Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 marzo 2023, n. 7306

Lavoro, Licenziamento per giusta causa, Permessi per assistenza ai genitori disabili,  Eliminazione dei requisiti della continuità e della esclusività dell’assistenza prestata al disabile, Nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona disabile, Conciliazione con le altre incombenze personali e familiari, La condotta posta in essere dal lavoratore nella fruizione dei permessi non deve integrare un abuso o uno sviamento dalle finalità del beneficio, Insussistenza di una condotta inadempiente, Tutela reintegratoria, Rigetto

 

Rilevato che

 

1. La Corte d’appello di Genova ha respinto il reclamo principale della (…) spa – (…) spa e il reclamo incidentale di confermando la sentenza del tribunale che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa, intimato con lettera del 10.5.2017, per avere il dipendente (in cinque giorni – sui sette controllati tramite investigatori privati – nei mesi di ottobre, dicembre 2016 e marzo 2017) usufruito dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, per finalità estranee all’assistenza dei genitori disabili.

2. La Corte territoriale ha premesso che il (…) aveva diritto ai permessi di cui all’art. 33 cit. per assistere entrambi i genitori in condizioni di handicap grave; ha accertato, attraverso plurimi testimoni, che nel mese di dicembre 2016 il predetto aveva trasferito il padre presso la propria abitazione, a causa dell’aggravarsi delle condizioni di salute della madre; che quindi per il tempo in cui il (…) è rimasto nella propria abitazione, nel mese di dicembre 2016, ha usufruito regolarmente dei permessi per assicurare l’assistenza al padre; che l’accesso, il 7 dicembre, presso un negozio di articoli sanitari, rilevato dagli investigatori, era finalizzato all’acquisito di una poltrona per la madre, come riferito dai testimoni, ed era anch’esso legato alle necessità di assistenza; che nei restanti giorni, oggetto di controllo investigativo, il (…) ha svolto altre incombenze rientranti nella finalità dei permessi, come recarsi dai medici che assistono i genitori o effettuare acquisti per le esigenze dei medesimi e, comunque, è rimasto nel quartiere ove si trovava la sua abitazione, quella dei genitori ed anche quella della sorella, con cui doveva coordinarsi, essendo anch’ella impegnata nell’assistenza ai genitori; in tale contesto, secondo i giudici di appello, dovevano considerarsi non decisivi gli intervalli di tempo non dedicati alla cura dei genitori ma, ad esempio, alla lettura di libri presso i giardini pubblici, circostanza rilevata dagli investigatori in due distinte occasioni nel periodo di tempo considerato (corrispondente all’orario di lavoro) e ogni volta per la durata di circa due ore.

3. Sulla base dei dati appena esposti, la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse sostanzialmente garantita dal lavoratore l’assistenza ai genitori, nei sette giorni oggetto di investigazione, ed ha sottolineato come tale onere di assistenza dovesse valutarsi con la necessaria flessibilità, in modo da poter considerare anche i bisogni personali del dipendente e l’integrità del suo equilibrio psicofisico, sottoposto ad una gravosa prova per le incombenze legate alla cura dei familiari in difficili condizioni di salute; ciò secondo una interpretazione che tenga conto dei principi costituzionali di tutela della salute e della solidarietà familiare.

4. I giudici di appello hanno quindi escluso che la condotta del lavoratore costituisse un grave inadempimento degli obblighi sul medesimo gravanti ed hanno giudicato il licenziamento privo di giusta causa ed anche di giustificato motivo soggettivo. Hanno respinto il reclamo incidentale del lavoratore per difetto di prova del motivo ritorsivo addotto.

5. Avverso tale sentenza la (…) spa – (…) spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. (…) ha resistito con controricorso. È stata depositata memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c., nell’interesse della società ricorrente.

 

Considerato che

 

6. Con il primo motivo di ricorso la società deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 33, legge 104 del 1992.

7. Afferma, richiamando precedenti di legittimità, come l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso debba porsi in “relazione diretta” con l’assistenza del disabile e critica la decisione d’appello nella parte in cui, richiamando la pronuncia di primo grado, reputa legittimo verificare la proporzione tra tempo-assistenza e tempo-svago avendo riguardo non all’orario di lavoro (tra le 9 e le 17) ma all’intera giornata di 24 ore, così introducendo la possibilità di una compensazione tra tempo-assistenza fuori orario di lavoro e tempo-svago durante l’orario di lavoro; ritiene contrario ai principi giurisprudenziali in materia che nel computo dell’assistenza prestata possano inserirsi le notti e il tempo estraneo all’orario di lavoro. A sostegno di tale lettura la società ricorrente invoca il regolamento Inps (prodotto dal lavoratore all’udienza del 7.2.2018) ed il regolamento aziendale (prodotto dalla società come doc. 9 del grado di appello), che riconoscono ai lavoratori il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile, anche “frazionabili in ore”, e rileva che, se si ammettesse, come fa la Corte d’appello, una possibile compensazione tra ne tempo-svago e tempo-assistenza nell’arco dell’intera giornata, la modalità di fruizione dei permessi “ad ore” non avrebbe alcun significato.

Assume che, secondo la corretta logica normativa, il tempo di assistenza debba essere direttamente commisurato alla mancata prestazione lavorativa, dovendo ogni esigenza di recupero psico-fisico del lavoratore

trovare spazio in orario extra lavorativo, come avviene nel caso in cui la normale prestazione di lavoro venga resa.

8. Con il secondo motivo di ricorso la (…) spa denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 48, lett. B) del c.c.n.l. nonché dell’art. 2119 c.c., assumendo che i comportamenti contestati sono certamente tali, nella loro oggettiva gravità, da compromettere irrimediabilmente la fiducia riposta dalla società nel lavoratore, pregiudicando ogni aspettativa di futura corretta prestazione; che la lesione del vincolo fiduciario è ancor più evidente ove si consideri che la procedura (…)” adottata dalla società e che garantisce ai lavoratori piena libertà e autonomia nella fruizione dei permessi, impone il massimo affidamento nella loro corretta gestione.

9. Con il terzo motivo di ricorso la società deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729, c.c., sostenendo come, a fronte di fatti certi oggettivamente incompatibili con l’assistenza ai genitori, era onere del lavoratore dimostrare di avere effettivamente destinato il tempo di lavoro alla cura dei medesimi, prova in realtà mai raggiunta ma indebitamente sostituita da reiterati richiami alla presunzione.

10. Con il quarto motivo si addebita alla sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 c.c. e dell’art. 3, legge n. 604 del 1966, per aver respinto anche la domanda subordinata della società, di conversione in licenziamento con preavviso, nonostante fosse innegabile il notevole inadempimento degli obblighi contrattuali e dei canoni etici da parte del lavoratore.

11. Con il quinto motivo si critica la decisione d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione dell’art. 112 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, per avere respinto senza motivazione alcuna, anche la domanda ulteriormente subordinata di applicazione della tutela indennitaria, di cui all’art. 18, comma 5, cit. Si assume che, se rapportati all’orario lavorativo, i tempi sottratti all’assistenza integrerebbero un’evidente sviamento rispetto alla finalità dei permessi e che quindi l’esclusione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso ricadrebbe nella valutazione di proporzionalità anziché di insussistenza del fatto. Si aggiunge che, pur nella denegata ipotesi in cui si decidesse di rapportare i tempi di non assistenza all’intera giornata, resterebbe comunque la certezza di una, sia pur ridotta, distrazione del permesso dalle sue finalità assistenziali, con conseguente sussistenza del fatto materiale e ciò basterebbe a precludere la tutela reintegratoria e ad indirizzare verso la tutela indennitaria.

12. Il primo motivo di ricorso, che pone la questione giuridica della individuazione di tempi e dei modi dell’assistenza ai familiari disabili da parte del lavoratore che fruisce dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, della legge 194 del 1992 (ndr art. 33, comma 3, della legge 104 del 1992), è infondato e parimenti infondati sono i residui motivi concernenti, tra l’altro, la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di recesso nonché le forme di tutela applicabili al licenziamento per cui è causa.

13. La disposizione di cui all’art. 33, comma 3 cit. è stata più volte modificata, prima ad opera della legge n. 53 del 2000 (art. 19) che ha eliminato il requisito della convivenza, e successivamente ad opera della legge n. 183 del 2010 (art. 24, comma 1) che ha eliminato i requisiti della “continuità” e della “esclusività” dell’assistenza prestata al disabile (successive modifiche sono state apportate dall’art. 6, d. Igs. n. 119 del 2011 e, da ultimo, dal d.lgs. 105/2022). L’art. 33, comma 3 cit., nella versione risultante dopo la legge n. 183 del 2010 e che rileva nella fattispecie in esame, prevede: “A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado […], ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa”.

14. Il permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3 cit., come sottolineato dalla Corte Cost. nella sentenza 213 del 2016, è espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Si tratta di uno strumento di politica socioassistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

15. La ratio della previsione in esame è quella di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare” (v. Coste cost., sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007) e si inserisce nelle più ampie finalità della legge 104 del 1992, di tutela dei soggetti portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da “rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, secondo quanto previsto dall’art. 3, comma 3, della legge n. 104 del 1992 (v. Cass. n. 21416/19).

16. Nella cornice appena descritta, che ha sullo sfondo i valori di rilievo costituzionale di cui agli artt. 2 e 32 Cost. nonché i principi di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale, il diritto ai permessi retribuiti è riconosciuto al “lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità”; il nesso che il testo normativo pone non è di tipo strettamente temporale, cioè tra la fruizione del permesso e la prestazione di assistenza in precisa coincidenza con l’orario di lavoro, bensì funzionale, tra il godimento del permesso e le necessità, gli oneri, gli incombenti che connotano l’attività di assistenza delle persone disabili in condizioni di gravità. Il contenuto dell’assistenza che legittima l’assenza dal lavoro (il permesso retribuito), quindi i tempi e i modi attraverso cui la stessa viene realizzata, devono individuarsi in ragione della finalità per cui i permessi sono riconosciuti, cioè la tutela delle persone disabili, il cui bisogno di ricevere assistenza giustificata il sacrificio organizzativo richiesto al datore di lavoro.

17. È quindi elemento essenziale della fattispecie di cui all’art. 33, comma 3 cit., l’esistenza di un diretto e rigoroso nesso causale tra la fruizione del permesso e l’assistenza alla persona disabile, da intendere, come questa Corte ha già chiarito, non in senso così rigido da imporre al lavoratore il sacrificio, in correlazione col permesso, delle proprie esigenze personali o familiari in senso lato, ma piuttosto quale chiara ed inequivoca funzionalizzazione del tempo liberato dall’obbligo della prestazione di lavoro alla preminente soddisfazione dei bisogni della persona disabile. Ciò senza automatismi o rigide misurazioni dei segmenti temporali dedicati all’assistenza in relazione all’orario di lavoro, purché risulti non solo non tradita (secondo forme di abuso del diritto) ma ampiamente soddisfatta, in base ad una valutazione necessariamente rimessa al giudice di merito, la finalità del beneficio che l’ordinamento riconosce al lavoratore in funzione della prestazione di assistenza e in attuazione dei superiori valori di solidarietà sopra richiamati (v. Cass. n. 19580/2019; Cass. n. 21520/2019; Cass. n. 30676/2018; Cass. n. 23891/2018; Cass. n. 20098/2017).

18. Sulla base di tali premesse, escluso, come già ribadito da questa Corte (v. Cass. n. 17968/16), un utilizzo dei permessi in funzione “meramente compensativa” delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza fornita in orario extralavorativo, spetta al giudice di merito valutare se la fruizione dei permessi possa dirsi in concreto realizzata in funzione della preminente esigenza di tutela delle persone affette da disabilità grave, e pur nella salvaguardia di una residua conciliazione con le altre incombenze personali e familiari che caratterizzano la vita quotidiana di ogni individuo.

19. Da ciò consegue che ove manchi del tutto un nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile, non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto o, secondo altra prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, privando sine causa il datore di lavoro della prestazione e determinando uno sviamento dell’intervento assistenziale dell’Inps (v. Cass. 17968/16; Cass. n. 9217/2016; Cass. n. 9749/2016; Cass. n. 4984/2014); nei casi in cui il lavoratore in permesso ex art. 33, comma 3 cit., svolga l’attività di assistenza in tempi e modi tali da soddisfare in via preminente le esigenze ed i bisogni dei congiunti in condizione di handicap grave, pur senza abdicare del tutto alle esigenze personali e familiari altre rispetto a quelle proprie dei congiunti disabili e pure a prescindere dall’esatta collocazione temporale di detta assistenza nell’orario liberato dall’obbligo della prestazione lavorativa, non potrà ravvisarsi alcun abuso del diritto o lesione degli obblighi di correttezza e buona fede, quindi alcun inadempimento.

20. La Corte di appello si è attenuta ai principi e criteri di giudizio appena richiamati e, sulla base di un puntuale accertamento e senza inversione alcuna degli oneri di prova, ha verificato come i giorni di permesso ex art. 33 cit. siano stati utilizzati dal lavoratore in misura prevalente per esigenze connesse all’assistenza dei genitori disabili, sia sotto forma di assistenza domiciliare e sia attraverso accessi in negozi sanitari e studi medici, contatti con altri familiari coinvolti nella cura dei genitori, escludendo di conseguenza che potesse configurarsi un inadempimento di rilievo disciplinare.

21. In coerenza con l’esito dell’accertamento svolto e con la esclusione di una condotta inadempiente rispetto ai doveri derivanti dal rapporto di lavoro, la Corte d’appello, in conformità ai giudici di primo grado, è giunta alla conclusione per cui la condotta posta in essere dal lavoratore nella fruizione dei permessi non integrasse un abuso o uno sviamento dalle finalità del beneficio e che quindi fosse insussistente il fatto contestato, dovendo trovare applicazione la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, della legge 300/1970, come modificato dalla legge 92/2012. La mancanza di una condotta inadempiente, di rilievo disciplinare, ha logicamente determinato la impossibilità di configurare anche i requisiti del giustificato motivo soggettivo di recesso (Cass. n. 6848/2010; Cass. n. 25743/2007), dovendosi escludere il vizio di omessa pronuncia al riguardo. Questa Corte ha chiarito che ad integrare il vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti il rigetto della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (cfr. Cass. n. 24155 del 2017; n. 17956 del 2015; n. 20311 del 2011).

22. Non vi è spazio per invocare la tutela di cui all’art. 18, comma 5, cit. poiché essa comunque presuppone che un fatto di rilievo disciplinare sia stato commesso e sia imputabile al lavoratore, ma che rispetto a tale fatto, per le caratteristiche oggettive o soggettive, risulti sproporzionata la sanzione espulsiva.

23. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto. Le spese sono regolate secondo il regime di soccombenza e liquidate come in dispositivo, con il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. S.U. 20 settembre 2019, n. 23535)

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 marzo 2023, n. 7306
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