circostanza non decisiva;

è noto che, nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della relevatio ad onere proba di, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fa to al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (Cass. n. 3680 del 2019; Cass. n. 3126 del 2019); inoltre, la circostanza fattuale dedotta nelle censure, a giudizio del Collegio, nel complesso della motivazione della sentenza impugnata è priva di valenza decisiva, nel senso richiesto dalle Sezioni unite di questa Corte che, ai fini della concretizzazione del vizio di cui al n. 5 novellato dell’art. 360 c.p.c., postulano che il fatto omesso abbia appunto carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);

3.4. infine, sono infondati il primo e secondo motivo di ricorso, che riguardano la questione della tutela reale applicata dai giudici del merito, atteso che la sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte;

è stato più volte affermato il principio secondo cui “la norma della L. n. 108 del 1990, art. 3, sull’estensione ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori di cui alla L. n. 604 del 1966 e alla L. n. 300 del 1970, art. 15 delle conseguenze sanzionatorie previste dalla medesima L. n. 300 del 1970, art. 18, a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche a favore dei dirigenti, deve intendersi applicabile in genere ai licenziamenti nulli per illiceità del motivo e, in particolare, a quelli che siano determinati in maniera esclusiva da motivo di ritorsione o rappresaglia” (in termini: Cass. n. 5635 del 2006, che cita, in motivazione, Cass. n. 4543 del 1999, Cass. n. 14982 del 2000, n. 3837 del 1997);

tale principio più di recente è stato ribadito da Cass. n. 19695 del 2016, esplicitamente richiamata dalla Corte territoriale, secondo cui:

“In tema di licenziamento, l’art. 4 della I. n. 108 del 1990, nel riconoscere alle cd. organizzazioni di tendenza il privilegio dell’inapplicabilità dell’art. 18 st.lav., fa salva l’ipotesi regolata dall’art. 3 sull’estensione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia, sicché, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore (nella specie, avente la carica di dirigente sindacale), restando privo di rilievo il livello occupazionale dell’ente e la categoria di appartenenza del dipendente” (v. anche, in motivazione, Cass. n. 17999 del 2019);

stante l’applicazione di detto principio di diritto, risulta del tutto irrilevante l’accertamento meno della qualità di organizzazione di tendenza nell’Associazione ricorrente, così come ogni eventuale vizio motivazionale, anche radicale, su detto aspetto;

4. conclusivamente, il ricorso, nel suo complesso, deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo Introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. 55.UU. n. 4315 del 2020);

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

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